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Lo sguardio di Acta su lavoro e precarietà, Sergio Bologna e Anna Soru
È difficile accettare l’impostazione corrente che divide l’universo del lavoro postfordista in mille piccoli gruppi (collaboratori veri e finti, patite Iva, mono e pluricommittenti, e così via), ognuno da considerare separatamente, in quanto una delle principali caratteristiche di questi lavoratori è proprio il loro transitare dall’uno all’altro gruppo, da una condizione contrattuale all’altra, da una variante all’altra della precarietà. Il modello del lavoro dipendente a vita è tramontato, volerlo perpetuare integrandolo con tanti modellini di "atipicità" ci riporta continuamente indietro.
Precarietà inevitabile strutturale
Non ha senso discutere se la precarietà sia un bene o un male, la precarietà è, e sempre più sarà, inevitabile e strutturale. Non riguarda solo coloro che sono in fase di ingresso o reingresso nel mondo del lavoro, come ormai ben sanno non solo i lavoratori autonomi nati dai processi di esternalizzazione delle imprese, ma anche i dipendenti nei settori esposti alla concorrenza (dalla piccola impresa tessile alla grande impresa bancaria), e i professionisti tradizionali (come giornalisti, avvocati, architetti) cui l’appartenenza a un ordine non garantisce più percorsi protetti. In un paese in cui l’occupazione cresce ormai quasi esclusivamente nella microimpresa è velleitario cercare di stabilizzare il lavoro intermittente o aleatorio per legge. Solo il settore pubblico garantisce in parte ancora un lavoro sicuro per la vita.
La Cgil nega l’evidenza di queste radicali trasformazioni, affronta singolarmente le nuove figure (che ne sono l’effetto e non la causa) con l’obiettivo di ricondurle nell’alveo del lavoro dipendente a tempo indeterminato, che è anche l’ambito della sua influenza, incurante del fatto che molti di questi lavoratori non desiderino un’occupazione in cui l’organizzazione del proprio lavoro, dei tempi e dei luoghi sia definita gerarchicamente (secondo una ricerca Ires sui professionisti con partita Iva iscritti al Nidil, solo il 13 per cento vorrebbe che i sindacati si battessero per il loro riconoscimento come lavoratori dipendenti: perché la Cgil non legge i risultati delle sue ricerche? (1)
Non possiamo perciò condividerne le posizioni, né l’affanno di certi sindacalisti a trovare le modalità per realizzare forme di stabilizzazione astratte, capaci soltanto di irrigidire il mercato del lavoro, né il furore di altri sindacalisti nel voler abrogare leggi meno "flessibilizzanti" di quelle del pacchetto Treu.
Ciò che sarebbe auspicabile invece è semmai la progettazione di nuovi strumenti per negoziare un miglioramento economico, che rendano attuabile il principio per cui il lavoro autonomo possa entrare nella sfera delle relazioni industriali quanto il lavoro dipendente. Strumenti che possano sostituire la contrattazione individuale, in un ambito in cui non è praticabile la contrattazione collettiva e non sarebbe né sostenibile, né efficace la creazione di barriere protettive attraverso nuovi albi professionali.
In mancanza di questo, evidentemente l’unica possibilità che resta a noi lavoratori autonomi è quella di chiedere un sistema di compensazioni sul fronte fiscale e previdenziale.
E sono infatti queste le prime rivendicazioni di Acta, Associazione consulenti terziario avanzato, (2), nata dall’auto-organizzazione di un gruppo di professionisti per colmare un vuoto nel sistema di rappresentanza, per cercare nuove forme di tutela specifiche per il lavoro autonomo, diverse da quelle che si stanno profilando. In particolare contestiamo:
1. l’aumento dei contributi previdenziali, su livelli non sostenibili, poiché non abbiamo il potere contrattuale per scaricarli sui committenti e quindi sono a nostro carico;
2. la predisposizione di nuovi studi di settore, inutili come strumento di controllo per una popolazione di contribuenti che non possono tecnicamente praticare forme di evasione in quanto la loro remunerazione è un costo che le imprese committenti vogliono documentare per poterlo detrarre dai ricavi, ma tali da creare difficoltà a chi dovrà dimostrare un calo di reddito dovuto a periodi di non lavoro;
3. l’innalzamento dell’Irap (illegittimamente applicata a lavoratori senza una stabile organizzazione, come da sentenza costituzionale 156/2001) nelle Regioni con gestione sanitaria deficitaria (che responsabilità abbiamo della cattiva gestione delle Regioni?);
4. il taglio delle consulenze della Pa, che hanno creato occasioni di lavoro per molti di noi (perchéè deve essere considerata uno spreco la spesa per collaborazioni che, se inefficienti, possono non essere rinnovate e non la spesa per un dipendente che, anche se inefficiente, non può essere sostituito?).
Al contrario chiediamo una revisione del sistema fiscale, che elimini l’Irap e definisca detrazioni coerenti con la nostra attività. A che ci serve poter detrarre capannoni e impianti se il nostro unico asset è il computer? Sarebbe invece fondamentale detrarre interamente spese di comunicazione, trasporto e formazione. Sarebbe urgente il ridisegno dell’attuale sistema pensionistico, che deve garantire aliquote di computo eque e analoghe a quelle utilizzate per altre categorie di autonomi (quali ad esempio artigiani e commercianti) e che copra l’assicurazione delle malattie.
(1) Ires Professionisti, ma a quali condizioni?, settembre 2005.