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Lo strano modo per affrontare la questione salariale
Publie le lunedì 7 gennaio 2008 par Open-Publishing1 commento
Ormai non esiste nessuno sulla terra che non chieda che i salari vengano aumentati.
Lo chiede il Governo che (dopo aver tagliato le pensioni) dichiara ora la questione salariale prioritaria.
Lo chiede Bankitalia, preoccupata per una riduzione dei consumi che fa tanto male all’economia.
Lo chiedono i padroni (Confindustria) che mentre si lamentano per ogni euro richiesto in piattaforma sindacale pretendendo contropartite sempre più pesanti per ogni cent che concedono, invitano il Governo ad aumentare il reddito netto ai "poveri lavoratori" e, già che c’è, a tagliare ancora altre tasse alle imprese.
Ovviamente lo chiedono pure i Sindacati che dopo anni di moderazione salariale e celebrazione del modello concertativo scoprono ora di non aver saputo difendere i salari dall’inflazione nè tanto meno a garantire equità nella distribuzione della ricchezza prodotta. ... un vero e proprio flop della tanto decantata linea concertativa. Ovviamente Cgil Cisl Uil non la dicono così ... ma così è in realtà.
C’è da riconoscere che Cgil Cisl Uil si sono trovati un pò spiazzate da questo coro unanime su materie che dovrebbero essere di loro principale preoccupazione e per distinguersi e farsi sentire alzano parecchio la voce sopra il coro, arrivando addirittura a minacciare uno sciopero generale.
A guardare le cose così come appaiono tutto dovrebbe essere semplice.
Tutti dicono che i salari sono bassi e che bisogna aumentarli. Cosa c’è di meglio allora che chiedere un aumento dei salari ?
Più semplice di così si muore ... ma non è così.
La strategia a cui tutti affidano l’aumento dei salari è ben sintetizzabile nelle parole d’ordine ....
– Manutenzione del modello contrattuale
– Riduzione delle trattenute sulle retribuzioni.
Che vuol dire "Manutenzione del modello contrattuale" ?
I più benevoli dicono che serve una manutenzione del protocollo del 1993 perchè così com’è non funziona più. Contratti rinnovati in ritardo, inflazione programmata troppo bassa, troppa frantumazione contrattuale ecc. A sentire loro se i salari non sono aumentati quanto serviva è colpa di un modello che se prima (a sentir loro) funzionava a meraviglia, si è ora inceppato. In realtà il problema è che il modello del 93 era sbagliato in sè perchè obbliga la contrattazione dentro ad un quadro di compatibilità che non c’entra nulla con la tutela dei salari, e perchè fa affidamento ad una politica dei redditi che in realtà pesa come una mannaia solo sui salari. Aggiungiamo pure l’incapacità (spesso anche la non volontà) di rispondere alle forzature padronali con una efficace risposta sindacale.
Per questi, tutto si risolverebbe appunto con un nuovo quadro di regole tra gentiluomini che renda più esigibile la contrattazione. Ovviamente ciò non garantisce l’aumento dei salari.
I più malevoli aggiungono anche che, visto che il modello del 93 non è riuscito ad intercettare la produttività, la nuova contrattazione dovrà puntare solo sull’aumento e sulla redistribuzione della produttività. Lasciamo al contratt5o nazionale solo il ruolo di garantire un "minimo".
Un concetto ben sintetizzato da Bonanni (Cisl) .... "Basta col salario a prescindere".
Benevoli e malevoli concordano comunque su un fatto e cioè che bisogna aumentare la quota di salario variabile (legato al raggiungimento di obiettivi di produttività e redditività di impresa) e che quindi va spostato (chi dice di più e chi dice di meno) il baricentro della contrattazione sul livello decentrato.
Rimane aperta una discussione su quel che deve rimanere del contratto nazionale. Per Cisl, Uil e Confindustria dovrebbe ridursi al lumicino e magari anche passando dall’attuale biennio al triennio contrattuale, la Cgil (più tiepida) spera in un contratto nazionale che rimanga ancora riferimento centrale della contrattazione. Una discussione in realtà del tutto filologica visto che su uno spostamento di peso sul salario variabile sono d’accordo tutti e tanto basta per condannare la contrattazione nazionale ad un lento ed inesorabile svuotamento.
Ora ci si domanda.
Se il problema da cui partono tutti è quello di aumentare i salari, perchè allora non si comincia a chiedere maggiori aumenti salariali facendo piazza pulita di tutti quei vincoli e quelle predeterminazioni che hanno di fatto condannato i salari, in tutti questi anni, ad una sorta di riduzione programmata ?
Se i problema da risolvere è quello di tutelare i salari almeno dall’inflazione reale, perchè allora non puntare a ripristinare una sorta di adeguamento automatico, lasciando cos’ la contrattazione libera di concentrarsi sulla redistribuzione sui salari di una quota della maggiore ricchezza prodotta ?
Ma a quanto pare il problema, così come è posto da Cgil Cisl Uil nel rapporto con le parti padronali, non è quello di aumentare le retribuzioni ma di fare "manutenzione" al modello contrattuale del 93 proponendone una rivisitazione che ha tutta l’aria di portarci in alto mare secondo l’assunto che "per guadagnare di più bisogna lavorare di più" ... cosa altro è il legare maggiori quote di retribuzione agli obiettivi di produttività ???
Che vuol dire "Riduzione delle trattenute sulle retribuzioni".
Quanto poco c’entri la discussione sul nuovo modello contrattuale con l’obiettivo di aumentare i salari lo abbiamo appena visto. Non sarà infatti alle imprese che si chiederà di redistribuire un po di quella redditività aumentata in almeno 10 anni a causa del contenimento dei costi salariali ed occupazionali.
L’aumento delle retribuzioni viene rivendicato in primis ed essenzialmente al Governo. L’assunto è semplice. Se si riduce la tassazione la retribuzione netta aumenta.
Plaude Confindustria che così vede ridursi la pressione salariale sulle sue tasche. Ammicca il Governo (diviso tra gli entusiasti ed i iper-perplessi) che in qualche modo vede in questo una possibilità di recuperare un po di consenso. Plaudono ovviamente Cgil Cisl Uil che intravvedono un facile risultato ma che vorrebbero intascare presto anzi subito.
A noi rimangono non poche perplessità.
E’ chiaro che riducendo le tasse sulle retribuzioni aumenta il netto in busta paga. ma questo non è un aumento salariale, è semplicemente l’anticipazione in busta paga di quello che lo stato dovrebbe restituirci in termini di salario sociale (servizi, istruzione, sanità ecc).
Infatti cosa sono le tasse se non un contributo che tutti i redditi devono fornire per il funzionamento dello Stato, del suo apparato e dei servizi che questo deve erogare in conformità al dettato costituzionale che a quei servizi hanno diritto tutti indipendentemente dalla loro condizione sociale.
Il fatto è che la richiesta di detassare i salari indirettamente da manforte a quella filosofia di punta che da anni Capitale e rendita sostengono, e cioè che vanno ridotte drasticamente le tasse in quanto lacci e lacciuoli allo sviluppo (dei loro redditi).
Ora è chiaro che se dovesse passare la logica di ridurre le tasse come volano dello sviluppo (teoria sostenuta proprio oggi da Bankitalia) la conseguenza immediata sarà un peggioramento delle disponibilità di spesa pubblica a sostegno di quei servizi che dovrebbero essere garantiti a tutti. Una strada che apre al peggioramento delle condizioni di vita di milioni di lavoratori (e quindi delle loro condizioni salariali) ed alle privatizzazioni selvagge (quelle per capirci all’americana dove vieni curato in ospedale solo se hai i soldi).
Cgil Cisl Uil si sono messi su una strada facile per ottenere nell’immediato qualche lira in più sulle retribuzioni ma è una strada piena di pericoli e dalle conseguenza imprevedibili e non buone.
Molto pià difficile ed impegnativo sarebbe stato semplicemente cambiare linea rivendicativa e pensare a richieste contrattuali più serie o alla reintroduzione di un sistema automatico di adeguamento delle retribuzioni all’inflazione reale. Ma questo, si sa, porta dritto a litigare con Confindustria ... cosa che Cgil Cisl Uil vogliono evitare. Non ne hanno la forza e non ne hanno la voglia.
La strada quindi delle riduzioni del peso fiscale sulle retribuzioni è una strada piena di pericoli, facile da sdoganare per i suoi risultati immediati ma condannata a finire in un vicolo cieco.
La confusione regna
Il prossimo 8 gennaio Cgil Cisl Uil avranno un incontro col Governo per discutere appunto di detassazione dei redditi.
L’unica cosa certa che è stata messa nelle disponibilità del governo è la detassazione del salario ottenuto in cambio di maggiore produttività. Praticamente quel che ne esce è una incentivazione a sostenere lo sviluppo del salario ad incentivo (forma moderna del cottimo), ma anche su questo è tutto da vedere. C’è già nel Governo chi propone di far valere questa detassazione solo per i primi due anni.
Ciò che emerge è che ci sono porte aperte e sfondate per sostenere anche finanziariamente tutto ciò che va nella direzione di rivedere il modello contrattuale a favore del salario ad incentivo (quello legato alla produttività), ma molta cautela sul resto.
Riguardo alla revisione delle aliquote ed alle detassazioni in generale si sa poco. Si sa intanto che fino ad aprile non se ne potrà parlare (si aspetta infatti il quadro sull’andamento delle entrate fiscali). Si dice che se detassazione deve essere questa va rivolta a sostegno dei redditi bassi, dei non abbienti e delle famiglie numerose. Tanti paletti che vogliono dire solo una cosa. Poche idee chiare ed una disponibilità tutta da verificare.
Certo Cgil Cisl Uil vanno all’incontro con la minaccia di uno sciopero generale in tasca e non è detto che per un motivo o per un’altro si arriverà a proclamarlo veramente.
Ma qui sorge un problema. Su cosa esattamente saremo chiamati a fare uno sciopero ? Non certo solo per lamentarci e non certo sulla base di quel generico documento presentato da Cgil Cisl Uil all’assemblea nazionale tenutasi a Milano il 24 novembre 2007.
Quello che manca è ancora una volta una piattaforma ed un sindacato che abbia la capacità di andare ad ascoltare i lavoratori prima di avanzare delle proposte. Una carenza che denunciamo sia riguardo al confronto col Governo che con Confindustria sul modello contrattuale.
Vogliamo veramente conquistare un nuovo modello che garantisca ai salari di aumentare veramente? ... allora bisogna litigare con Confindustria per liberare i contratti dagli attuali vincoli e ripristinare un sistema di adeguamento dei salari all’inflazione reale ... altro che concertazione .. altro che chiacchere.
7 gennaio 2008
COORDINAMENTO RSU
http://www.coordinamentorsu.it/doc/altri2008/2008_1207_rsu.htm
Messaggi
1. Lo strano modo per affrontare la questione salariale, 7 gennaio 2008, 16:07
DIARIO DELLA CRISI FINANZIARIA
Speciale questione salariale
Divampa dai giorni nei chiacchiericci della politica e sulle pagine dei giornali la cosiddetta questione salariale, che è poi l’altra faccia del più grande processo di redistribuzione del reddito in favore dei profitti e dei redditi da lavoro autonomo a danno di quelli dei lavoratori dipendenti e dei pensionati.
Come tutte le questioni che hanno attinenza con il potere economico e con quello politico, ogni volta che viene sventolata una questione è difficile, come insegna il libro più letto al mondo, distinguere il grano dal loglio, e, quindi, come per le questioni di cui questo blog si occupa quotidianamente sono necessari non uno, ma almeno due passi indietro per orientarsi nel polverone sollevato dalle troppe parole e dichiarazioni.
Come è a tutti noto, governante Giuliano Amato ed in piena Tangentopoli, il 31 luglio del 1992 fu raggiunta la famosa intesa triangolare tra Governo, imprenditori e sindacati per abolire, dopo un lungo processo di desensibilizzazione della stessa, la cosiddetta scala mobile, sostituita, anche se l’intesa in tal senso verrà perfezionata nel secondo e più famoso accordo del 23 luglio 1993, ma stavolta al governo c’era Carlo Azeglio Ciampi, dall’introduzione del biennio economico nell’ambito del contratto normativo a valenza quadriennale.
Si trattò di una decisione talmente sofferta che l’appena scomparso Bruno Trentin, allora segretario generale della CGIL, firmò e, poco dopo essere uscito da Palazzo Chigi, rassegnò le sue dimissioni da capo del più grande sindacato d’Italia, ritenendo che lo scambio tra la protezione automatica, per quanto sempre meno efficace, rappresentata dalla scala mobile sarebbe stata poco più che compensata dal rinnovo biennale della parte economica dei contratti, con il prevedibile risultato di una perdita in prospettiva dei redditi da lavoro dipendente che sino a quel momento avevano sommato la contingenza con aumenti più a carattere reale derivanti dalla contrattazione di primo e secondo livello.
L’analisi della distribuzione del reddito negli anni che vanno dal 1993 al 2001 conferma clamorosamente che la sensazione e la sofferenza di Trentin, dalle quali non erano certo immuni gli altri leader confederali, era più che fondata e che, dopo due decenni di acquisizioni, anche significative per i lavoratori dipendenti, iniziava il processo di progressiva perdita del potere di acquisto di salari e stipendi, un processo che, seppur tra alti e bassi, non si sarebbe più interrotto.
Ma il secondo passo indietro che propongo è ancor più doloroso del primo e, seppur più recente, ha prodotto effetti davvero micidiali sulla questione salariale ed è rappresentato dalle condizioni a cui è avvenuta la partecipazione dell’Italia, sin dal suo avvio, al processo di introduzione dell’euro, un processo che ha visto nel 1998 la fissazione dei cambi tra le valute partecipanti e, a fine anno, la relativa parità delle singole valute con l’euro, mentre per la vera e propria circolazione, cioè per il change over, si sarebbe dovuto attendere l’inizio del 2002.
Premettendo che si è trattato di una scelta di grande respiro ed in qualche modo obbligata, non si può, tuttavia, prescindere dal fatto che la stessa veniva presa appena sei anni dopo l’uscita precipitosa della lira e della sterlina dal Sistema Monetario Europeo a causa di una pesante svalutazione che le due valute avevano subito, in parte per motivi oggettivi, ma anche per una difesa ad oltranza di livelli irrealistici, una difesa che era stata talmente esasperata e letteralmente sanguinosa per le riserve valutarie da determinare quasi esattamente quei livelli di svalutazione che Soros e compagni avevano indicato nelle loro scommesse.
Risalire la china dopo una simile batosta fu davvero faticoso, ma in qualche modo la lira si stava riprendendo quando, a causa del ciclo politico che vide l’avvento del primo governo Berlusconi, la sua repentina caduta sette mesi dopo il giuramento e i 18 mesi circa del governo Dini, un governo talmente debole che chiamò nuovamente a nozze la speculazione internazionale che si divertì a giocare a tiro a segno con la nostra valuta che arrivò a toccare l’astronomico livello di 1.250 lire per un marco tedesco.
Con la vittoria del centro sinistra ed il Governo Prodi si assistette ad un recupero straordinario della nostra valuta che, dall’onta dei 1.250 contro marco si riportò in vista della soglia di 1.000, ma certamente i meno di due anni trascorsi dall’inizio del recupero e la famosa notte dei lunghi coltelli in cui i ministri dell’economia ed i governatori fissarono le parità fisse ed irrevocabili rappresentavano un lasso di tempo troppo breve per tornare a livelli di equilibrio nei cambi di mercato tra la lira e le principali valute europee.
Nonostante ciò, il negoziato avveniva con un cambio con il marco ormai intorno alle 950 lire ed il ritmo di recupero della nostra valuta unito ai risultati davvero eccezionali sull’ostico versante della finanza pubblica avrebbero consentito, come peraltro chiesero perentoriamente le delegazioni tedesche ed olandesi, di fissare il cambio almeno a 900-925 lire contro marco, per non parlare della possibilità di una fissazione che tenesse conto, come sarebbe stato possibile, di un livello ancora più basso ma più in linea con il cambio di lungo periodo tra le due valute, ma la delegazione italiana era irremovibile su di un cambio posto poco al di sopra delle 1.000 lire e si piegò solo quando si raggiunse il livello delle 990 lire che, pochi mesi dopo, si tradusse in 1.926,27 lire per un euro.
Quando il banditore, come insegnavano gli economisti neoclassici, si trovò a battere il suo strumento, tutti i valori espressi in lire, redditi, valori immobiliari e mobiliari, crediti, debiti eccetera furono tramutati nel loro equivalente in euro, con il risultato che i cittadini dei paesi europei le cui valute che si erano rafforzate nella tempesta valutaria degli anni ’90 ottennero, in proporzione, più euro per i loro marchi, franchi francesi, fiorini olandesi, persino per le loro peseta, mentre gli italiani si ritrovarono con redditi del 15-20 per cento almeno più bassi.
Lo stesso sarebbe dovuto accadere anche per i prezzi e le tariffe, ma la storia, come è noto, andò in un altro modo sia per fenomeni speculativi, sia perché, come aveva previsto uno studio della BCE che non ha circolato molto, l’adozione della moneta unica avrebbe prodotto in tempi relativamente basso l’innalzamento del livello medio di quei paesi partecipanti che si trovavano ad un livello basso e l’abbassamento del livello medio dei prezzi per quei paesi che si trovavano su livelli viceversa elevati.
I risultati dei due fenomeni sono oggi sotto gli occhi di tutti ed è ora che qualcuno studi le opportune contromisure.
Marco Sarli
Responsabile Ufficio Studi UILCA