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Mia madre si era immaginata che la Francia fose come nei film in bianco e nero degli anni Sessanta

Publie le venerdì 25 luglio 2008 par Open-Publishing

Mia madre si era immaginata che la Francia fose come nei film in bianco e nero degli anni Sessanta

diGuido Caldiron

«Mia madre si era immaginata che la Francia fose come nei film in bianco e nero degli anni Sessanta. Quelli con l’attore figo che racconta un sacco di scemenze alla sua donna, tenendo fissa la sigaretta in bocca. Lei e sua cugina Bouchra erano riuscite a captare i canali francesi grazie a un’antenna rudimentale fatta con una pentola d’acciaio per il couscous. Così, quando è arrivata con mio padre a Livry-Gargan nel febbraio del 1984, ha pensato che avevano scambiato nave e sbagliato paese. Mi ha detto che, appena arrivata in quel minuscolo bilocale, per prima cosa ha vomitato».

Sono passati più di due secoli ma il cuore è sempre lo stesso. Prima c’era la Parigi di Balzac e Sue, quella di Flaubert e Maupassant, di Hugo e Zola. Poi c’è stata quella di Camus e Queneau, Sartre e de Beauvoir. Poi ancora quella del polar, da Manchette a Daeninxckx. Per finire con il quartiere di Belville trasformato in icona della letteratura da Daniel Pennac. Ma tutto questo è accaduto "prima". Prima che il romanzo francese si facesse prendere per mano dolcemente ma in modo risoluto dagli "ultimi arrivati": immigrati di seconda o terza generazione, banditi che hanno incontrato libri e poesia nelle celle di Fleury Mérogis, gente delle banlieue che per il solo fatto di vivere con neri e arabi è diventata un po’ speciale, un po’ più irrequieta e un po’ meno francese.

Nel primo anno di regno del nuovo signore di Parigi, quello che si è appena fatto votare una Riforma costituzionale che lo rende arbitro delle sorti della democarzia transalpina e che aveva definito "feccia" i ragazzi che vivono oltre il boulevard périphérique della capitale, l’immagine non potrebbe essere più bizzarra. Mentre sui lungo Senna e nei viali alberati della città del potere ha luogo un piccolo golpe all’insegna della restaurazione e in odio alla "cultura permissiva e libertaria" del ’68, oltre i terreni abbandonati della periferia, in mezzo alle torri delle case popolari si prepara la rivolta. Non più auto date alle fiamme, commissariati attaccati a colpi di molotov, scontri con gli agenti: questa volta la banlieue si prende la sua rivincita conquistando il cuore stesso del romanzo francese, inventando una galleria di personaggi e di storie che fotografano una realtà che la politica non incontra più. O che semplicemente finge di non vedere.

Un pugno di scrittrici e scrittori - ma sono solo la parte emersa di un fenomeno molto più vasto e che attraversa anche la musica e il cinema -, diversi per età, esperienze e stili si è assunta la responsabilità di descrivere l’educazione sentimentale dei giovani precari e disoccupati, di raccontare la vita quotidiana ai piedi di un palazzo Hlm, lo Iacp d’oltralpe, o nelle celle di un riformatorio, di spiegare quella via criminale che può condurre i poveri allo stesso benessere dei ricchi e di dare sostanza ai sogni delle Bridget Jones velate delle periferie dell’Islam di Parigi. Il tutto senza retorica o voglia di stupire, ma solo per parlare della Francia di oggi.
Faiza Guène è nata nel 1985 a Parigi, figlia di immigrati algerini, e vive a Pantin nella periferia nord della capitale.

Nel 2004 il suo Kif Kif domani (Mondadori, 2005) è stato un vero caso letterario, doppiato nel 2006 da Ahlème, quasi francese (pubblicato quest’anno sempre da Mondadori). In Kif Kif raccontava la sua storia partendo dall’arrivo in Francia dei suoi genitori e da quelle crisi di vomito che coglievano così spesso sua madre: «non ho mai capito se fosse l’effetto del mal di mare o un presagio del suo futuro in questo paese». La storia di Ahlème è invece fino in fondo la sua, quella di quei milioni di «quasi francesi» che fanno i conti ogni giorno con la difficile ricerca di un lavoro e con la vita in quartieri definiti "difficili" e che conservano, in famiglia o nelle amicizie, il senso delle proprie radici plurali. «Si gela in questa landa, il vento mi fa lacrimare e io corro per riscaldarmi. Mi dico che vivo nel posto sbagliato, che questo clima non fa per me, perché in fondo è solo una questione di clima, e stamattina il freddo polare della Francia mi paralizza.

Mi chiamo Ahlème e cammino fra la gente, uomini e donne che corrono, si urtano, si affrettano, litigano, telefonano, non sorridono, e vedo i miei fratelli che, come me, hanno un gran freddo. Li riconosco a colpo sicuro, hanno negli occhi qualcosa di diverso, si capisce che vorrebbero essere invisibili, stare altrove. E invece sono qui».

Dei nuovi romanzieri di Francia Faiza Guène è senza dubbio la più nota, tradotta in tutta Europa e corteggiata dalle case di produzione che vorrebbero trarre film dalle sue storie. All’inizio di giugno G2 , l’inserto quotidiano del Guardian , le ha dedicato una lunga intervista che testimonia proprio dell’interesse crescente verso la nuova narrativa francese figlia dell’immigrazione e della banlieue. Il giornale britannico presenta Guène come «la Bridget Jones della periferia parigina». E in effetti il suo primo romanzo - come racconta lei stessa - è nato come «un diario intimo. Niente di sensazionale, solo un piccolo elenco di quello che mi succedeva ogni giorno». «In effetti racconto la vita nella sua banalità, mi ispiro ai dettagli del quotidiano che attirano la mia attenzione e che mi restano in mente». «La periferia, in tutto questo, è solo lo scenario - aggiunge Faiza Guène - solo che è anche il posto in cui vivo e che amo: credo che non si possa infatti che raccontare un luogo che si conosce e si ama».

Nessuna rivendicazione, la denuncia del razzismo che trapela talvolta sul fondo, uno schema narrativo piano, come tranquilla appare la vita dell’autrice: una ragazza di trent’anni che parla dei propri affetti, della famiglia, del posto in cui vive. Ma è proprio questa semplicità a rendere Guène una figura decisiva: con lei, pagina dopo pagina, si afferma una Francia che non è sempre facile scorgere sui giornali o in tv lontano delle rubriche della "cronaca nera". Ci sono i diritti negati dalle istituzioni, l’attesa spasmodica del rinnovo del permesso di soggiorno, ma anche le prigioni identitarie della religione e delle tradizioni "culturali" del Maghreb impiantate nel bel mezzo della periferia di Parigi.

Su tutto la capacità di sorridere e tenere dentro di sé tutti i pezzi di questa identità ricca e contraddittoria. «Oggi ho fatto la kerentita, una ricetta che mia ha insegnato mia nonna Mimouna quando ancora stavo in Algeria - racconta Faiza Guène in Ahlème, quasi francese - Ricordo ancora quando, la mattina presto, il venditore ambulante faceva il giro dell’isolato sulla sua vecchia bicicletta e gridava: "Eccola, è qui per voi, la kerentita!". Allora io e le mie cugine uscivamo di corsa per comprargliene un po’. Lo zio Khaled dava in escandescenze: "Tornate dentro, pazze scriteriate! Volete che vi vedano tutti? Gli uomini vi guarderanno, vergogna! Tornate in casa!"».

All’estremo opposto di questa geografia narrativa, partendo dall’esempio di Guène, c’è il volto duro di Nan Aurousseau, classe 1951, di professione idraulico e un’amore per la letteratura scoppiato all’interno di una cella durante i sette anni trascorsi in carcere dopo una condanna per rapina a mano armata. Se la giovane araba di Parigi è stata paragonata a Bridget Jones, a proposito di Aurousseau più d’uno ha chiamato in causa Edward Bunker, il rapinatore che si è trasformato in protagonista dell’hard boiled statunitense. Con lui - parecchie sneggiature e due romanzi all’attivo, Blues di banlieue (2005) e Dello stesso autore (2008), entrambi ubblicati in Italia da E/O, si cambia decisamente scena. «Cinque spari, cinque sobbalzi sull’asfalto.

Il mio amico Marco era morto, ucciso da altri delinquenti per una storia di slot machine finita male. Tutta la gente di quegli anni, tutti i rapinatori della zona con i quali ero andato a scuola, tutti quei ragazzi erano morti oppure all’ergastolo - scrive in Dello stesso autore - Dei fratelli Amriche ne restava solo uno, Muss, che sarebbe rimasto in carcere ancora per qualche anno, il piccolo Tonio era stato ritrovato vicino alla sua moto con l’osso del collo spezzato, il mio amico Jo era finito annegato nella Senna dentro un baule insanguinato. Per i più giovani era stata la droga a fare piazza pulita, un’amica si era impiccata in cella, un’altra era morta di overdose, e quanti altri di cui mi è doloroso tenere il conto!».

Aurousseau è cresciuto nel XX arrondissement di Parigi e in galera c’è finito che aveva solo diciott’anni. Poi, l’incontro con il giallista Patrick Manchette e la voglia di riprovarci, questa volta con i libri. Il mondo dei banditi e quello della periferia i luoghi della sua memoria da cui è partito per scrivere. Senza dimenticare il senso di ingiustizia appreso fin da piccolo, prima in strada e poi in cella. «Le banlieue parigine - spiega - vivono una situazione di povertà e miseria paragonabile alle più disastrate città del Terzo mondo. La parola stessa significa "bandito dal luogo", allontanato per sempre. Non esiste alcun tipo di politica di assistenza sociale.

E’ facile perdere la speranza che le cose cambino. E i giovani non vogliono più assomigliare ai loro padri, visti come dei falliti, che tutti i giorni si alzano per spaccarzi la schiena e tutte le sere tornano a casa ubriachi. I ragazzi vedono la tv, vogliono le Nike e la Mercedes. Perché il loro unico orizzonte virtuale è dato dalla pubblicità. Desiderano una felicità che costa molto cara e che non possono permettersi. E allora bruciano le auto, alzano le barricate e attaccano la polizia».

Sia per Guène che per Aurousseau la banlieue resta però un territorio a sé, lontano per abitudini e stili di vita da Parigi, da cui è separata da un viaggio di mezz’ora di treno. «Le periferie verranno spinte sempre più lontano dal centro, e cresceranno a dismisura, come le bidonville sudamericane. Ma, paradosssalmente, diventeranno sempre più invisibili, perché saranno nascoste con vergogna dai governi - sottolinea Aurousseau che descrive la capitale francese come «una città arroccata nella sua ricchezza che ha espulso chi non riteneva degno di ospitare».

Anche per Samuel Benchetrit, scrittore e regista, che completa il nucleo centrale di questa nouvelle vague letteraria, Parigi è lontana, irrangiungibile e ostile. Nato nel 1973 nella periferia sud della capitale, Benchetrit ha inaugurato con Cronache dall’asfalto (Neri Pozza, 2007) un percorso a metà strada tra l’autobiografia e il romanzo sociale. «Racconto la vita quotidiana degli abitanti di una città periferica immaginaria. Le banlieue sono tutte uguali, una vale l’altra. Sono luoghi grigi ed elettrici, privi di fascino, in cui è molto difficile vivere.

Ma la gente che vi abita è intrigante e singolare, per niente anonima», sottolinea prima di raccontare la sua "prima volta a Parigi": «La prina volta che ho provato un sentimento di solitudine è quando a sedici anni sono arrivato nella capitale, come assistente di un fotografo. Non esisteva più la solidarietà e il senso di appartenenza a una comunità che avevo trovato in periferia». Per chi non ce l’ha fatta con la letteratura, conclude Benchetrit, resta però pur sempre la strada della rivolta, che non è poi così lontana: «i rivoltosi lottano per il diritto ad accedere alla bellezza. Vogliono sognare e conquistare la cultura dell’immaginazione».