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Migliaia di ettari coltivati a grano per produrre etanolo: ma vogliamo guidare o mangiare?
Publie le sabato 10 marzo 2007 par Open-PublishingAgrocombustibili: la una nuova catastrofe ecologica targata Bush
Migliaia di ettari coltivati a grano per produrre
etanolo: ma vogliamo guidare o mangiare?
di Sabina Morandi
Il riscaldamento globale
vi spaventa? Le guerre
per il petrolio vi fanno
sentire in colpa? Il
presidente-petroliere ha la
ricetta per salvare il
pianeta: si chiama
agrocombustibile e Bush è
volato in Brasile proprio
per dare l’avvio alla
creazione di un mercato
internazionale
dell’etanolo, che un giorno
potrebbe rivaleggiare con
il petrolio come materia
prima globale. E’ bastato
lanciare l’idea di un’“Opec
dell’etanolo” che è
scoppiata una vera e
propria frenesia degli
investimenti nel settore
che promette di sostituire
il greggio dei perfidi arabi
con l’alcool ricavato da
apposite coltivazioni.
Per i suoi sostenitori
l’etanolo, che si può
ricavare dal mais, dalla
canna da zucchero, dal
grano e praticamente da
ogni tipo di coltivazione, è
una specie di panacea
verde: una fonte di energia
rinnovabile pulita che
potrebbe liberarci dalla
dipendenza dai
combustibili fossili e, nel
caso dei paesi tropicali,
potrebbe essere anche una
grande occasione di
sviluppo. In effetti
l’etanolo è tutt’altro che
una novità in Brasile. Viene
utilizzato come
combustibile dal 1925 ma
il vero boom c’è stato dopo
la crisi petrolifera del 1973,
quando la dittatura
militare fece di tutto per
diminuire la dipendenza
dalle importazioni.
I generali riversarono sull’industria
dello zucchero incentivi
e sussidi per convincerli a
produrre il sostituto del combustibile,
e oggi le strade di San
Paulo sono piene di auto che
marciano grazie a un cocktail
sempre più ricco di varie misture.
Ma la nuova “rivoluzione
verde” ha parecchi lati oscuri e
perfino in Brasile che, in quanto
paese leader dovrebbe godere
dei maggiori vantaggi, le preoccupazioni
non sono poche.
Un numero crescente di economisti,
di ricercatori scientifici e
di ambientalisti chiedono una
moratoria perché, avvertono,
l’agrocombustibile potrebbe
creare più problemi di quanti
ne dovrebbe risolvere. Prima di
tutto l’industria dell’etanolo registra
una capacità stratosferica
di inquinare sia l’aria che il suolo
e in Brasile sta contribuendo
in modo decisivo alla distruzio-
ne di ciò che rimane della foresta
amazzonica, di quella atlantica
e della savana brasiliana, un
ecosistema fragile quanto raro.
Fabio Feldman, noto ambientalista
brasiliano e membro del
Congresso, è convinto che un
ulteriore accelerazione del suo
paese in tal senso potrebbe avere
conseguenze molto serie:
«Alcune delle piantagioni di
canna da zucchero sono estese
come gli stati europei, enormi
monoculture che hanno rimpiazzato
gli ecosistemi naturali
» ha dichiarato «Le foreste vengono
bruciate per far posto alle
coltivazioni energetiche, contribuendo
pesantemente all’inquinamento
dell’aria e alla distruzione
della biodiversità».
L’infatuazione per gli agrocombustibili
ha infatti proiettato il
Brasile al quarto posto fra i più
grandi produttori di emissioni
di anidride carbonica del mondo,
proprio a causa della deforestazione
condotta per fare
posto alle coltivazioni energetiche
– l’Indonesia, altro paese
leader nella produzione di
agrocombustibili, è balzata al
terzo posto.
Mentre gli ambientalisti s’interrogano
sul futuro delle foreste
brasiliane, gli allarmi si moltiplicano.
L’associazione britannica
Biofuelwatch ha già messo
su internet le immagini dell’antica
foresta di Chaco, sacrificata
dalla Bolivia per far posto alle
coltivazioni energetiche. La popolazione
è stata spinta a tagliare
e bruciare gli alberi dall’impennata
del prezzo della soia,
spinto in alto dalla moda dell’etanolo.
E che dire del presidente
dell’Uganda che stava per dare
via libera alla distruzione di una
delle ultime foreste pluviali del
pianeta? Per ora la decisione di
sacrificare la foresta di Mabira
alle coltivazioni di canna da
zucchero è stata rinviata, ma le
pressioni sono fortissime.
Ma il problema non sono soltanto
le foreste. Lo scenario da
incubo proviene direttamente
dall’industria dell’etanolo statunitense.
Mentre il clima tropicale
consente di ricavare l’alcool
dalla canna da zucchero,
gli Stati Uniti sono stati spinti a
riconvertire le loro coltivazioni
intensive di mais alla produzione
di energia. La qualcosa rischia
di provocare un effetto
imprevisto, come sottolinea Lester
Brown, storico ambientalista
dell’Earth Policy Institute:
«Si sta profilando un problema
che definirei epico» ha dichiarato
all’Indipendent «la competizione
per il grano fra 800 milioni
di automobilisti che non
vogliono rinunciare alla mobilità
e due miliardi di affamati
che stanno semplicemente cercando
di sopravvivere». Dall’altra
parte dell’Atlantico la
Confédération paysanne, il sindacato
dei piccoli agricoltori reso
famoso da Josè Bové, critica
«le somme colossali versate alla
filiera dell’etanolo, i cui interessi
dal punto di vista dell’ambiente
e dei consumatori non
sono affatto chiari». La Confédé
propone da tempo misure di risparmio
energetico in agricoltura
che, fra l’altro, coincidono
con la scelta di privilegiare la sovranità
alimentare attraverso il
rilancio dei mercati locali, la filiera
corta (consumare più vicino
possibile a dove si produce) e
un’agricoltura meno intensiva
e più rispettosa dell’ambiente,
oltre che della salute dei consumatori.
L’allarme dei coltivatori e di Lester
Brown appare più che giustificato
se è vero che con il grano
necessario a riempire il serbatoio
di un fuoristrada di etanolo
una persona può nutrirsi
per un anno intero. Oltretutto,
secondo un calcolo più generale,
anche se si riuscisse a riconvertire
all’agrocombustibile
tutta la terra coltivabile del pianeta,
si produrrebbe soltanto il
20 per cento dell’energia ricavata
ogni anno dal petrolio. La
domanda quindi è una sola: vogliamo
guidare o vogliamo
mangiare? Forse le menti eccelse
che siedono a Bruxelles o a
Washington dovrebbero farsela,
questa domanda, prima di
annunciare al mondo i loro
trionfali piani per lo sviluppo su
larga scala delle coltivazioni
energetiche.
http://www.liberazione.it/giornale/070309/default.asp