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Nasce il pd - antpolitica e gestione del potere

Publie le lunedì 15 ottobre 2007 par Open-Publishing
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Non è il solito paradosso della politica. Uno dei tanti della politica italiana, come suggerirebbe Grillo dal suo blog. E’ il paradosso per definizione, quello destinato a cambiare le carte in tavola. Quello col quale un po’ tutti si troveranno a fare i conti. Dunque, oggi in quasi ventimila seggi, allestiti ovunque - dalle strade alle parrocchie - molta gente andrà a scegliere il leader del partito democratico. Un milione, due milioni, di più. In realtà già si sa come andrà a finire: vincerà il sindaco di Roma, Walter Veltroni. E più o meno si sa anche di quanto: la sua (le sue liste) avranno fra il 75 e l’80 per cento, la sua rivale più autorevole Rosi Bindi, fra il 10 e il 15, Letta, il ministro Letta, fra il 3 e il 5. Agli altri due concorrenti - che hanno fatto più colore che proposte - le briciole: zero e qualcosa.
Ma anche questo non ha molta rilevanza. Di più conta quel paradosso. Quello per cui, in tempi di riflessioni sull’antipolitica, stamattina si svolgerà un rito dal sapore democratico. Le persone, uomini e donne (e giovanilismi: possono votare anche i sedicenni), versando un euro, potranno decidere chi li rappresenterà. Chi li guiderà. Potranno decidere chi "governerà" il loro partito nelle varie regioni e nelle varie città. Perché assieme al leader nazionale si sceglieranno anche i dirigenti locali. Eppure quella che potrebbe apparire come una grande prova di democrazia, quella che sembrerebbe una chance offerta al rinnovamento dei partiti, sancirà la fine della politica. Per un pezzo della sinistra sarà la fine di un modo di immaginare la politica.
Anche qui. Non tanto e non solo perché l’apparente forma democratica s’è scontrata in questi mesi con manovre e scontri che farebbero impallidire anche un Antonio Gava. Le segreterie dei due partiti che non riescono a mettersi d’accordo su un nome, tanto che appena nella primavera scorsa si parlava di un "reggente" in vista di tempi migliori, fino alle liste fatte col bilancino. E fino alla scelta di Rosi Bindi di accettare il faticoso ruolo di outsider, pur di costringere questi apparati a parlare un po’- almeno un po’ - di programmi.
Tutto questo c’è, è evidente. E lo scrivono anche i giornali amici del piddì. Ma il paradosso riguarda qualcosa di più profondo, di più serio. Perché l’incoronazione di Veltroni, e la chiusura definitiva con la storia del Pci - "con la chiave buttata nel Tevere", come si dice a Roma quando si parla di qualcosa di cui ci si vuole dimenticare in fretta - significano anche la nascita di un partito che ha nel suo Dna, che ha nei suoi atti istitutivi - formali e informali, come l’ultimo libro del sindaco di Roma - il rifiuto della politica.
"riformista".
Discorsi esagerati? Veltroni l’altro giorno dal Lingotto di Torino - dove ha iniziato e concluso la campagna elettorale per le primarie - ha riproposto in pillole la filosofia del suo nuovo partito. Parte da assunti indimostrabili, parte da affermazioni che sono state smentite sistematicamente nel corso dei decenni trascorsi, e anche lì, a Torino, Veltroni ha provato a mettere insieme bisogni inconciliabili. Profitti alle imprese e salari operai, difesa dell’ambiente e meno vincoli. E via così. Apparentemente a tutti un po’, qualcuno dirà nel vecchio stile democristiano. Ma in realtà, una scelta, la scelta di fondo c’è. Ed è netta: l’accettazione del principio che è l’impresa il motore di questo paese. Quello che va bene a Montezemolo, va bene per riflesso a tutto il paese.
Il nuovo partito democratico, insomma, ha scelto l’esistente. I "confini" dentro cui lavorerà, farà iniziativa sono quelli dati. E dati una volta per sempre. Certo, lì dentro, c’è spazio - o almeno Veltroni ne è convinto - non per un po’ di redistribuzione ma comunque per un bel po’ di assistenza. Ma la cornice è quella, resterà quella. E questo è esattamente la fine della politica. Immaginata - anche dai tanti pensatori che ciclicamente entrano nel pantheon veltroniano - per trasformare l’esistente. Per non accontentarsi. Per provare a forzare i vincoli dati, imposti da qualcuno e spacciati per universali. Per provare a immaginare qualcos’altro.
Fine della politica, non solo fine di una storia politica. E questo, probabilmente, conta di più, molto di più delle conseguenze immediate che avrà l’elezione del sindaco di Roma. Perché i giornali sono pieni tutti i giorni di retroscena in cui si disegnano scenari assai negativi per la stabilità del governo Prodi. Per ultimo "Il Foglio" di Ferrara che si è andato a spulciare un articolo, nelle pagine interne, sul quotidiano "Adige" a firma di Giorgio Tonini. Che non è uno qualsiasi ma - lo sanno tutti - da tempo è il ghost-writer del sindaco. E lì, Tonini parla esplicitamente della necessità, a gennaio, di arrivare ad una verifica di governo. Cancellando definitivamente il programma e scegliendo quattro, cinque cose su cui lavorare per invertire la china. E se non ce la si faccesse, bene, sarebbe arrivato il momento che Prodi passi la mano al neosegretario dei democratici.
Scenari che confermano le intuizioni di chi aveva sempre spiegato che la nascita del piddì avrebbe portato con sè minacce alla coesione della maggioranza. Ma le maggioranze e i governi passano.
A terra resta invece un nuovo partito che ha chiuso definitivamente con l’ambizione a cambiare. Sarà il partito della gestione dove, appunto, potranno esserci tutti. Sarà il partito del governo e basta.
E non sarà un partito riformista. Certo, è vero non lo erano più da tempo neanche i diesse. Perché forse, in tempi di ripensamenti su tutto, è arrivato il momento di ridare un senso alle parole. Loro, i diesse (ex ds per chi leggerà queste righe, con le primarie di stamattina la loro esperienza si chiude) hanno usato quella definizione come sinonimo di moderati. Erano moderati e si chiamavano riformisti. Parola che invece, da che movimento operaio è movimento operaio, ha sempre indicato altro. Ha indicato un diverso modo, una diversa strada per arrivare allo stesso fine, allo stesso obiettivo. I riformisti si contrapponevano ai rivoluzionari, pensando che al socialismo - sì al socialismo - ci si arrivasse con gradualità, a tappe. Rifiutavano la logica dell’appuntamento decisivo, della presa del palazzo che tutto cambia. Ma non parlavano di riforme e basta. Parlavano di riforme per cambiare questo e quello, di riforme per redistribuire risorse. Dalle imprese al lavoro. Parlavano di riforme come passi in avanti, lenti ma significativi, verso l’obiettivo di cambiare, e cambiare radicalmente, l’ordine delle cose esistenti. Da tempo, una parte - la parte allora maggioritaria - di ciò che discende dal Pci ha rinunciato a tutto questo. Hanno continuato a parlare di riforme, cominciando a dimenticarsi a cosa e chi sarebbero dovute servire. Fino a farle diventare un’altra cosa: controriforme.
Il riformismo dei diesse era finito da tempo. Anche perché in questi anni, in questi decenni è accaduto qualcosa. E’ accaduto che il capitale ha scelto di chiudere gli spazi al riformismo. Il vecchio patto sociale, quello che è servito a costruire il welfare dalle nostre parti, è saltato. Le imprese vogliono tutto e subito. Vogliono vincere il referendum e vogliono che chi non ci sta, i metalmeccanici, siano messi alla gogna. Vogliono precarietà per chi entra al lavoro e salari di fame. Vogliono far saltare qualsiasi compromesso. E vogliono cinquemila miliardi di cuneo fiscale.
Questo è l’esistente. E questo Veltroni ha accettato come immodificabile. Così muore la politica. Anche se andranno a votare in cinque milioni.

Messaggi

  • C’è da meravigliarsi che abbiano votato solo 3,4 milioni di cittadini !! Con il bombardamento mediatico martellante , ripetitivo, ossessivo attuato da tutti i media di regime è un risultato molto modesto !!! Partecipare a questo stanco rito di vago sapore democratico era stato abilmente presentato come il massimo possibile di coinvolgimento dei cittadini nel chiuso mondo della politica e come una spallata decisiva al vecchio sistema di potere !!! Hanno infatti risposto entusiaticamente all’appello personaggi da sempre al di fuori delle logiche di potere e distanti anni luce dai giochetti della politica e dell’economia come De Benedetti, Profumo, Moratti e molti altri sodali di casta !!! La grande illusione è stata venduta come un pacco di biscotti o un dentifricio, con le stesse tecniche di marketing ed utilizzando più o meno gli stessi testimonials !!! Comunque il gioco è fatto ed i 3,4 milioni di cittadini partecipanti possono tranquillamente tornarsene a casa, sicuri che niente sarà più come prima : sarà molto peggio !!!!!!!

    MaxVinella