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Nella tessera dei Gc per il 2009 le lotte di operai e studenti, non il muro di Berlino!
Publie le lunedì 15 dicembre 2008 par Open-PublishingNella tessera dei Gc per il 2009 le lotte di operai e studenti, non il muro di Berlino!
di Simone Oggionni, coordinamento nazionale Gc - direzione nazionale Prc
Nei giorni scorsi è stata presentata alla segreteria nazionale del partito la proposta grafica per la tessera 2009 dei Giovani Comunisti.
Sul fronte campeggia un’immagine emblematica: il muro di Berlino all’indomani della riapertura della frontiera, scavalcato da un gruppo di ragazzi in festa, evidentemente dell’Est. Sul retro della tessera una foto completamente diversa: un’assemblea di movimento, un’istantanea di questi mesi, con decine di giovani in cerchio in una qualche università occupata. Il significato iconografico dell’associazione è chiarissimo: a vent’anni dalla caduta del muro i (giovani) comunisti festeggiano insieme a questi ragazzi e ricordano quell’avvenimento assumendolo - nella misura in cui esso viene in qualche modo associato alla grande carica dell’Onda - come punto di riferimento positivo, come evento in qualche modo costituente (di un’idea della politica liberata, democratica, partecipata).
In che cosa, quindi, i due eventi sarebbero connessi e consequenziali? Nella presunzione aprioristica che chi è comunista oggi e chi, comunque, rivendica una propria internità ai movimenti universitari non possa che assumere come elemento costitutivo della propria identità l’idea che soltanto la sconfitta e la negazione dei regimi del socialismo reale può dischiudere le porte alla vera libertà.
La scelta di queste immagini e la loro correlazione non dicono che un’idea di comunismo all’altezza dei tempi non può non fare i conti problematicamente, criticamente con la storia dei Paesi socialisti, e quindi anche con gli errori e le tragedie che ne hanno segnato il corso.
Suggeriscono (riecheggiando implicitamente uno dei proclami veltroniani che hanno sancito e promosso la regressione neo-moderata degli eredi del Pds di Occhetto) che libertà ed esperienza concreta del socialismo sono del tutto incompatibili, si escludono a vicenda, al punto che nell’icona dell’implosione di quest’ultimo si riflette l’immagine positiva del protagonismo dei giovani (comunisti) e, in prospettiva, l’idea di società che essi propugnerebbero.
Il punto debole di un ragionamento simile è che esso dimentica il fatto che il crollo di quel muro e la scomparsa di quel sistema e, per estensione, di un capitolo determinante della storia del comunismo novecentesco hanno corrisposto all’affermazione incontrastata del modello capitalistico e alla radicalizzazione della violenza in esso immanente. Quello che si perde di vista quando si istituisce una connessione simbolica di questo genere è che l’esistenza indiscutibile di gravi limiti e torti non esaurisce il significato storico oggettivo di un’esperienza storica importantissima. E che, viceversa, la sua conclusione non ha affatto dato avvio a una nuova fase di progresso e di libertà (come ribadisce a ogni piè sospinto l’ideologia dominante), ha bensì determinato un pesante regresso nella lotta per il riscatto e la liberazione del lavoro e delle masse subalterne.
Oggi, a distanza di un ventennio da quell’evento, possiamo dire che - ci piaccia o meno - il crollo del muro di Berlino è soprattutto l’icona del trionfo del capitalismo. Lo è sul piano ideologico (culturale, strettamente simbolico). E lo è sul terreno storico, con buona pace del Rilke riportato (suo malgrado) a commento della fotografia e del «nuovo inizio [che] s’avanzò in quel tacere». Nessun nuovo inizio, purtroppo, né per i popoli «liberati» dal «giogo» comunista, né per le masse popolari dei Paesi capitalistici.
A vent’anni di distanza dalla caduta del muro di Berlino possiamo dirlo: si è materializzata, anche in questo (come e più che nella stessa esperienza storica del comunismo), la più classica delle eterogenesi dei fini. L’evento che avrebbe dovuto inaugurare una nuova epoca di pace e prosperità ha aperto le porte, al contrario, ad un ciclo cupo di guerre permanenti, di diffusione epidemica della povertà, di distruzione dei diritti, di accentramento oligarchico delle leve del potere. Possiamo essere proprio noi comunisti a non renderci conto che questa crisi strutturale del capitalismo spazza via definitivamente l’illusione che con l’89 la storia fosse «finita»?
Per questo non capiamo le ragioni che hanno indotto l’esecutivo dei Giovani Comunisti a operare una scelta simile. Perché trasformare nell’emblema di chi lotta per il cambiamento un evento così difficile e problematico (sul cui giudizio tra noi possiamo legittimamente non concordare, ma che non rappresenta certo un punto di riferimento positivo per le sinistre e per i comunisti di tutta Europa)? Non consiglia una riflessione il fatto che molteplici organizzazioni politiche di destra abbiano costruito in questi vent’anni almeno una tessera, un manifesto, un volantino, una fiaccolata, una iniziativa pubblica intorno a quell’evento, riconoscendolo - nei fatti - come un simbolo (forse il simbolo) dell’anticomunismo militante?
A noi pare che, ancora una volta, il fine sia la provocazione. Provocare un dibattito? Non è questo, evidentemente, il modo migliore. Perché i dibattiti sulla teoria e sulla storia (che è storia nostra, a meno che davvero si pensi di potere ricostruire l’album di famiglia a immagine e somiglianza delle proprie utopie) non si aprono e chiudono con l’imposizione di una scelta iconografica su di una tessera. Scelta che avrebbe un unico effetto, ci auguriamo non voluto: provocare la sensibilità di migliaia di compagne e compagni che sarebbero in difficoltà nel firmare una tessera così costruita.
Del resto, non è un caso che la proposta non sia emersa al termine di un dibattito e di un confronto in coordinamento nazionale (magari in una assemblea simile a quelle a cui abbiamo partecipato in queste settimane nelle scuole e nelle università di tutta Italia) ma nel segreto di un esecutivo nazionale ormai totalmente separato dai territori e dal corpo vivo della nostra organizzazione.
Esattamente quarant’anni fa, nel 1969, gli studenti - all’apice di un conflitto politico, sociale e culturale straordinario - incontravano gli operai delle grandi fabbriche del Paese e saldavano le proprie lotte con le loro, arricchendosi di un bagaglio di esperienze che veniva da lontano (dall’Italia della Resistenza e della ricostruzione) e che, grazie alla modernità di quella rottura generazionale, proiettava la sinistra all’altezza delle sfide di quel capitalismo in espansione. Non vi pare che sia questa una ricorrenza nostra? Che appartiene cioè alla nostra storia e che ci indica, anche strategicamente, un orizzonte auspicabile? Perché non diamo rilievo, sulle nostre tessere, a questo potenziale filo rosso?
Ad ogni modo, chiediamo con forza che questa volta di tutto ciò si discuta insieme, in assemblea. Senza dare per scontato che - su questioni che riguardano indirettamente niente meno che la nostra identità - a decidere sia un organismo ristretto ed esecutivo.