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Noi combattiamo contro i mulini a vento e giochiamo con l’Utopia...
Publie le martedì 26 agosto 2008 par Open-PublishingNoi combattiamo contro i mulini a vento e giochiamo con l’Utopia, nostro pane quotidiano
Immagini dal tour 2007 www.ramblers.it
di Federico Raponi
Un fazzoletto tricolore dell’Anpi e una sciarpa indiana annodati all’asta del microfono sul palco. Un’immagine che rappresenta esattamente - tra identità e apertura - quello che sono i Modena City Ramblers, ospiti di Festambiente. La band emiliana, nata nel 1991 ispirandosi ai Pogues (dei quali aprirono proprio il concerto modenese) come interprete del folk irlandese, ha poi coltivato - anche attraverso l’uso del dialetto - la canzone di lotta della tradizione popolare italiana. Passando, in questo percorso, per un lungo tributo alla Resistenza: dalla partecipazione a Materiale resistente (raccolta per il 50° anniversario della Liberazione) alla compilation Appunti partigiani , da loro promossa 10 anni dopo, fino all’ultimo album - Bella ciao - destinato al pubblico estero. Insieme alla fondazione di un’etichetta indipendente, a viaggi fortemente connotati (Palestina, Chiapas, Auschwitz, Cuba) e a variegate collaborazioni, i Mcr si caratterizzano come gruppo allargato, il che garantisce longevità al loro progetto. A chiacchierare con noi c’è quindi metà formazione, e cioè Franco D’Aniello, Massimo "Ice" Ghiacci, Davide "Dudu" Morandi, Betty Vezzani: quattro persone, una risposta.
Cominciamo parlando un po’ del nuovo disco, "Bella ciao - Italian Combat Folk for the masses"?
Pensavamo al progetto da tempo, ma per vari motivi non era stato portato avanti. Questo soprattutto perchè eravamo legati ad una major, non interessata all’allargamento estero. Da due dischi a questa parte invece lavoriamo con un’etichetta indipendente, e l’idea ha preso il largo. Non è un greatest hits , ma un lavoro mirato, un biglietto da visita con le nostre sonorità e il nostro pensiero. A maggio lo abbiamo portato in concerto in vari paesi europei, e successivamente si è decisa l’uscita anche in Italia, sia per la presenza di nuove voci nel gruppo che per l’interessamento suscitato. Terry Woods dei Pogues ha curato la produzione, suonato, scelto le canzoni che a noi sembravano scontate per l’Italia, ma che non lo erano per pubblico straniero. Terry lo abbiamo voluto col cuore, è una decisione che nasce dalla nostra storia e chiude un cerchio.
Come sono andati i concerti fuori dal paese?
C’era attenzione, qui da noi sarebbe stato difficile senza una promozione. C’era un pubblico eterogeneo e molti italiani che già ci conoscevano, e questo ci ha facilitato. Nei festival, nei centri sociali svizzeri, nei locali da 4-500 persone - dove puoi "zoomare" - è andata molto bene, c’è stato coinvolgimento, voglia di scambiare chiacchiere sui testi tradotti, quelli più universali. Abbiamo avuto soddisfazioni, la nostra musica "patchankata" che varia tra ballata, punk, festaiolo offrendo sia divertimento che pausa di riflessione è molto apprezzata.
Ma bisogna andare sempre all’estero per trovare occasioni così varie di relazionarsi col pubblico? La musica è promossa solo in Francia?
Lì c’è un tradizionale sostegno istituzionale alla musica, ritenuta un importante vettore culturale. Con un’attenzione che altrove potrebbe risolversi in sciovinismo e che in Italia si è completamente perduta. Non che sia necessario contare sulle istituzioni, perchè bisogna avere idee e forze per portarle avanti, ma esiste un problema di esposizione e di spazi, soprattutto per i giovani. Manca una legge di sostegno, si parlava di Iva agevolata quando c’era la crisi di un mercato che ora è proprio sparito. Vengono anzi create barriere, ad esempio anni fa fu imposta l’apertura di una procedura Enpals per chi suona in pubblico. Se vai a guardare YouTube , Bbc o altre reti trovi sia gruppi importanti che emergenti, in Italia invece manca un media di riferimento per il grande pubblico. All’estero c’è un’altra ricettività, in Olanda esistono piccoli club che da noi farebbero chiudere subito per burocrazia, lì si invoglia chi vuole investire, in Italia i pigmalioni pian piano spariscono per colpa delle autorizzazioni. C’è un interessante cantautore romano, The Niro , che altrove avrebbe un destino differente, mentre qui i giovani devono mettersi a fare cover, come possono pensare ad una carriera professionale?
A proposito del termine "Patchanka", come si è sviluppata la vostra musica meticcia?
Senza andare dietro alla moda, crediamo fortemente che la mescolanza porti qualcosa di nuovo, originalità. L’apertura nasce dall’album Riportando tutto a casa , nato da esperienze di viaggio ed esistenziali. Ascoltiamo anni e anni prima di arrivare ad una consapevolezza, a confrontare ed integrare gli stimoli con quanto il gruppo già vive. Per noi è sentirsi a casa in qualsiasi contesto, o almeno cercare di farlo. Agli inizi partivamo dalla musica irlandese, reinterpretandola e dai Pogues, che non erano molto conosciuti. Il folk è stata una palestra e un’esigenza di rapporto più stretto col pubblico rispetto alla distanza data dal rock da stadio. Non ci interessano le etichette, come la definizione "combat folk" volevamo piuttosto rimandare a un’attitudine. Così come non siamo legati a schemi o a una grammatica ortodossa, per cui combiniamo anche elementi che di regola non andrebbero insieme. Oggi il mondo, per la coesistenza, ha bisogno di questo. Mentre invece tende sempre più a dividere per categorie, si prendono le distanze dal prossimo. L’Italia poi è il paese delle etichette, si bada al proprio orticello, al mantenimento dell’identità. All’estero il meticciato è più comune, genuino, c’è grande apertura, la condivisione del palco con artisti anche molto diversi o sconosciuti. Per questo il pubblico è molto eterogeneo.
La memoria storica, legata soprattutto alla Resistenza, vi accompagna sempre...
Sono nostri valori. A volte ci pare di essere professori un po’ "boriosi" che parlano di cose lontane e inutili, ma per noi la Storia è fatta di corsi e ricorsi. La dimenticanza è tipica dei grandi cambiamenti, utile per perseguire interessi propri a discapito delle masse. Veniamo da una terra che vive il ricordo, ci sono partigiani che a 80 anni vanno ancora nelle scuole così come il fratello di Peppino Impastato gira l’Italia a parlare di mafia. Memoria e Resistenza per noi rappresentano un fattore culturale che va coltivato a tutti i livelli, i giovani in tal senso hanno sempre meno stimoli. I partigiani stanno sparendo, e non ci saranno più racconti diretti. Quindi diventa fondamentale prenderne il testimone con decisione. Rispetto ai libri, la musica è più diretta, parla al cuore e il folk è un grande veicolo per la tradizione orale, per tramandare. In ogni disco che abbiamo fatto e che faremo il tentativo è questo. Il prossimo lavoro è legato al 100% a tali riflessioni, siamo impegnati in un progetto teatrale per il 2009 che ripercorre la storia d’Italia in vari momenti.
Sempre riguardo il nostro passato, nei vostri lavori ci sono riferimenti agli anni ’70 e alle lotte sociali che li hanno segnati. Un periodo rimosso o ridotto a fatti di tribunali...
Il progetto teatrale, in cui guardiamo l’Italia come attraverso un prisma, riguarda proprio il periodo tra il ’68 e il ’77, un momento di grande fermento, sogni infranti, mutati gioco-forza. Per noi è un punto di arrivo e di partenza. A scuola non se ne parla, è grasso che cola se si tocca la Seconda Guerra Mondiale. Il pubblico giovane è molto recettivo, vediamo che esprime un forte bisogno, istituzioni e famiglia non svolgono più un ruolo formativo. Recentemente in un sondaggio di un giornale di Modena è risultato che, tra i giovani, sul caso Moro il 98% non sapeva nulla. L’unica a esserne informata era una ragazza, la quale ha spiegato che dopo averlo sentito citato nella nostra canzone "I cento passi" si è poi documentata. Noi non diamo verità o soluzioni, ma stimoli, curiosità per elaborare. Ognuno deve mettere ciò che può, altrimenti fa testo chi grida più forte, oppure chi ha mezzi a disposizione e come Pansa manda all’aria con un colpo solo il lavoro di 30 istituti storici. Noi combattiamo contro i mulini a vento, giochiamo con l’Utopia, nostro pane quotidiano.
Che percorso ha avuto la vostra etichetta di produzione?
Nel dar vita alla Modena City Records siamo rimasti con il management che avevamo agli inizi, il quale si è trasformato in etichetta che ha prodotto gruppi come Subsonica e Afterhours e agenzia concerti all’Esagono di Rubiera, dove già suonavamo. Quindi per noi è stato l’ideale. Poi la Mcr ha subìto un’involuzione e oggi pubblica pochi gruppi, mentre la coproduzione con la Mescal ci garantisce distribuzione e promozione. E’ una situazione quasi artigianale, la migliore per una realtà come la nostra. Per la band, la nascita negli anni ’90 è avvenuta in un momento buono, quando c’era interesse per l’Irlanda e un circuito dei centri sociali. Adesso il mercato è scoppiato, l’autoproduzione può essere interessante se il gruppo ha solidità, ma realizzarla in modo completo è impossibile: il problema è la promozione, più che la distribuzione, le barriere di investimento sono mostruose. Se diciamo che la crisi riguarda il supporto, ora con pochi mezzi puoi fare un disco, ma questo non ne ha ridotto il prezzo, è un mancato passaggio. Il consumo poi è veloce e frammentato, la fruizione radicalmente cambiata. Prima la musica portava identificazione, veicolava stile e valori, modelli di riferimento. Ora bisogna di nuovo far innamorare i giovani.
Come si fa a rimanere una "grande famiglia" (titolo di un album, ndr) aperta?
Conta il progetto, l’unità d’intenti. Siamo come una squadra di calcio, il punto di forza è il gruppo, l’attaccamento alla maglia. Un’esperienza un po’ simile a quella dei Fairport Convention, che hanno scritto un albero genealogico con la loro storia. E’ un’anomalia faticosa, sia perchè così è difficile comunicare, in un momento in cui tutto si muove veloce e serve un volto riconoscibile - come era successo con Cisco (storico cantante della band, allontanatosi da qualche anno, ndr) - per identificare il gruppo, sia perchè implica convivenza e condivisione. Ma dà anche molti stimoli e lunga vita: se ci fosse un leader, nel momento in cui lui abbandonasse finirebbe tutto. Invece il progetto è molto più forte degli elementi singoli, c’è una staffetta con un testimone che si passa, quando qualcuno - per scelte o impegni personali - se ne va, qualcun altro subentra. Ci sono difficoltà, limiti, incognite su come il percorso può evolvere, ma abbiamo anche la grande ricchezza che è il pubblico, che cambia, ringiovanisce, va al di là delle mode, costituisce una comunità. Manu Chao ha dimostrato che un’esperienza allargata, e dai temi non certo commestibili, può riempire Piazza del Duomo a Milano.