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Non ci sarebbe Barack Obama senza quei nostri pugni chiusi...

Publie le venerdì 13 giugno 2008 par Open-Publishing

«Non ci sarebbe Barack Obama senza quei nostri pugni chiusi...»

di Simonetta Cossu

Appena la bandiera a stelle e strisce iniziò a sventolare nell’aria di quell’autunno messicano, Tommie Smith e John Carlos rimasero in piedi sul podio, con le loro medaglie al petto (per la cronaca, una era d’oro e una di bronzo, conquistate sui 200 metri), abbassarono le loro teste, ed alzarono un pugno, il destro Smith, il sinistro Carlos, tutti e due col guanto nero: era il saluto rivoluzionario dei «Black Panther»…

Olimpiadi di Città del Messico, ottobre 1968. Erano passati pochi giorni dalla strage degli studenti di piazza delle Tre Culture. Duecento morti ammazzati dalla polizia, cinquemila arresti. Ferita gravemente anche una giornalista italiana, Oriana Fallaci. L’eco internazionale del massacro, le proteste, le manifestazioni in tutto il mondo non avevano fermato la grande macchina dei Giochi. Molti pensarono che le Olimpiadi avrebbero messo il dramma del Messico sotto i riflettori internazionali. Una illusione, forse, ma quello che accadde segnò la storia di quei Giochi e non solo. Infatti fu la lotta dei neri americani ad occupare la scena a Città del Messico, teatro di ben dieci record mondiali, quasi tutti "made in Black Power". In febbraio gli Stati Uniti avevano votato a favore della partecipazione del Sudafrica razzista alle Olimpiadi (vigeva allora in quel Paese l’apartheid). Una valanga di "no" degli stati africani (ben 32) e la minaccia di boicottaggio da parte degli atleti neri avevano opposto una barriera insormontabile all’ingresso di Pretoria. Città del Messico finì cosi con ospitare i giochi più politicizzati della storia, il cui momento più significativo sarà proprio quello dei due velocisti neri, Tommie Smith e John Carlos, con pugni chiusi e mano guantata di nero, immobili sul podio dei vincitori.

Non fu un fatto isolato, i due atleti neri ebbero la solidarietà di molti atleti bianchi quando le autorità sportive, imbestialite, li fecero espellere dal villaggio olimpico. Pugni chiusi, baschi neri e piedi scalzi erano già stati esibiti, sebbene meno teatralmente, dallo straordinario Beamon - campione olimpico e recordman del mondo nel salto in lungo - e dai quattrocentisti Lee Evans, Larry James, Ronald Freeman: la denuncia del razzismo americano, la dissacrazione della retorica olimpica e tutta la dirompente carica della lotta dei neri statunitensi. Quel gesto semplice, così simbolico ma di portata mondiale, scavò dentro molte coscienze.
Oggi Tommie Smith è un bell’uomo di 64 anni che trasmette un senso di tranquillità. Lo abbiamo incontrato a Roma dove è venuto insieme al suo amico Lee Evans per partecipare alle giornate organizzate da Gianni Minà.

Chi è Tommie Smith 40 anni dopo quella stagione?

Tommie Smith è ancora Tommie Smith, solo 40 anni dopo. Sono la stessa persona di allora, solo un po’ più vecchia, lo puoi vedere dai miei capelli grigi. Ma gli ideali nei quali credo sono gli stessi. Sono come una persona-bambino. Cosa significa? I bambini sono come dei computer, gli metti dentro qualsiasi cosa e loro elaborano. Per farti capire meglio è esattamente l’opposto di quello che accade con il conto in banca: prima o poi questo si esaurisce, perché devi pagare dei costi per mantenere quel conto bancario... Il mio concetto della vita è molto semplice: dare ad altre persone le stesse opportunità che ho avuto io per essere felice.

Si ricorda cosa stava pensando quando ha alzato quel pugno a Città del Messico? Le conseguenze di quel gesto furono pesanti: fu accusato di vilipendio alla bandiera ed ai Giochi Olimpici, espulso dalla squadra nazionale, bandito dal villaggio olimpico...

Ricordo come se fosse ieri. Volevamo fare un gesto che trasmettesse quello che provavamo. Un gesto silenzioso, rispettoso, ma che si vedesse. Doveva essere un silenzioso grido di libertà. Mi ricordo che pregavo, e mi dicevo: «Questo è il più lungo inno nella storia del’uomo». Volevo scendere da quel podio il più in fretta possibile, sapevo che dopo quello che avevo fatto mi aspettavano tempi duri, che correvo un pericolo. Ero in uno spazio aperto e poteva succedere qualcosa. Avevo già ricevuto numerose minacce di morte prima di arrivare alle Olimpiadi, e poi c’era appena stato il massacro degli studenti di Città del Messico. Anch’io ero uno studente, che veniva da un altro paese, ma che lottava per gli stessi principi: diritti civili e umani. Sapevo che quel gesto mi avrebbe dato dei problemi. Ma quello che mi aspettava era di una magnitudine che era fuori dalla mia immaginazione. Venni licenziato mentre lasciavo Citta del Messico. Le persone per cui lavoravo allora mi dissero che quello che avevo fatto era anti-americano, che avevo rovinato la mia vita per fare qualcosa che nessuno al mondo avrebbe mai fatto. Chiesi al boss che cosa era quel "qualcosa". Lui mi rispose: per essere orgoglioso di essere nero non servono gesti clamorosi, per capirlo ti basterebbe usare la tua educazione. Sapevo di che cosa cosa parlava. Tornai a San Josè per studiare.

Furono anni duri? Ha dovuto aspettare 10 anni per poter insegnare in un college...

Molto duri, dovevo lavorare e nessuno mi voleva dare un lavoro. Passavano i giorni e io non potevo più gareggiare, avevo finito i soldi, il sussidio da atleta. Dovevo lavorare. Alla fine ebbi una possibilità nel football professionista con i Cincinnati Bengals per tre anni. Qualcuno mi dice ancora: «Oh mio dio, hai giocato nel football professionista, avrai fatto un sacco di soldi... Come puoi dire che sei povero?». Guadagnavo 300 dollari a settimana e mi riempivano di botte. Inoltre ero un uomo sposato con un figlio di pochi mesi (era nato nel febbraio del 1968). La vita fu dura... Ma alla fine ottenni quello che volevo: due lauree, una in educazione fisica e una in sociologia.

Lei ha detto che l’atletica è politica. Cosa intende?

Non tutti gli atleti hanno attitudini politiche. Ma quello che fanno ha una natura politica. Quando corri per un paese, che sia rosso, nero, giallo o verde, quando suonano un inno nazionale, e tu corri per vincere... sì questo è politica. Non puoi sfuggire alla politica. Ma è come gestisci la politica che fa la differenza.

L’America è cambiata?

Il 1968 fu un anno di grandi cambiamenti. E questi cambiamenti sono stati possibili perché c’è chi si è sacrificato per permettere che questo accadesse. Non ci sarebbero stati senza questi sacrifici. Devi mettere in gioco te stesso per permettere ad altri di capire davvero ciò in cui tu credi.

Il 1968 fu un anno tragico per gli Usa, l’uccisione di Bob Kennedy, di Martin Luther King... Forse oggi - a distanza di quarant’anni - quello per cui lei lottava allora sembra finalmente in grado di realizzarsi...

No. Anche allora quella spinta c’era, ma c’erano così tante cosa da fare che spesso qualche aspetto ce lo perdevamo per strada... Stavano accadendo talmente tante cose negli Stati Uniti, soprattutto nei campus universitari, ma anche il mondo era in subbuglio, c’era l’apartheid. A me venne data un’opportunità: quella di poter fare qualcosa, di poter parlare ed agire. E tornando alle cose da fare, oggi in America abbiamo un afro-americano candidato alla presidenza. Questo non sarebbe successo senza che avvenisse un cambiamento nel sistema, cambiamento che fu possibile anche grazie al sacrificio di esser umani che credevano che avere dei diritti, e questo indipendentemente dal colore della loro pelle. Visto che non devi essere bianco per avere ragione...

L’America è pronta per avere un presidente nero?

Un uomo ha il diritto di diventare ciò che la gente vuole che lui sia, ma - in questo caso - il candidato deve credere in se stesso per arrivare a essere quello che queste persone vogliono. Stiamo parlando di impegni e cose profonde e vere. E questo spaventa un sacco di persone. Obama è giovane, quello che io ho fatto, e altri come me a Mexico City nel 1968, credo abbia spianato la strada a molti ragazzi come lui che hanno potuto godere di una maggiore libertà in un sistema che non assicurava il pieno rispetto dei nostri diritti. Un sacrificio che è servito a dare ad altri un’occasione. Oggi noi vediamo persone come Obama, ma non solo in politica, che hanno un atteggiamento diverso, sanno che possono vincere ma per farlo devono affrontare alla radice i veri problemi. Capita che Barack Obama sia il candidato migliore che abbiamo, capita che sia nero. Cosa significa? Significa che noi siamo neri e che possiamo farcela.

Ha mai pensato di entrare in politica?

No, No! Non l’ho mai pensato. Come non ho mai pensato a tornare a raccogliere il cotone. Non ho mai pensato di fare nessuna di queste due cose.

su Liberazione del 11/06/2008