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Non lasciamo che gli studenti, i lavoratori, le famiglie...

Publie le venerdì 31 ottobre 2008 par Open-Publishing

Non lasciamo che gli studenti, i lavoratori, le famiglie alle prese con il carovita percorrano strade parallele

DI Alberto Burgio

L’attacco sferrato dal governo contro l’intero sistema formativo pubblico (scuola e università) è di inaudita violenza. I provvedimenti definiti dal ministro dell’Istruzione in relazione alla scuola elementare (voto in condotta, grembiule) sono ispirati da un evidente impulso autoritario, coerente con l’impostazione razzista della Lega (vedi la proposta di istituire classi differenziali per le «razze inferiori» extracomunitarie). Il decreto Gelmini e le norme della 133 sull’università sono percorsi dalla volontà di condurre nelle istituzioni della ricerca e della formazione la stessa guerra contro il lavoro (non stabilizzazione dei precari nella scuola e negli atenei; sostanziale blocco del turn-over della docenza universitaria; riduzione delle retribuzioni del personale strutturato) dichiarata da Brunetta e Sacconi contro il lavoro dipendente pubblico e privato. Infine, la prospettiva della privatizzazione degli atenei perfeziona il disegno di smantellamento del modello formativo universalistico, promosso con la riforma della scuola media unica dei primi anni Sessanta e con la generalizzazione degli accessi all’università, frutto delle lotte studentesche e operaie degli anni Settanta.

Trasformare gli atenei in fondazioni per decisione insindacabile dei senati accademici (ciò che l’art. 16 della legge scritta da Tremonti e approvata dal Parlamento in agosto rende già oggi possibile) determinerebbe effetti regressivi di inaudita (e, temo, sottovalutata) gravità: la frantumazione del sistema universitario nazionale in università di serie a (ricche per ricchi) e università di serie b e c (destinate ai poveri); la privatizzazione dei rapporti di lavoro e quindi l’immediata precarizzazione di fatto di tutto il personale docente e non docente; l’alienazione di un enorme patrimonio immobiliare e infrastrutturale (senza oneri di alcun genere per i privati che si "degnassero" di riceverli in dono); la nascita di potentati universitari privati, legati alle imprese e alla politica, in grado di far valere un potere discrezionale illimitato (perché esercitato «in casa propria») sia sulla didattica (con tanti saluti al principio costituzionale della libertà di insegnamento) sia sulla ricerca (con grave pregiudizio per le discipline umanistiche e per la ricerca di base, prive di immediata redditività).

L’università si trasformerebbe in uno snodo del sistema imprenditoriale, introiettandone logiche funzionali (aziendali) e sociali (nel segno della trasmissione ereditaria delle posizioni e dei privilegi). E l’Italia, per la prima volta nella sua storia, verrebbe privata di una università autonoma, sede di studi diretti dalla comunità scientifica e di un insegnamento finalizzato alla crescita civile, culturale e professionale della cittadinanza.
Nessuno dovrebbe sottovalutare la portata di questa svolta reazionaria, certo tra le più gravi fra quelle operate dalla destra italiana nella storia della Repubblica. Ma se ci guardiamo intorno, gli unici a percepirla sembrano, sinora, gli studenti delle scuole e delle università, scesi in piazza con ammirevole consapevolezza e determinazione contro i provvedimenti del governo. D’altra parte bisognerà pure aprire la riflessione sui devastanti precedenti di questo tentativo della destra di sfondare sul terreno della formazione pubblica. Quel che oggi fa la Maria «Egìda» Gelmini non è cosa totalmente diversa da quanto fece a suo tempo la Moratti. E quanto fece quest’ultima non costituì una radicale innovazione rispetto alle sciagurate "riforme" del centrosinistra, sotto l’impulso dei ministri Zecchino e Berlinguer. La cosiddetta parità scolastica e il sistema dell’autonomia universitaria hanno aperto le porte al processo di privatizzazione, legittimando il finanziamento alle scuole private in violazione della Costituzione e promuovendo di fatto la aziendalizzazione delle università.

Detto questo, riteniamo che la straordinaria qualità del movimento anti-Gelmini non si spieghi soltanto alla luce della gravità della minaccia incombente sul sistema formativo pubblico. La forza della protesta deriva da cause politiche più generali. Discende dal clima che il Paese respira da tempo (da prima delle elezioni politiche), un clima di crisi generale che nasce dalle difficoltà materiali in cui vivono masse crescenti di popolazione e dallo scollamento morale che - con buona pace dei sondaggi filogovernisti - separa drammaticamente il Paese reale dalla sua classe dirigente. Carovita, precarietà, caduta delle prospettive, ansie dilaganti a causa di una crisi economica di portata storica. Non si richiede un rabdomante per percepire la fibrillazione che dilaga sottotraccia evocando l’esplodere di conflitti sociali difficilmente addomesticabili. La reazione "cilena" del presidente del Consiglio - da tenere in conto nonostante la rituale smentita - va inquadrata in questo clima. Berlusconi si rivela ancora una volta per quel che è. Un animale politico dal fiuto molto sviluppato. E un «fascista naturale», sempre pronto a dismettere il volto suadente del piazzista per indossare quello truce del mazziere.
Una condizione di conflitto a tutto campo, dunque. Una connotazione sistemica della crisi e dello scontro sociale. Tutto questo deve essere però esplicitato. Va riconosciuto. Deve divenire tema della riflessione e della pratica politica. Occorre a questo punto un salto di qualità teso a porre al centro della scena precisamente questo carattere organico del conflitto, ancor oggi virtuale.

In parole povere, è necessario lavorare alla saldatura delle lotte studentesche con le altre esperienze di conflitto e con le altre espressioni di soggettività già oggi in campo. Si pensi, da ultimo, alla manifestazione dell’11 ottobre e allo sciopero dei sindacati di base del 17, alle trecento città del 25 e ai grandi cortei mobilitati ieri dallo sciopero degli studenti e dei precari. Ma si pensi anche alle lotte dei lavoratori per il rinnovo dei contratti e contro la "riforma" confindustriale del modello contrattuale. E si pensi, ancora, al sempre più marcato impulso alla protesta sociale di massa che dà mostra di sé - pur in assenza di un’adeguata direzione politica o sindacale - in connessione con gli aspetti più brutali del comando capitalistico, dalle stragi quotidiane sul lavoro al dilagare della povertà tra le classi lavoratrici (ancora nulla, peraltro, in confronto a quanto accadrà nei prossimi mesi in conseguenza della recessione); dalla devastazione dell’ambiente (trasformata dal governo in un motivo di crociata reazionaria persino contro la moderatissima e iperliberista Unione europea) all’aggressione contro l’informazione libera (non per caso apertamente minacciata da Berlusconi in occasione della sua ultima esternazione in materia di repressione militare della protesta studentesca).

Oggi un compito si aggiunge a quelli di sempre, un compito - crediamo - più urgente di ogni altro. Operare per mettere in comunicazione esperienze e soggettività, vertenze e lotte. Puntiamo in primo luogo sul successo delle manifestazioni nazionali promosse dai movimenti di lotta nella scuola e nelle università per il 7 e il 14 novembre. Ma non lasciamo che gli studenti, i lavoratori, le famiglie alle prese con il carovita percorrano strade parallele. Costruiamo incroci e convergenze, diamo subito forma a un discorso comune. Incalziamo le organizzazioni sindacali, a cominciare dalla Cgil, oggi più che mai sfidata nella sua autonomia. Lavoriamo per aprire un percorso che porti al più presto alla proclamazione dello sciopero generale, come suggeriva su queste pagine qualche giorno fa Dino Greco e secondo quanto la Fiom si accinge a proporre nell’assemblea odierna dei propri delegati. È maturo il tempo per una mobilitazione comune di lavoratori e studenti, non come evento isolato ma come momento di radicalizzazione di un movimento di lotta destinato a durare.