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Nostra intervista al ministro della Solidarietà sociale del governo di Prodi

Publie le mercoledì 31 maggio 2006 par Open-Publishing

Le urgenze del Paese

di Avernino DI Croce

Del neonato governo Prodi fa parte anche Paolo Ferrero, classe 1960, valdese della val Germanasca (Chiotti), ministro della Solidarietà sociale. Gli abbiamo rivolto alcune domande.

 Ministro Ferrero, il suo partito non ha mai fatto mistero della propria volontà di andare verso l’abolizione della cosiddetta legge Biagi sull’occupazione e il mercato del lavoro. Quali mediazioni si renderanno necessarie con le altre forze di governo per passare dalla più assoluta precarietà occupazionale a una flessibilità basata su un dignitoso livello di garanzie e di tutela dei diritti dei lavoratori?

«Il livello di mediazione è già fissato nel programma dell’Unione, che noi abbiamo sottoscritto. La legge 30 non sarà abolita, ma sarà superata da una riscrittura delle norme sul mercato del lavoro in direzione di un sostanziale superamento della precarietà. Sarà definito in maniera più rigorosa l’ambito di applicazione del lavoro a tempo determinato - evitando gli enormi abusi oggi presenti - e saranno emanati regolamenti di attuazione che non consentiranno di far passare nella forma finta di lavoro autonomo rapporti di lavoro assolutamente precari e di fatto subordinati. Lo scopo è agire su tutti i piani per combattere la precarietà del lavoro e della vita. Faccio un esempio per rendere meglio l’idea. Delle 300.000 nuove assunzioni vantate da Berlusconi nel 2004 in Piemonte, oltre 45.000 - circa il 15% - hanno avuto durata inferiore a un giorno (avete letto bene, un giorno) - e oltre 120.000 hanno avuto durata inferiore ai 30 giorni. Questa situazione è inaccettabile perché scarica sui lavoratori tutti i costi e li pone in una condizione di ricattabilità estrema e deve essere rimossa.

Il “compromesso” definito nel programma dell’Unione per noi va bene: ho personalmente contribuito alla scrittura, insieme a Treu e Damiano, della parte relativa al lavoro e al welfare. Per noi il problema è attuare quello che è scritto nel programma: fare le cose che si dicono. Sono invece preoccupato perché alcuni esponenti della coalizione non perdono occasione per esprimere propositi che con il programma concordato non hanno nulla a che vedere. A esempio alcuni giorni fa Walter Veltroni si è pronunciato per il mantenimento della legge 30, sposando integralmente la posizione della Confindustria. Sono posizioni che mi preoccupano: si pensa di poter far finta che il programma comune non esista».

 Sul piano sindacale: da una parte vi è l’esigenza di inquadrare in un contesto di tutele sindacali certe i cosiddetti lavoratori atipici o interinali e di rendere più funzionali e, entro certi limiti, omogenee le innumerevoli forme contrattuali esistenti; dall’altra vi è quella di consentire, senza eccessivi vincoli, un certo grado di flessibilità e di mobilità del lavoro. Quali rapporti con il sindacato?

«Le agenzie interinali proseguiranno le loro attività, con riguardo, però, a forme di lavoro più qualificate. Per il resto, non credo che il confronto con le organizzazioni sindacali comporti alcun genere di problema. Occorre partire dall’idea e riabituarsi a considerare il lavoro a tempo indeterminato come la forma normale del lavoro. Le OoSs sono d’accordo».

 L’Italia ha il tasso di disoccupazione, soprattutto giovanile, tra i più alti d’Europa. Quali azioni ritiene necessario promuovere per incentivare la creazione di nuovi posti di lavoro?

«Oltre ai provvedimenti detti sopra sul lavoro precario, guideremo la nostra azione con fermezza contro il lavoro nero e porremo in atto tutte quelle scelte in grado di qualificare l’apparato produttivo del Paese. Al contrario del ministro Tremonti, non crediamo che il problema sia quello di fare concorrenza ai cinesi su merci con basso valore aggiunto e manodopera a basso costo. Riteniamo necessario qualificare l’apparato produttivo del paese attraverso adeguate politiche industriali pubbliche che diano spazio alla ricerca e all’innovazione e agevolino gli investimenti produttivi. Parimenti va qualificata la manodopera con un deciso miglioramento della qualità e del livello della formazione professionale. Una particolare attenzione sarà rivolta per far crescere le dimensioni delle imprese; in Italia, anche per aggirare i diritti dei lavoratori, sono state chiuse le grandi imprese ed è stato aumentato enormemente il numero delle piccole e piccolissime. Queste piccole imprese però non riescono a stare sul mercato, perché non hanno economie di scala e non hanno risorse per la ricerca. Occorre spingere gli imprenditori italiani a superare questa frantumazione che sta alla base della crisi del sistema. Per dirla in una battuta, il problema non è il costo del lavoro ma il fatto che i padroni non sono capaci a fare il loro mestiere. Occorre poi intervenire sul potere d’acquisto dei salari. La ricchezza è mal distribuita; l’80% della popolazione si è impoverita. La maggior parte della ricchezza, concentrata nelle mani di una esigua minoranza, è utilizzata quasi esclusivamente per alimentare speculazioni finanziarie - al riparo di forme eque di tassazione - ed edilizie, che in molti casi danno luogo altresì a forme di degrado ambientale. Il governo deve favorire la crescita di salari e pensioni al fine di incentivare i consumi e contribuire quindi alla crescita economica».

 Sulle pensioni: a che età andranno in pensione i lavoratori e da quale fonte arriveranno le risorse per pagare le pensioni?

«Le risorse arriveranno, è ovvio, da quelli che lavorano. È naturale che sia così. La popolazione degli anziani aumenta; è giusto allora che aumenti, in proporzione, la percentuale di Pil da destinare ai fondi pensionistici. Non vedo perché ci si debba allarmare se circa il 13% del Pil va alle pensioni, quando gli anziani rappresentano più del 30% della popolazione. Per quanto riguarda l’età pensionistica, aboliremo lo “scalone” introdotto da Berlusconi che prevede in un sol colpo un aumento di tre anni dell’età pensionistica nel 2008 e che, se applicata, costituirebbe una botta clamorosa soprattutto per i nati tra il 1951 e il 1954. Torneremo alla normativa Dini, che fissava il limite minimo 35/57, vale a dire: con 35 anni di lavoro si può andare in pensione a 57 anni; mentre non sussistono limiti di età allorché si siano raggiunti 40 anni di lavoro».

 Si faceva cenno dianzi al miglioramento della formazione professionale ed è innegabile che c’è un forte scollamento tra scuola e lavoro. Come salvaguardare una scuola che sia luogo di crescita culturale e formazione critica generale e, allo stesso tempo, prepari i giovani a entrare nel mondo del lavoro?

«Su tale questione ho maturato una posizione radicale, guardando ai Paesi del Nord Europa, che spesso sono additati come modelli. In un mondo in cui si può dover cambiare lavoro tante volte nella vita, è necessaria una lunga formazione di base per tutti i giovani, anche attraverso forme di salario sociale pagato dallo Stato. In Danimarca, a esempio, i giovani ricevono un salario sociale, per la durata di 60 mesi, per poter frequentare l’università a spese della collettività. 60 mesi sono superiori alla durata media della maggior parte dei corsi universitari, così in molti casi c’è anche il tempo per fare delle esperienze all’estero. Successivamente essi affrontano il terreno della formazione professionale, con percorsi non generici ed entrano nel mondo del lavoro quasi a trent’anni. Il percorso formativo è quasi individualizzato, sia all’università che nella formazione professionale. È quindi necessaria una diffusa formazione di base, universalistica e generale, su cui poi innestare la formazione professionale più specifica. Il contrario di quello che ha fatto la riforma Moratti, che invece divide gli studenti tra i poveracci, per i quali la formazione professionale inizia a 15 anni, e chi ha i soldi, che studia per l’università. Siamo tornati a una selezione di classe che però non è nemmeno in grado di rispondere alle esigenze dell’apparato produttivo».

 Ministro lei è valdese e comunista. Una lettura un po’ approssimativa di Max Weber conduce taluni ad attribuire all’etica protestante un ruolo di supporto teorico al modello di organizzazione capitalistica della società, del lavoro e del profitto. Come vede lei la questione?

«Concordo con le tesi sostenute da Mario Miegge nel volume Il protestante nella storia. Il protestantesimo costituisce un grande salto per uscire dal medioevo ed entrare nella modernità, per la nascita dell’individuo moderno. In questo senso ha certamente svolto una funzione positiva nel determinare il contesto nel quale è nato il capitalismo. Ma da questo ad affermare che l’etica protestante della responsabilità individuale è alla base di quel capitalismo privo di etica, che nella pratica si concretizza in atteggiamenti addirittura predatori, da uomini-lupo, ce ne passa un bel po’. L’idea di responsabilità individuale non era mai disgiunta in Calvino e nei calvinisti dall’idea di comunità, di comunione, di solidarietà: altro che il capitalismo immorale e guerrafondaio di oggi».

 Il mondo evangelico italiano è molto attento ai problemi connessi ai fenomeni migratori. La Fcei è molto attiva e operosa con i migranti. Qual è il suo pensiero di ministro del welfare e di evangelico sul problema dei migranti?

«Sui migranti la destra ha giocato una partita sporca. In un contesto in cui le stesse politiche di destra hanno fatto crescere il disagio e l’insicurezza sociale, le destre hanno additato gli immigrati come i portatori di ogni male. Non è così: i nostri avversari, i responsabili del disagio sociale sono i ricchi e le politiche liberiste, non i poveracci che scappano dalla miseria alla ricerca di fortuna. Per questo, mentre è necessario stroncare le organizzazioni criminali che si arricchiscono sulla tratta delle persone, è indispensabile andare a un superamento della legge Bossi-Fini e procedere alla regolarizzazione dei migranti che lavorano in nero. Occorre poi sviluppare una vera e propria politica dell’accoglienza, degna di un Paese a elevata civiltà, multiculturale, multietnico e multilinguistico. Il nostro Paese deve riscoprire quelle capacità di dialogo tra diverse etnie, lingue e culture che in fondo lo caratterizzano».

 È sempre più diffusa in tutto l’occidente cattolico, ma anche in quel pezzo di America fondamentalista che sostiene Bush, una forte tendenza all’affermazione dello stato etico, alimentata da un altrettanto forte timore di dissolvimento della civiltà e della fede cristiana nel relativismo della conoscenza. Che cosa pensa, ministro, più in generale, della libertà di coscienza e della libertà religiosa?

«Nel nostro Paese bisogna intanto andare ben oltre la legge sui culti ammessi. Il papa può dire alla sua chiesa quello che vuole, ma bisogna garantire a tutti di professare liberamente la propria fede a proprio modo. Devono essere rapidamente approvate le intese con tutte le confessioni religiose che ne hanno fatto richiesta, come prevede la nostra Costituzione e che sono rimaste invece per anni nei cassetti ministeriali e della presidenza del Consiglio. È però altresì urgente l’approvazione di una legge organica sulla libertà religiosa che vada anche oltre le intese. Sullo stato etico ha ragione, la tendenza è comune in molte parti del mondo. Marcello Pera e Giuliano Ferrara hanno grandi affinità con i telepredicatori fondamentalista e “fascistoidi” nordamericani. Non si tratta di un fenomeno di religiosità popolare (Pera e Ferrara ammettono esplicitamente di non essere credenti), bensì di vera e propria manipolazione delle masse. Uso il termine “fascistoide” a ragion veduta: il nazifascismo usò le stesse categorie della paura, alimentata da una crisi della società, per affermare la supremazia e il dominio di una razza e di una civiltà sulle altre e su quella ebraica in particolare. Si tratta di una visione “differenzialista” - noi e loro, dove loro sono nemici - che accomuna, sul piano mondiale, le classi dominanti in crisi, che cercano nell’idea della guerra di civiltà una via d’uscita ai loro problemi. Da questo punto di vista non vi è molta differenza tra la versione protestante dell’America di Bush, quella cattolica di Pera e Ferrara e quella del fondamentalismo islamico».

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