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Note di Interferenze Urbane
di Fabrizio Violante
Le città sono un immenso laboratorio sperimentale,
teatro dei fallimenti e dei successi dell’edilizia e dell’architettura
Jane Jacobs
Confesso di averne mancato l’inaugurazione lo scorso giugno, però poi mi sono rifatto: il nuovo museo di Parigi l’ho diligentemente visitato in una grigia giornata novembrina, senza più le lunghe code all’ingresso. Certo i 40mila metri quadrati del Musée du quai Branly, celebrato senza pensarci troppo da gran parte dei media francesi come l’emblema del dialogo tra le culture, stordiscono. L’ultimo grande monumento della capitale francese, gloria del presidente Chirac, grazie al progetto di Jean Nouvel è sicuramente un gesto architettonico radicale, ibrido, colorato, teatrale; audace pur senza la retorica di altre grandi architetture parigine - come la Grande Arche de la Défense -, tuttavia - sfuggito infine alla penombra del suggestivo percorso a più livelli tra la miriade frastornante e fatalmente eterogenea degli oggetti esotici esposti (per lo più bottino degli anni non così lontani del colonialismo) - non sono riuscito a nascondermi un suo grande difetto, l’autoreferenzialità. L’edificio si chiude all’interno del suo isolato circondandosi di un grande parco verdissimo - disegnato dal paesaggista Gilles Clément, che in città ha già realizzato il Parc Citroën -, difeso da un alto muro di vetro, rinunciando così a partecipare alla città.
Penso che - mille miglia lontano! - qualcosa di simile sia avvenuto nell’area ex-Fiat di Novoli (ne abbiamo parlato infinite volte su queste pagine), dove si è fatto un concentrato di funzioni rinunciando alla realizzazione di un vero progetto urbano, che servisse e interagisse con la città esistente. Il quartiere in pittoresco stile neo-ottocentesco che ne è venuto fuori, con il suo assurdo richiamo al linguaggio architettonico della Firenze storica, nella periferia in cui è calato non risulta che un triste, grottesco marziano.
È vero che l’architettura da sola non può ridefinire metodi di indagine e strategie di governo della città contemporanea, ma è evidente che oggi più che mai essa debba considerare la sua responsabilità sociale e recuperare il suo ruolo politico nella vita della città stessa, e non perdersi in inutili soliloqui. Il mondo si urbanizza inesorabilmente senza alcun rispetto per i luoghi e le persone, la crescita delle città si traduce troppo spesso in speculazione, e gli architetti non possono rimanere indifferenti di fronte ai fenomeni di esclusione, di sfruttamento, di violenza che inevitabilmente ne derivano. La paura della povertà, dell’immigrazione non può tradursi nelle politiche urbane di riduzione dello spazio pubblico, così come l’urgenza, l’emergenza, non possono imporre le proprie non-regole: è in nome dell’urgenza che in Francia si sono costruiti i grands ensambles con le conseguenze che sono ormai tristemente note a tutti. Così gli architetti devono tornare ad interrogarsi sul grande tema della residenza, senza lasciarsi vincere dalle logiche del mercato che non fanno che accrescere le esclusioni sociali e spaziali - come è il caso, ad esempio, dell’intervento di Milano Santa Giulia progettato da Foster, in bella mostra alla Biennale veneziana, di cui il nostro pieghevole si è già occupato.
Proprio alla Biennale, dedicata appunto al tema dell’urbano, ciò che più ha colpito i visitatori nella mole di informazioni offerte dall’allestimento delle Corderie, sono state le gigantografie delle città viste dall’alto, perché a noi architetti, abituati a leggere cartografie, planimetrie, piante, queste vedute davano l’illusione di leggere la vera grafia della città, la sua scrittura di pietre, di pieni e di vuoti, di ombre e di luci, dimenticando che invece la città in realtà è in basso, dove solo ci si può immergere nei sui conflitti e individuarne i nodi problematici. Molto semplicemente voglio dire che gli architetti non dovrebbero vederla a distanza la città, ed è questo l’errore più evidente che è stato fatto anche alla Biennale che ha presentato solo semplici letture dei fenomeni urbani contemporanei, finendo col non riuscire a problematizzare a fondo la questione urbana, che oggi inevitabilmente ci coinvolge tutti.
Dobbiamo fare i conti con l’organismo reale della città, svelare il suo funzionamento concreto, perché come è naturale la città è la più evidente spia della nostra società, il luogo ove si coagulano le sue espressioni più importanti e le problematiche cruciali.
Già molto tempo fa Henri Lefebvre affermava che per costruire una società nuova bisogna costruire una città nuova...