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Note sulla Sinistra in Europa e in America Latina
Publie le lunedì 5 novembre 2007 par Open-Publishingdi Luigi Vinci
Europa
I paesi dell’Europa centro-occidentale presentano un notevole campionario di tentativi di unificazione (riusciti bene, riusciti in parte o non riusciti) tra le sinistre politiche (e talvolta anche di movimento) orientate in senso antisistemico. Al fondo di questa situazione ci sta un complesso di fenomeni di più o meno lunga lena: la crisi del movimento operaio storico (per il passaggio a posizioni liberali della socialdemocrazia e a seguito del tracollo dei sistemi a socialismo autoritario a est), l’emergenza di nuovi profili culturali e sociali antisistemici (ambientalismo, femminismo, cristianesimo della liberazione, altermondialismo), l’incremento vigoroso di politicità delle società civili. E’ così diventata questione strategica cruciale, allo scopo della ricostruzione di una sinistra antisistemica a larga base sociale, quella della costruzione di assetti unitari.
Il tentativo più noto e più controverso è probabilmente quello, in Spagna, di Izquierda Unida (Sinistra Unita). Izquierda Unida fu costituita nel 1986 come federazione di varie forze politiche di sinistra: il PC di Spagna, lo PSUC (il partito socialista unificato di Catalogna: comunista), il Pasoc (partito di azione socialista: sinistra socialista), Esquerra Republicana (Sinistra Repubblicana, Catalogna), gruppi minori. I partiti consistenti erano il PC di Spagna e il PSUC, Esquerra Republicana e il Pasoc erano due piccole formazioni.
Vediamo cos’è stata a lungo Izquierda Unida. A IU fu affidato l’insieme delle competenze operative già di pertinenza dei partiti o gruppi che vi si federavano. Essa aveva i suoi congressi, nei quali eleggeva i suoi organismi. Aveva una presidenza e un presidente (facenti le funzioni che in Italia sono di segreteria e segretario). Inoltre erano suoi aderenti sia gli aderenti ai partiti o gruppi federati, che chi si iscrivesse specificamente a IU. Le sedi locali erano in genere sedi di IU; i partiti o gruppi federati disponevano, che io sappia, di uffici centrali e di uffici almeno nei centri più importanti o di loro più forte radicamento. Anche i partiti o gruppi federati avevano, ovviamente, le loro strutture, facevano i loro congressi ed eleggevano i loro organismi. Ciò che però va sottolineato è che essi avevano strutture assai alleggerite; la struttura “pesante” era quella di IU come tale. C’era, per esempio, il responsabile esteri del PC: ma c’era anche quello di IU, che veniva “prima”, e inoltre c’era che IU aveva una sua struttura esteri, che comprendeva anche i responsabili esteri del PC e degli altri partiti o gruppi federati. Non tutti i partiti o gruppi federati, infine, “duplicavano” totalmente la struttura di IU: solo il PC, forse anche il PSUC, più consistenti, lo facevano. Ovviamente, ancora, alle elezioni partecipava IU e a livello istituzionale operavano solo rappresentanti o gruppi di IU.
Izquierda Unida è da un certo momento in avanti entrata in un processo autodissolutorio, a seguito degli scontri, non sempre di facile lettura politica, che hanno attraversato il quadro dirigente del PC. La grande questione era il rapporto al PSOE, allora diretto da Felipe Gonzalez: a cui la risposta oscillava tra la differenziazione polemica più dura e il tentativo di una cooperazione su base programmatica; questione di difficilissima soluzione, data la forza e l’attitudine egemonica del PSOE, e data, parimenti, la forte propensione unitaria nel popolo di sinistra, da relativamente poco tempo uscito dal fascismo. Ho avuto modo di constatare più volte come quei compagni del PC che erano dal lato della differenziazione dura passassero repentinamente all’altra posizione, e viceversa; e al tempo stesso come, però, lo scontro interno continuasse a riprodursi sempre tra gli stessi, benché, magari, tra posizioni invertite. Gli scontri sono cominciati almeno quindici anni fa, e non sono tuttora cessati. All’inizio il dissenso sui rapporti con il PSOE di Felipe Gonzales determinò nel PC la piccola rottura di un’area orientata alla cooperazione: ma fu solo l’inizio di lacerazioni che portarono alla perdita di figure e aree non sempre su questa posizione, sino a una scissione significativa, alla rottura tra PC e PSUC e alla scissione di quest’ultimo. Ne conseguì che il PSUC uscì da IU, diventando un partito socialista ambientalista e che in IU entrò il piccolo Partito Comunista dei Popoli di Spagna, che non ne aveva fatto parte; successivamente, ancora, usciranno da IU sia Esquerra Catalana che il Pasoc (quest’ultimo tuttavia conserverà una cooperazione elettorale con IU). In conclusione le strutture di IU continuano a essere le stesse descritte sopra: IU tuttavia è più solo la federazione di organizzazioni comuniste.
Sul piano elettorale Izquierda Unida duplicò abbondantemente, all’inizio, il potenziale del PC, giungendo al livello (a seconda delle tornate elettorali) del 12-14 per cento. Ciò che indubbiamente la premiò fu il profilo unitario (non certamente le piccole formazioni a cui PC e PSUC si erano federati avevano portato di specificamente loro un’elevata quantità di voti). Ma attualmente IU viaggia sul 4-5%. Ha perso Siviglia, è ridotta a molto poco in larga parte della Spagna. Conserva un buon insediamento nelle Asturie, grazie al forte radicamento proletario del loro partito comunista.
In ultimo c’è da notare come Izquierda Unida abbia più recentemente costituito un’alleanza, di tipo elettorale, con la coalizione PSUC-verdi della Catalogna.
Quali sono stati i motivi della crisi. In larghissima parte, a mio avviso, l’infinita lotta interna al PC, che ha tolto progressivamente credibilità sociale e forze e dissolto l’alleanza tra comunisti da un lato e socialisti di sinistra o altri profili progressisti dall’altro. La crisi interna è stata senz’altro alimentata da divergenze di più o meno ampia portata sul rapporto al PSOE: tuttavia non riesco a ridurre la lotta interna solo a queste divergenze. Le forze non comuniste già interne a IU non hanno avuto alcun ruolo nella determinazione della sua crisi: sono stato diretto testimone del loro smarrimento dinanzi alla lotta interna al PC, e di come abbiano deciso di uscire da IU quando il restringersi dello spazio elettorale aveva portato il PC a escludere le forze minori da ogni possibilità di rappresentanza istituzionale. In un secondo tempo, sempre a mio avviso, IU non ha colto il momento del movimento altermondialista, che pure in una parte della Spagna (per esempio in Catalogna) ha avuto un grande sviluppo, non riuscendo a coglierne la portata di rinnovamento strategico e sul terreno della cultura politica. IU non ha dunque rappresentato un interlocutore significativo di quel movimento, pur essendone stata ovviamente partecipe.
Come si può intuire, in ultimo, il “modello” Izquierda Unida (prescindendo dalle sue disgrazie, che non è ontologicamente necessario duplicare) risulta assai flessibile: esso consente di dosare e di sperimentare il grado di delega di poteri alla struttura federata, quindi di dosare e di sperimentare il processo di alleggerimento delle strutture dei partiti o gruppi federati, consente che alcune funzioni siano svolte in modo intrecciato dal partito principale e dalla struttura federata, consente infine che vi sia un’unica figura leader di riferimento (per esempio, all’inizio il presidente di IU era il segretario politico del PC), oppure di avere due figure, ecc.
Esperienze analoghe di aggregazione politica riguardano le sinistre di vari paesi europei. Della Linke tedesca sappiamo tutto, merita di essere un momento rammentata, invece, l’esperienza nordica, in particolare quella svedese. Il PC svedese decise, una trentina di anni fa, la propria trasformazione in “Partito della Sinistra-comunisti”. Era la conseguenza di più elementi: in primo luogo, il suo allontanamento “eurocomunista” dall’Unione Sovietica come modello socialista di riferimento e dal marxismo-leninismo come corpo teorico; la sua difficoltà di reggere l’urto dell’esperienza socialdemocratica nordica, che aveva in sé elementi parziali di socialismo ed era avanzatissima sul piano della qualità della democrazia e dei diritti umani; l’emergenza nella società svedese di gruppi socialisti di sinistra smarcati dalla socialdemocrazia e di gruppi di femministe di orientamento socialista. Il cambiamento di nome, concordato con gruppi femministi, alludeva al fatto che il PC si trasformava in un più capiente partito di sinistra antisistemica, tuttavia rimanendo un partito fatto da comunisti o poco più. Inoltre il partito si modificava strutturalmente e culturalmente ancor più di quanto già non avesse fatto: assumeva tra i suoi riferimenti teorico-identitari, assieme a quello della tradizione socialista del proletariato svedese, femminismo e ambientalismo, si dava una doppia leadership, nella figura di un presidente (nel nostro lessico, un segretario) e in quella di un segretario (nel nostro lessico, un vicesegretario), uno dei quali doveva essere una donna, inoltre forzava sulla democrazia di genere eleggendo alla presidenza una donna. Tutto ciò consentiva l’entrata crescente nel partito di ex socialdemocratici, di femministe e anche di verdi: il partito allora poteva decidere di chiamarsi semplicemente “Partito della Sinistra”. Non la faccio lunga, l’esperienza finlandese o quella islandese sono in parte simili a quella svedese, in parte no, e un po’ anche le esperienze norvegese e danese.
Il risultato è stato in Svezia che dal 5-6 per cento dei voti del PC si è balzati al 12-13 e poi al 16. Inoltre questo livello di consenso ha retto a lungo. Tuttavia alle ultime elezioni politiche (un anno fa, quelle che hanno visto la sconfitta della sinistra svedese e l’affermazione di una maggioranza parlamentare e di un governo di coalizione “borghesi”, secondo il lessico di tutta la sinistra svedese, come effetto della politica di tagli alla spesa sociale praticata dal governo socialdemocratico, appoggiato in parlamento, non essendo la socialdemocrazia autosufficiente, anche da Partito della Sinistra e Verdi) il Partito della Sinistra ha avuto un brusco tracollo al 6 per cento. Non pare proprio che la cooperazione con socialdemocrazie che si spostano, tanto o poco, verso posizioni liberiste giovi molto ai loro alleati di sinistra, nei vari paesi dell’Europa occidentale.
Il Synaspismos (è l’acronimo corrispondente a Coalizione della Sinistra Progressista) esprime, in Grecia, un’altra interessante esperienza. Va premesso di come, tuttavia, essa sia un’esperienza di raccolta parziale della sinistra antisistemica: il KKE (il Partito Comunista di Grecia) non solo non ne è partecipe ma gli è duramente ostile. Il Synaspismos è il risultato dell’unione in partito (attraverso un processo graduale) di forze diverse: quello spezzone comunista che si raccoglieva nel Partito Comunista cosiddetto “dell’interno” (il KKE è l’erede dell’altro spezzone comunista, quello cosiddetto “dell’esterno”; questa divisione è remota, risale ai tempi immediatamente successivi alla guerra civile, divenne poi la divisione tra “eurocomunisti” e marxisti-leninisti filosovietici), più gruppi di militanti dei movimenti (prevalentemente studenteschi) del ’68, più, in tempi relativamente recenti, militanti ambientalisti. Il Synaspismos è abbastanza stabile, elettoralmente, attorno a 4 per cento.
Due rapide parole conclusive, credo opportune. L’insieme in Europa centro-occidentale delle esperienze a sinistra andrebbe considerato, nel quadro del nostro ragionamento, anche dal punto di vista dei processi, estremamente complessi, di dissoluzione-ricomposizione di identità, di forme del simbolico, di forme del rifarsi ai percorsi novecenteschi e magari anche ottocenteschi della sinistra. E’ un ragionamento lungo e, se si vuole essere seri nella ricostruzione in Italia di una sinistra antisistemica a larga base sociale, da non condurre sulla base di semplificazioni, stereotipi, richiami identitari o, viceversa, forzature volontaristiche prive di fondamento culturale. Il cambiamento in sede di identità e di simbolico è sempre un processo travagliato, poiché morde il fondo delle modalità psicologiche e antropologiche degli individui e delle collettività partecipi della sinistra politica. Ci sono state circostanze traumatiche o accumuli di circostanze più o meno traumatiche che hanno imposto, in alcuni paesi, passaggi di identità alla militanza comunista: della Svezia ho scritto, della Germania (orientale) si capisce da sé il perché. Altri partiti comunisti rifiutano, nelle loro collettività militanti, analoghi percorsi: i comunisti francesi, quelli portoghesi, quelli greci, quelli italiani (mi pare, quanto meno a larga maggioranza), quelli stessi spagnoli, pur non essendo questi partiti quasi mai alieni dalla sperimentazione, per esempio, di coalizioni stabili (spagnoli, credo che sarà così per quelli italiani) o di stabili alleanze elettorali (portoghesi: stabilmente alleati ai verdi), o da tentativi (purtroppo a oggi falliti) di tali alleanze (francesi). Si tratta d’altronde di partiti che nella loro storia non hanno muri, bensì pagine di decenni di lotte antifasciste, poi per lo sviluppo della democrazia, dei sistemi di welfare e di protezione del lavoro, ecc. Se dunque per alcuni corpi militanti il cambiamento di identità è stata la condizione, laboriosa, della sopravvivenza e del rilancio, per altri un tale cambiamento con ogni probabilità rischierebbe di essere (come in ultima analisi ci insegna l’esperienza dello scioglimento, nel 1991, del PCI) la distruzione del grosso delle loro forze attive.
America latina
L’evoluzione configurata in questi anni dalle sinistre latino-americane a propensione antisistemica è molto interessante, e portatrice anche di qualche elemento di riflessione per le sinistre in Europa. Vanno tenute tuttavia presenti le notevoli differenze di quadro generale. Intanto l’America latina, in questo distante anni luce dall’Europa, è il luogo del pianeta che vive un processo di nuova espansione di esperienze di potere socialista; è in altri termini, come si diceva una volta, caratterizzata da condizioni rivoluzionarie o pre-rivoluzionarie. In secondo luogo l’America latina è stata sino a tempi recenti il luogo, quasi ovunque, di un estremo frazionamento delle sue sinistre politiche più radicalmente antisistemiche: in alcuni paesi si contava una pletora di partiti comunisti filosovietici, maoisti, partiti e gruppi trockisti, movimenti guevaristi, ecc., in genere nella più aspra polemica tra loro, pur dicendo tutti fondamentalmente le stesse cose. Un contributo decisivo, infine, ai processi di ricomposizione unitaria e di rilancio su basi di massa della sinistra antisistemica è venuto dai gruppi e dai quadri formati dal sindacalismo di classe, dal cristianesimo rivoluzionario, dai movimenti delle popolazioni native e nere (Nicaragua, Brasile, Uruguay, Venezuela, Bolivia, Ecuador, Paraguay, ecc.) e dall’invenzione di nuove forme di partecipazione di massa e di nuove concezioni del socialismo (a partire dalle esperienze di democrazia partecipativa del Brasile).
Il processo ovviamente non è stato il medesimo nei vari paesi; spesso tuttavia troviamo, all’inizio, aggregazioni federative. Forse non tutti sanno che il PT di Lula fu all’inizio (negli anni ottanta) una federazione di partiti e gruppi, dei quali, inoltre, le attuali correnti sono, in certa parte, l’eredità. Un assetto federativo è oggi, ancora, quello del Frente Amplio dell’Uruguay; il Venezuela, a sua volta, sta passando proprio adesso da una situazione caratterizzata da cinque o sei partiti di sinistra, più molti gruppi, coalizzati a supporto della presidenza Chávez a un Partito Socialista Unito. Ricordo come, inoltre, questo fu anche il processo all’inizio del potere rivoluzionario a Cuba. Mi pare altamente probabile che qualcosa del genere varrà prossimamente per l’Ecuador di Correa, dove operano più partiti di sinistra e forti movimenti indigeni. La Bolivia di Evo Morales vede oggi invece un forte partito antisistemico, il Movimento al Socialismo, sorto, fondamentalmente, dai movimenti della popolazione contadina nativa, dai suoi sindacati e dai sindacati dei minatori.
E’ interessante, ancora, il modo in cui i processi di democrazia partecipativa hanno teso o stanno tendendo in alcuni tra questi paesi al ridimensionamento delle forze politiche tradizionali (socialdemocratiche-populiste, democristiane, conservatrici, ecc.), già a forte insediamento elettorale, vuoi per ruoli nazionali o riformisti avuti in tempi remoti, vuoi per le politiche clientelari e la corruzione di governo. In Venezuela, poi in Bolivia, infine in Ecuador le presidenze della repubblica hanno rapidamente promosso la formazione di assemblee costituenti, sulla base di programmi di restituzione dei beni comuni alla popolazione, di uso delle risorse (storicamente espropriate da oligarchie e dal capitale straniero) per elevarne le condizioni di vita, di promozione di una democrazia diffusa ed estesa all’economia e di prime trasformazioni socialiste, ottenendovi maggioranze larghe, quindi in grado di effettivamente avviare a realizzazione i programmi.
Ancora più peculiare, infine, la situazione dell’Argentina. In questo paese la svolta a sinistra è avvenuta a opera, dopo il tracollo finanziario del paese e la crisi verticale del tradizionale sistema politico, del passaggio della presidenza a una figura, Kirschner, la cui formazione suo tempo avvenne nell’ala più radicale del peronismo, quella che, nel periodo della dittatura militare, giunse a produrre l’esperienza di guerriglia dei Montoneros. La comprensione degli eventi attuali dell’Argentina richiede che, infatti, si abbia presente lo storico forte legame delle masse povere di questo paese all’esperienza peronista.