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Nullafacenti per chi e perché? Quel che non dice il prof.Ichino
Publie le giovedì 5 aprile 2007 par Open-Publishing1 commento
NULLAFACENTI PER CHI E PERCHE’?
QUEL CHE NON DICE IL PROFESSOR ICHINO
Chi sa un po’ di politica italica e legge il pamphlet del professor Pietro Ichino “I nullafacenti” (Mondadori, Milano, 2006) può restare sorpreso. Se poi dà uno sguardo alla biografia dell’autore lo stupore addirittura cresce.
Ichino ha ampiamente superato la cinquantina, è docente di Diritto del Lavoro alla Statale di Milano, è stato dirigente d’un pezzo di sindacato doc come la Fiom-Cgil e poi responsabile dei servizi legali della Camera del Lavoro di Milano. Il suo grido di dolore su malesseri e inefficienze nella Pubblica Amministrazione nostrana è sacrosanto ma si concentra sugli effetti del problema senza sfiorare le cause o almeno tralasciando molti e molti mali.
Colpisce soprattutto la smemoratezza o una sorta di rimozione di un presupposto politico-sindacale che ha caratterizzato per decenni le assunzioni e l’organizzazione del lavoro nell’Amministrazione Pubblica. Il vizio tutto italiano della clientela, che ha radici in costumi certo più antichi dello Stato Repubblicano ma che nel vivere contemporaneo è diventato un sistema organizzato.
Clientele e Pubblica Amministrazione
Negli ultimi sessant’anni d’Italia - degasperiana prima, dorotea e del centrosinistra fanfaniano e nenniano poi, e ancora consociativa e ora bipolare - la linea governativa verso la Pubblica Amministrazione si è caratterizzata per quello che è stato definito “voto di scambio”, grazie al quale i politici distribuivano posti di lavoro per figli, mogli, parenti vicini e lontani dei propri elettori.
Il “posto fisso” nella Pubblica Amministrazione rappresentava nel Belpaese del boom economico una manna dal cielo. Ha continuato a esserlo a lungo anche se col passare dei decenni le svalutazioni della lira, la trasformazione del substrato sociale hanno offerto ai pubblici impiegati stipendi sempre meno vantaggiosi. Comunque in molti casi il loro era una sorta di vitalizio poiché l’impegno lavorativo richiesto era scarso e sull’inefficienza generale di Parastato ed Enti Locali tutti chiudevano un occhio, dal Presidente o Direttore Generale fino all’usciere pronto a fargli la spesa.
Con un arco di adesioni globale - da destra a sinistra - tutti i partiti, tutti, hanno partecipato all’immenso mercimonio di quest’enorme “ufficio di collocamento”. E con loro i sindacati della triplice, gli autonomi e da ultimi i fascisti della Cisnal ribattezzati in Ugl dall’acqua di Fiuggi. Ciascuno ha fatto e continua a fare lo smistatore di assunzioni di futuri tesserati.
Nel ventre molle della Pubblica Amministrazione trovava collocazione un numero straordinariamente esagerato d’impiegati che ha fatto lievitare le spese di gestione senza far guadagnare nulla all’efficienza di servizio, anche perché a parecchio personale inquadrato nelle mansioni più varie non veniva assegnato alcun lavoro o quel poco esistente era diviso fra un numero elevato di dipendenti, cosicché tutti raccoglievano briciole.
Non sempre né per tutti è stato così. Però il fenomeno è cresciuto a dismisura sin dalla metà degli anni Settanta quando l’Italia ha diminuito l’occupazione nella fascia produttiva primaria e secondaria gettandosi a capofitto nel terziario.
Lavoratori contro
Quest’elementare analisi dei comportamenti della politica sfugge, pensiamo volutamente, al professor Ichino che nella denuncia sceglie la via del polverone generalizzato volto a risolvere le tante contraddizioni a senso unico: colpendo i lavoratori. Parliamo di lavoratori non dei nullafacenti cronici che adottano comportamenti di rifiuto tramite l’assenteismo, pratica peraltro quasi estinta e neutralizzata dai contratti vigenti che la penalizzano con sensibili perdite di quote di stipendio.
Nel testo sarebbe utilissimo citare casi collettivi parlando di Ministeri ed Enti pubblici dove sono state riscontrate situazioni scandalose. Invece ci sono casi personali o disamine nient’affatto uguali, perché un conto è trattare situazioni di meschine svogliatezze individuali d’impiegati o dirigenti, ben altro è mettere il dito nella piaga della nullafacenza organizzata, voluta e sostenuta dallo stesso sistema.
Questo in verità sia l’autore sia le lettere al “Corriere della Sera”, comparse a commento dei suoi articoli dell’agosto scorso e riportate nel libro, non lo nascondono. Anzi si dice che licenziare i nullafacenti paradossalmente non sia una soluzione. E allora?
Il leit-motiv del discorso ichiniano è proprio uno dei cavalli di battaglia storici del padronato: la contrapposizione dei dipendenti. Dopo aver introdotto nel mercato del lavoro la sequela dei mortificanti contratti atipici della Legge 30 - quella che propone ai giovani di lavorare sottocosto come sui mercati del sud-est asiatico o di restare cronicamente precari ben oltre la soglia dei quarant’anni - si fomenta una rivendicazione di quest’ultimi contro i garantiti-fannulloni.
Un classico gioco delle tre carte che punta a mescolare i problemi, a condirli con dosi di demagogia, a risolverne alcuni in modo unilaterale. Ad esempio giustificare il lavoro nero, legalizzato dalla Legge 30, e spostare l’obiettivo dei dipendenti a progetto penalizzati da questa legge non verso la conquista di contratti dignitosi e duraturi ma contro gli usurpatori del “lavoro garantito e nullafacente”.
E l’efficienza?
Gioco misero, dispiace dirlo, questo del professor Ichino. Perché pensiamo che voler davvero risanare la Pubblica Amministrazione da comportamenti censurabili basati su individuate e croniche responsabilità soggettive, sia possibile puntando a una vera efficienza che faccia piazza pulita di clientele, anche quelle di dirigenze e management garantite dal padrinaggio di partito e sindacato.
Magari si scoprirebbe che coloro che praticano una personale refrattarietà al lavoro non sono un esercito. I nullafacenti diventano numerosi se si entra nei meandri di Risorse Umane gonfiate dal già esposto meccanismo delle assunzioni clientelari, a seguito delle quali non s’assegna all’impiegato nessuna mansione concreta, gli si fa fare di tutto e nulla vivacchiando alla giornata. Oppure lo si tiene in attesa di collocazione per anni, invogliandolo al non lavoro e creandogli una dequalificazione di fatto.
Una maggiore onestà nella disamina del problema potrebbe egualmente richiedere misure draconiane verso le amebe del lavoro, individuando innanzitutto chi ricopre una vera funzione parassita per propria unica responsabilità.
Invece il prof sparacchia nel mucchio. Infila dentro la frustrazione, reale e comprensibile, del laureato ultratrentenne precarizzato dai contratti a progetto tagliati e cuciti a misura di sfruttamento da giuslavoristi senza scrupoli che magari Ichino conosce bene. Contratti che fruttano settecento euro mensili (ma anche molto meno) con una durata, se va di lusso, di un annetto per poi ricominciare senza ombra alcuna di previdenza e anzianità. Lo si oppone al dipendente garantito da milleduecento euro mensili, additato quale responsabile della sua debole posizione lavorativa ed economica.
Proteso com’è a sostenere tesi para-aziendali Ichino non intacca gli squilibri della Pubblica Amministrazione da lui stesso denunciati. Risolve tutto in una contrapposizione fra tipologie di lavoratori preservando e incrementando inefficienza e mugugni. E francamente di questo non s’avvantaggia né il lavoratore tipico né quello precario e tanto meno il cittadino utente.
Enrico Campofreda, 3 aprile 2007
Messaggi
1. Nullafacenti per chi e perché? Quel che non dice il prof.Ichino, 7 aprile 2007, 14:59
Contro «fannullopoli» prendiamo le impronte
Antonio Sciotto da "Il Manifesto" del 6 Aprile 2007
Il professor Pietro Ichino, capofila dei fustigatori di quei «grandi fannulloni» dei dipendenti pubblici, ha finalmente trovato il suo paradiso: è una cittadina in provincia di Napoli, si chiama Giugliano. Il sindaco ha deciso di «efficientare» il controllo sugli impiegati comunali, e ha così disposto la sostituzione del classico tesserino magnetico con un più efficace metodo di schedatura: le impronte digitali. Il cartellino, si sa, lo puoi passare al collega, che lo timbrerà al posto tuo mentre prendi il caffè o fai lo shopping.
Al contrario, sapere che il «grande fratello municipale» ha nella sua banca dati il tuo codice più sensibile e personale - l’impronta digitale - ti farà stare in un’ansia continua, costringendoti al lavoro. Come fosse una prigione.
Insomma, in Italia ci si abitua a tutto e chissà che gli impiegati giuglianesi non siano i pionieri di un nuovo uso del lavoro, che permetterà al padrone di schedarti nell’intimo. D’altra parte, un po’ in tutta Europa accade già che i colossi dei supermercati tengano all’uscita degli ispettori in incognito pronti a perquisire le borsette e le automobili delle cassiere, quando meno se lo aspettano, per verificare che non abbiano rubato uno snack o un pacco di pannolini. Ma non si è interessati a recuperare i pochi euro del presunto furto, davvero nulla rispetto ai bilanci miliardari delle multinazionali: in realtà in gioco è il controllo, l’ansia messa addosso al dipendente, la voglia di umiliarlo perché non osi pensarsi pari al padrone.
Ichino ieri affermava, entusiasta per l’annuncio del sindaco di Giugliano, che prendere le impronte non viola lo Statuto dei lavoratori né la privacy. Vorremmo segnalare al professore, che è un giuslavorista, una recente Deliberazione del Garante della privacy (numero 53 del 23 novembre 2006, «Linee guida in materia di trattamento di dati personali di lavoratori»), dove al comma 4 si dice che «l’uso generalizzato e incontrollato di dati biometrici, specie se ricavati dalle impronte digitali, non è lecito». Urge un ripassino.