Home > Obama vince contro il suo partito
Kill the Bill non è l’ultimo film di Quentin Tarantino, ma lo slogan che inferociti dimostranti repubblicani gridavano domenica fuori dal parlamento di Washington, incitando i propri deputati a «uccidere la legge» sanitaria. A dimostrazione del fatto che la salute pubblica è diventata negli Usa il terreno di una guerra di religione.
Ed è in quanto guerra di religione che va analizzata la vicenda parlamentare della riforma sanitaria. Era infatti evidente a tutti che l’opposizione dei «Tea Parties» e dell’estrema destra conservatrice nulla avesse a che vedere con i contenuti della legge. Come poteva essere credibile lo slogan Obama lied, Gramma died («Obama mentì, nonnina morì»), di fronte a una legge sponsorizzata dall’Associazione nazionale dei pensionati (Aarp)? Oppure lo slogan «Il servizio sanitario nazionalsocialista di Obama» (raffigurato con i baffetti alla Hitler davanti a una catasta di cadaveri di Dachau), di fronte a una riforma che esclude la public option e che estende il mercato delle assicurazioni private? Come potevano i repubblicani farsi i paladini di Medicare (l’assicurazione pubblica per gli anziani sopra i 65 anni), quando per decenni hanno tentato di denaturarlo?
Eppure, da un certo punto di vista, e nel più puro stile Sarah Palin, questa tattica «terrorista» si è dimostrata a lungo efficace. Molti senatori e deputati democratici ne erano rimasti addirittura terrorizzati. Ed è su questo terrore che contavano gli oppositori della legge: ad affossarla non bastava infatti l’opposizione repubblicana, serviva che una parte della maggioranza defezionasse, in nome del rigorismo fiscale o dell’antiabortismo.
Ma da che cosa erano terrorizzati i parlamentari democratici? Dalla possibilità di perdere il proprio seggio nelle prossime elezioni di mezzo termine che si terranno tra poco più di sette mesi (a inizio novembre), e che dovranno rinnovare la totalità della Camera dei rappresentanti e un terzo del Senato. Gli onorevoli temevano di essere infilzati come farfalle dall’accusa di statatismo bolscevico e d’infanticidio di massa (abortista). Questa minaccia incuteva particolare paura al folto manipolo (più di 30 deputati) conservatore che nel 2006 l’attuale capo dello staff della Casa bianca, Rahm Emanuel, aveva guidato alla vittoria pur di conquistare la maggioranza della Camera. Con un prezzo politico però, e cioè di portare in parlamento deputati potenzialmente sabotatori e di avere una maggioranza solo nominalmente democratica. Tanto che, quando li ha invitati alla Casa bianca in un ultimo sforzo per convincerli a votare la legge sanitaria, il presidente Barack Obama ha dovuto ricordare loro che erano stati eletti nei ranghi democratici e non in quelli repubblicani e ha dovuto chiedergli cosa significasse per loro questa scelta.
Così molti parlamentari democratici hanno votato la legge con l’aria di andare a immolarsi come vittime sacrificali sull’altare di partito, di accettare un suicidio politico in nome della disciplina. Questa per lo meno è la valutazione che ieri hanno dato molti analisti politici: per loro, la sconfitta alle elezioni di novembre sarà il prezzo che i democratici pagheranno per la vittoria di domenica sulla riforma sanitaria. Ma così non è, perché vanno valutati i costi politici marginali del voto, cioè rispetto al costo che avrebbe avuto la scelta alternativa, quella di affossare la riforma. E non c’è dubbio che la sconfitta sanitaria avrebbe segnato la fine di Obama e dell’obamismo. Ma non solo: avrebbe ridotto al lumicino i democratici sia alla Camera che al Senato perché avrebbe dimostrato l’efficacia di questa tattica terrorista, e cioè avrebbe sancito l’egemonia dell’estrema destra conservatrice sul partito repubblicano, la vittoria definitiva delle Sarah Palin delle Liz Cheney.
Per convincere i democratici a votare la legge, Obama non ha perciò fatto ricorso alla disciplina di partito, ma gli ha messo di fronte le due alternative: la sconfitta secca e sicura in caso di affossamento della riforma, e invece una partita in salita, ma tutta da giocare in caso di approvazione.
Con un argomento a proprio favore, e cioè che i repubblicani hanno overplayed la sanità, cioè hanno voluto «strafare», proprio demonizzandola sul terreno ideologico. Perché erano davvero convinti di poterla demolire, di farne la Waterloo politica di Obama. Se il voto di domenica avesse dato loro ragione, avrebbero fatto saltare il banco. Invece così si ritrovano a dover dimostrare che da oggi il bolscevismo ha preso il potere negli Stati uniti. Ma sarà dura convincere i clienti di Starbucks o di un grande mall che lo stalinismo regna sovrano.
Da qui a novembre, i democratici avranno tutto il tempo e l’agio di dimostrare ai cittadini americani che nessuna nonna sarà sterminata dai lager di eutanasia. Anzi, potranno mostrare alcuni vantaggi concreti, anche se per il momento modesti (perché in realtà la riforma sanitaria entrerà a regime solo nel 2014). E i repubblicani si troveranno stretti all’angolo del proprio settarismo. Si sa che toni apocalittici possono mobilitare manifestanti, ma difficilmente motivano un voto di massa.
Perciò, ancora una volta il voto di novembre si giocherà sulle astensioni: bisognerà vedere quanto i Tea Parties e l’isterismo allontaneranno dal voto i repubblicani moderati, e quanto invece l’approvazione della riforma sanitaria porterà alle urne i progressisti e i liberals che fino a domenica si erano disamorati assai dell’obamismo.