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«Omicidio volontario anche per l’amianto»
di Orsola Casagrande
Parla l’avvocato di parte civile Elena Poli
Il giorno dopo il rinvio a giudizio degli imputati al processo per il rogo della Thyssen Krupp, l’avvocata di parte civile Elena Poli fa qualche riflessione sulle conseguenze che questa decisione potrebbe avere anche su altre vicende. In particolare per quell’accusa di omicidio volontario a carico dell’amministratore delegato dell’azienda in Italia. La prima volta che viene mossa un’accusa di questo genere ai vertici di una compagnia per un incidente sul lavoro, cosa che ha fatto sobbalzare Confindustria ed esultare sindacati e sinistre (oltre che, ovviamente, i parenti delle vittime che non fanno altro che chiedere giustizia). «Questa della Thyssen Krupp - dice l’avvocata - è senza dubbio una vicenda particolare per la risonanza che ha avuto in virtù della sua drammaticità, sette operai morti bruciati, a Torino, in una acciaieria. Ma dall’altra parte - prosegue - si tratta di una vicenda relativamente particolare rispetto ad altre». Quello che fa la differenza per l’avvocata Poli è evidentemente, come è stato evidenziato anche lunedì sera in tribunale, la decisione del Gup che ha dato ragione all’impianto accusatorio del pm Guariniello e mandato a processo i vertici della compagnia.
«Importante - dice Poli - era l’imputazione e il rinvio a giudizio che la conferma. Quello che vuol dire - aggiunge - è che i dirigenti sono imputati di avere avuto delle informazioni sufficienti, degli elementi sufficienti per prevedere non solo che poteva verificarsi un incendio ma che un incendio avrebbe provocato morte». Le informazioni erano ben chiare ai dirigenti della multinazionale tedesca perché «derivavano da esperienze già verificate, da informazioni fornite dalla stessa casa madre». Ma nonostante le informazioni i dirigenti non hanno agito, non hanno preso alcuna misura per prevenire l’incidente. «È evidente - insiste Poli - che i vertici della Thyssen non solo non hanno adeguato i sistemi di sicurezza a una previsione come quella di un incidente, ma non l’hanno fatto pur avendo indicazioni precise che l’incidente si sarebbe potuto verificare e avrebbe potuto avere conseguenze mortali».
In altre parole non si tratta solo di incuria, ma di incuria «corredata dal fatto che si era in presenza di informazioni certe». I vertici della multinazionale tedesca non hanno agito accettando consapevolmente un rischio prevedibile. Da qui l’accusa di dolo eventuale. Per l’avvocata Poli le conseguenze di questa decisione potrebbero essere molto interessanti anche per l’esito di altri processi. «Penso in particolare - dice l’avvocata - a quelli per le morti legate all’amianto. È pacifico che l’esposizione all’amianto provoca gravi danni alla salute e anche la morte. Alla luce del rinvio a giudizio Thyssen - prosegue - mi dico che le cose possono cambiare in casi come quello dell’amianto o comunque in quei casi in cui è certamente attribuibile ai responsabili la previsione e accettazione del rischio». L’altro aspetto di novità è legato a come questa vicenda si è svolta anche dal punto di vista legale perché c’erano prove di rappresentazione positiva di un esito mortale.
Si parla di «dolo nell’omicidio». «È emersa chiaramente l’omissione dolosa di misure di sicurezza che è reato che non si contesta mai». Il processo ha messo in evidenza ancora più drammaticamente che dalla decisione della dismissione in poi i tedeschi avevano abbandonato tutte le misure di sicurezza, compresa la formazione dei lavoratori. Prima dell’incidente infatti non c’era più nessuno degli operai che guidavano le squadre addette alla sicurezza e alla emergenza. «Rocco Marzo - dice Poli - che è morto bruciato assieme ai suoi compagni aveva avuto la gestione della squadra d’emergenza per tutto lo stabilimento e non aveva fatto nemmeno il corso antincendio. Eravamo di fronte a una organizzazione del lavoro in disfacimento». In vista del trasferimento delle attività a Terni.