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I servizi dei TG di questi giorni sulle dichiarazioni del Generale Petreus, comandante in capo delle forze di occupazione in Iraq, che gelano le speranze di quanti avevano creduto in un prossimo inizio del ritiro delle truppe, sono state accompagnate da immagini di dimostranti pacifisti che agitavano cartelli o indossavano t-shirt con il numero dei soldati USA fatti morire da Bush.
Queste immagini mi hanno ricordato le frequenti polemiche contro un movimento pacifista USA che, almeno nei suoi spezzoni più visibili, non sembra andare oltre la contabilità dei propri morti, senza preoccuparsi delle vittime, assai più numerose, prodotte proprio dall’esercito americano.
Questa critica ai pacifisti americani è al tempo stesso giusta e superficiale, e se quanto vi è in essa di giusto legittima il biasimo verso di loro (che non si sono neanche accorti che dai tempi del Vietnam non c’è più la leva obbligatoria, e che chi oggi si arruola non spera tanto in meno guerre, ma solo in guerre più facili), la superficialità e la logora ripetitività di questa critica fornisce un’occasione per riflettere se i pacifisti europei siano molto più avanzati e, in generale, sui limiti e le ambiguità di movimenti che nascono e si sviluppano senza identità politiche troppo definite, in base a semplici ed eterogenei assunti emotivi. I 300.000 del V-Day di Beppe Grillo rendono questo argomento particolarmente attuale per l’Italia.
Ripetiamolo, è facile biasimare la selettività emozionale dei pacifisti americani sui cui occhi le lacrime scorrono copiose solo quando si tratta delle body bags che tornano a casa. Ma anche chi muove questa critica non riesce ad andare al di là della richiesta di una più equa ripartizione della commozione. Le questioni veramente cruciali non vengono mai sollevate.
Ad esempio, si discute assai poco delle dimensioni grottescamente ipertrofiche delle forze armate USA, supponendo che usando parole magiche come ’imperialismo’ o ’militarismo’ tutto si spiega e non c’è più bisogno di analisi. Bene, è ora di dire che il gigantismo militare USA non è affatto dovuto al carattere imperialista della politica estera di Washington, che pure non si discute e che pure richiede mezzi militari cospicui per essere attuata. Non sono gli obiettivi geopolitici USA, e le guerre che si scatenano per essi, a determinare l’enorme budget della difesa. Al contrario si può sostenere che la tendenza a ricorrere alla forza militare risponde spesso alla necessità di svuotare gli arsenali strategici per ordinare nuove forniture e testare nuove armi, come esigenza che precede la posta in gioco del conflitto stesso.
Il rapporto tra causa ed effetto tra aggressività politica e potenza militare, nel caso degli USA, non è scontato e non è lineare. A seconda dei momenti ciò che è causa si trasforma in effetto, e ciò che è effetto in causa.
Naturalmente può suscitare perplessità la teoria che un governo spenda somme enormi sottraendole alla spesa sociale ed investendole nell’industra della difesa a prescindere da qualunque precisa finalizzazione negli obiettivi di politica estera. Ma è proprio quello che accade negli USA e se non si comprendono le ragioni di ciò la critica alla timidezza del pacifismo americano (o almeno, ripetiamolo, ai suoi settori più legati all’establishment, attraverso il Partito Democratico) rimarrà sempre su un piano astrattamente moralistico.
Gli Stati Uniti d’America sono l’unica nazione al mondo che è uscita dalla seconda guerra mondiale in condizioni economiche più floride di quanto vi sia entrata. Non è un mistero e non è un paradosso. L’economia di guerra, con rigida programmazione centrale della produzione imposta dallo sforzo bellico, sperperava sì molte risorse in carri armati e bombardieri, ma intanto assorbiva una enorme mano d’opera disoccupata per i postumi non ancora superati della Grande Depressione, facendo circolare reddito e sostenendo il mercato interno dei consumi. Proprio ciò di cui le enormi potenzialità economiche dell’apparato industriale USA avevano bisgono per rimettersi in carreggiata, e proprio ciò che con risultati molto più incerti aveva cercato di fare l’amministrazione Roosevelt con il New Deal, attraverso l’uso della spesa pubblica a sostegno della domanda aggregata.
Ma l’economia di guerra americana non poteva essere protratta oltre lo sforzo bellico, ed i trattati di pace con l’Asse posero il problema di come riorganizzare l’assetto produttivo post-bellico della nazione. Se da una parte il grande capitale non avrebbe più accettato le direttive e le restrizioni dell’economia di guerra, d’altro canto vi era la diffusa sensazione che il delicato equilibrio tra consumo interno e produzione non poteva più fare a meno dell’intervento regolatore dello stato.
Il Piano Marshall, al di là dei suoi scopi di fidelizzazione politica verso i paesi dell’Europa occidentale, rispondeva anche a questa necessità di trovare uno sbocco per le merci USA, e generare la domanda di esse attraverso il denaro del contribuente americano (e infatti chi accettava il Piano Marshall accettava anche una serie di vincoli di dipendenza dall’economia USA per le esportazioni. L’Italia, ad esempio, smantellò la produzione di energia a base di carbone per aprire la via all’importazione di petrolio per il tranite delle compagnie americane). Ma il Piano Marshall rappresentò una risposta al di sotto delle aspettative, e la crisi di sovrapproduzione era uno spettro sempre presente nell’economia USA.
L’altra risposta sarebbe stata riprendere con più coerenza ed impegno i progetti del New Deal rooseveltiano, e sostenere la domanda aggregata attraverso la spesa pubblica, da investire in programmi sociali. Ma qui c’era un grosso problema. Avere uno stato sociale di ragguardevoli dimensioni significa anche avere un animato dibattito politico interno sulla destinazione di quelle risorse, e questo è quanto l’oligarchia finanziaria USA non voleva, decisa com’era a tenere una rigida stretta su Congresso e Casa Bianca. La Guerra Fredda rappresentò l’uovo di Colombo per il problema di mantenere un consistente intervento pubblico in economia — a fini di ampliamento e stabilizzazione dei consumi —, e al tempo stesso una politica interna elitaria e su un ristretto ventaglio di opzioni. La soluzione era un’enorme industria militare per rifornire un enorme esercito, sapendo che l’enfasi emotiva che si può porre sul concetto di "sicurezza nazionale" permette di dare un taglio alla discussione democratica.
L’ultimo ad esprimere scrupoli di etica democratica a questa militarizzazione della società e delle istituzioni americane fu il Presidente Dwight Eisenhower, che nel suo discorso di congedo alla fine del suo secondo mandato, nel 1961, denunciò i rischi dell’"apparato militare-industriale" americano. Ma ciò che per Eisenhower era un rischio, oggi è l’accurata descrizione dell’equilibrio di potere negli Stati Uniti d’America.
Le timidezze del pacifismo americano sono il riflesso dell’assurdo patriottismo che si condensa nel motto "support our troops", ma a sua volta l’assurdità di questo patriottismo sopravvive alla critica razionale per gli interessi costituiti sottesi ad esso, e che non si identificano solo con in rendimenti azionari del capitalista, ma anche con i livelli di occupazione generati dall’industria militare e le sue ricadute tecnico-scientifiche che continuano ad assicurare oggi agli Stati Uniti la leadership mondiale nel campo delle alte tecnologie.
Se il pacifismo europeo ha buon gioco nel mettere in evidenza le ambiguità morali del pacifismo americano, non va comunque molto più avanti di esso nel suo puro valore di testimonianza, incapace di collegare il tema della pace al tema della democrazia economica e, in generale, ai rapporti di forza inerenti al sistema economico occidentale. E non è un problema solo americano. Una figura come Lidia Menapace, così solenne nelle petizioni di principio e così disponibile al compromesso politico con chi è legato all’avventurismo militare americano, non si spiega solo o tanto sul piano dell’opportunismo personale, ma in nome di un’ideologia pacifista la cui solennità di enunciazioni serve solo a privarla di tutte le relazioni concrete che generano il fatto della guerra. Le elucubrazioni non violente di Bertinotti, così calibrate sulle necessità dell’estetica mass-mediologica, sono un loro parente stretto. Tutti e due, la Menapace e Bertinotti, pur nella diversità degli slogan, hanno molto in comune col pacifismo americano da "support our troops".
E’ il concetto di "movimento contro la guerra" ad essere intrinsecamente ambiguo, nella sua pretesa di opporsi ad una cosa ma non alle sue cause, o limitando la percezione delle cause ad un’angusta antropologia dell’aggressività umana da superare, controllare, sublimare, eccetera. Ed è il concetto di "movimento" tout-court a diventare inaffidabile, se pretende di legittimarsi solo in nome dei suoi obiettivi, formulati senza nessuna lettura di sistema. Le ironie sul "socialismo scientifico" non mi sembrano più tanto argute come un tempo, se l’alternativa è l’improvvisazione e il dilettantismo.
Messaggi
1. Pacifismo e movimenti, 14 settembre 2007, 19:54
mah,le solite argomentazioni di chi,di fronte alla violenza perpetrata a migliaia di chilometri,nel suo bel posticino sicuro,crede che alle violenze perpetrate arbitrariamente da un dittatore,e dai suoi accoliti,si possa solo rispondere,con le manifestazioni...fesso di un Bush,invece di andare con i militari in Iraq,per far cadere un governo sanguinario e ingiusto,che ha ucciso innumerevoli civili inermi,dovevi manifestare per la democrazia in America,oggi saresti un santo...alla faccia del pacifismo,senza senso
2. Pacifismo e movimenti, 15 settembre 2007, 14:44
Innazitutto non mi sembra che l’articolo iniziale rappresentasse un elogio acritico del "pacifismo" tradisionale, non solo Usa, anzi tutt’altro.
Comunque, se oggi anche personaggi assolutamente non sospetti di "pacifismo" e meno che mai di "antiamericanismo" come Henry Kissinger o Edward Luttwakk si pongono il problema di una guerra tutt’altro che inevitabile e comunque gestita in modo disastroso un motivo ci sarà pure ....
Quanto ai morti provocati dall’indubbiamente sanguinario ed impresentabile Saddam Hussein ,a meno che non si parli di quelli iraniani provocati negli anni ottanta in stretta alleanza con gli Usa e con armi chimiche amorevolmente fornite dagli stessi Usa, mi risultano essere nemmeno un decimo di quelli provocati dal 2003 ad oggi dall’occupazione militare Usa.
K.