Home > Palestina: L’ennesimo acquazzone che fa traboccare il vaso
Palestina: L’ennesimo acquazzone che fa traboccare il vaso
Publie le sabato 15 luglio 2006 par Open-Publishingdi Andrea Franzoni
E’ terribilmente sconveniente, oggidì, provare “simpatia” per il popolo palestinese comprese magari addirittura le bestie di Hamas e i loro sostenitori e, pur addolorandosi per le vittime che anche l’altro contendente ha perso purtroppo sul campo, provare un pizzico di disgusto e rabbia verso l’atteggiamento e l’arroganza di Israele e un po’ di vergogna, di conseguenza, per tutto l’occidente dei parolieri che spudoratamente lo difende e lo sostiene.
Eppure, forse per debolezza d’animo, dopo l’ennesima escalation di violenza che costituisce solo l’ultima delle vessazione che il popolo palestinese subisce costantemente non posso proprio accettare il silenzio complice dell’occidente a quello che è l’ennesimo atto di guerra, o meglio di terrorismo di stato, compiuto dall’unico stato che si permette di agire con tanta spudoratezza al di sopra della legge e delle convenzioni internazionali.
Lo so, non si fa: chi critica Israele oggi è chiamato “antisemita” (benché stando alla filologia i palestinesi siano una popolazione semitica tanto quanto quella ebraica), filoislamico e un sacco di altre tenerezze. Eppure, lasciando naturalmente stare l’ebreo o l’israeliano in quanto tale, verso il quale l’atteggiamento è sempre e naturalmente amichevole e comprensivo, non posso non alzare il ditino e dire che io, come credo molti altri, ce ne ho proprio piene le scatole di questo Israele, delle sue bugie, di chi lo sostiene, di chi lo lecca e lo impomata.
Spero mi si concederà un po’ di pazienza e di perdono se rompo il coro dei “se”, dei “ma” e delle giustificazioni. Certo se ne possono trovar tante, se ci si sforza e se proprio le si vuole trovare: tuttavia la cosa non mi appaga.
Si può continuare a parlare di “barriera”, invece che di muro di segregazione, anche se gli inviati dell’ONU lo definiscono come tale spiegandoci che esso divide le famiglie, gli uomini e le donne dal posto di lavoro dalle scuole e dagli ospedali, e annette ampie porzioni di territorio allargando i confini, rendendo ancora più impossibile commercio e circolazione di materie e di persone e di fatto inglobando Gerusalemme Est, territorio a maggioranza palestinese, in Israele. Si può fare finta che l’ONU non l’abbia dichiarato più volte illegale, e continuare a parlare semplicemente di “diritto alla difesa”.
Si può servire all’occidente l’idea di “campi profughi” piuttosto che quella di ghetti di Varsavia senza speranza e senza possibilità di movimento o di iniziativa, una specie di vasca per pesci nel quale segregare migliaia di persone allontanate dalla loro millenaria terra senza lavoro, senza istruzione e senza futuro. E se i checkpoint sono il luogo in cui di norma, nelle infinite code, nascono e muoiono sotto il sole e tra la polvere centinaia di palestinesi, si può fare credere che questo sia un prezzo necessario a un qualcosa di più nobile e di più alto.
Si può parlare di insediamenti piuttosto che di colonie costruite per annettere un territorio occupato con la violenza, giardini fertili e irrigati chiusi tra mura guardate a vista da armi super tecnologiche in cui il denaro e la forza hanno portato ogni comodità e ogni presunzione mentre la maggioranza che vive fuori non ha più nulla, nemmeno i propri vecchi pozzi da asciugare.
Ci si può anche raccontare che Israele è un esempio di democrazia nell’aria mediorientale che quindi va difeso e preservato dagli infedeli, nipoti dei vecchi saraceni, facendo credere che Israele debba fungere da esempio per il progresso e l’occidentalizzazione degli stati vicini quando non è nemmeno in grado per primo di rispettare l’altrui democrazia e si permette di strangolare, minacciare e addirittura rapire i ministri e i deputati eletti di Hamas tra il complice silenzio-assenso generale.
Si può spiegare che sì, Hamas ha vinto elezioni libere e regolari e che sì, la vecchia classe dirigente si è dimostrata inefficace, disonesta, inconcludente e corrotta, ma che il popolo palestinese non era in grado di scegliere e sarebbe meglio se continuassimo a scegliere noi al posto suo sostenendo quella stessa vecchia classe dirigente corrotta. Si può sospendere ogni finanziamento al governo democratico di uno degli stati più indigenti del mondo, l’unico per il quale non si fingono nemmeno programmi di sviluppo, e dire (come un ministro di Israele) che «si vuole dimagrire il popolo palestinese» nella speranza di convincerlo a votare ciò che noi vogliamo. E si può finanziare Abu Mazen aggirando il governo legittimo per fargli creare e armare una rete clientelare e per convincere il popolo palestinese, come sopra, a voltare le spalle ad Hamas. Sbattere la porta in faccia a un governo eletto, la cui ala armata viene da una tregua unilaterale di 16 mesi, che chiede ciò che gli spetta (cioè il ritiro dalle terre occupate nel 1967), convincendolo ad abortire la sua crescita pacifica e politica, con un abile uso della retorica può sembrare l’atteggiamento più normale e democratico del mondo.
Si può tollerare l’arsenale atomico di Israele, benché di entità e potenziale imprecisato e benché Israele non abbia mai concesso un solo controllo o non abbia mai ratificato una sola convenzione di quelle che perfino l’Iran ha fino ad oggi sempre rispettato.
Si può continuare a parlare di omicidi mirati di leader terroristi, dove con terrorista si designa forse per comodità giornalistica l’intera popolazione palestinese adulta. E si può parlare di sfortunate vittime collaterali, o magari di “errori”, quando (come sempre) oltre all’obiettivo si ammazza chi stava con lui, la sua famiglia, chi viveva vicino alla sua casa o si trovava a passare per la stessa strada. Se poi si sbaglia il primo colpo, e il primo missile lanciato dall’elicottero non raggiunge il suo scopo, si può sempre ritentare uccidendo magari una mezza dozzina di bambini o il personale dell’ambulanza che si era avvicinato al luogo della strage senza temere biasimo. E benché gli attacchi alle ambulanze, o l’omicidio di passanti tra cui donne e bambini sia la regola, farci credere che sia sempre uno spiacevole evento eccezionale. Basta poco per accogliere nei salotti buoni Ariel Sharon, il macellaio di Sabra e Chatila (si stimano 3.500 persone massacrate nel 1982), sostenendo la sua candidatura al Nobel per la Pace e una sua nuova presunta verginità, o addirittura un ruolo da onesto e disinteressato riappacificatore.
Si può leggere il rapporto di Amnesty International, oppure quello della croce rossa internazionale, e avere l’autorevole conferma che «Israele ha ritirato truppe e coloni dalla Striscia di Gaza e ha smantellato quattro piccoli insediamenti nel nord della Cisgiordania. Ciononostante ha continuato a costruire ed espandere gli insediamenti illegali e le infrastrutture a essi collegate, inclusa la recinzione/muro di 600 km, sulle terre palestinesi nella Cisgiordania occupata. I blocchi militari e le restrizioni imposte da Israele ai movimenti dei palestinesi all’interno dei Territori Occupati hanno continuato a causare alti tassi di disoccupazione e di povertà tra la popolazione palestinese. Le forze israeliane hanno compiuto attacchi illegali e sono ricorse abitualmente a un uso eccessivo della forza contro dimostranti pacifici che protestavano contro la distruzione di terre agricole palestinesi e contro la costruzione della recinzione/muro da parte dell’esercito israeliano. Coloni israeliani hanno spesso attaccato agricoltori palestinesi, distrutto frutteti e impedito a contadini di coltivare le loro terre. Soldati israeliani e coloni responsabili di uccisioni illegali e altri abusi verso i palestinesi e le loro proprietà hanno in genere goduto dell’impunità. Migliaia di palestinesi sono stati arrestati dalla forze armate israeliane nei Territori Occupati con l’accusa di reati contro la sicurezza» senza che questo sposti di una virgola il nostro atteggiamento.
Si può dipingere con un tocco di normalità anche le cifre, e magari ribaltarne il senso. Si può rimanere impassibili di fronte ai quasi 800 bambini palestinesi uccisi (spesso con dinamiche da cecchino) dal 2000, 5 volte quelli israeliani che continuano a pesare di più, mentre le vittime totali sono 4.000 palestinesi e 1000 israeliane (negli ultimi anni i morti sono inoltre quasi tutti palestinesi). Si può girare la testa di fronte ai racconti dei medici che lavorano in Palestina o degli psicologi di istituti internazionali, che non possono non registrare il terrore e l’orrore che attanaglia i bambini, nati e vissuti in gabbia, che conoscono sempre almeno un parente o un vicino di casa ucciso dal vicino israeliano.
Si può rimanere immobili di fronte alla “strage della spiaggia di Gaza” quando un missile israeliano ha sterminato una famiglia che stava facendo un pic nic in riva a quel mare che da un anno non gli appartiene ma gli è concesso di guardare, senza provare nemmeno un po’ di pietà, di dolore o -se preferite- di carità cristiana. E si può continuare a scendere in piazza o ad appendere sul proprio blog la bandiera di Israele, senza un minimo sussulto critico (di quelli che toccano, per intenderci, coloro che sostengono la causa del popolo palestinese), e andare poi ad accarezzare con la stessa mano i proprio figli.
E se alcuni miliziani palestinesi rapiscono un soldato israeliano chiedendo in cambio la liberazione di 400 prigionieri, donne e minori rinchiusi nelle carceri israeliani, si può far passare come la cosa più naturale del mondo la chiusura delle trattative, le minacce, l’assedio di Gaza, l’invasione di territorio sovrano con truppe corazzate difese da mezzi aerei militari, la distruzione con bombardamenti di tre ponti, della sede di un ministero, dell’università e dell’unica centrale elettrica che tra l’altro pompa la poca acqua verso Gaza (cose costruite anche con i soldi della Comunità Europea), il rapimento di 64 figure politiche fra cui 8 ministri e 20 deputati regolarmente eletti nelle file di Hamas: tutti eventi che «devono convincere i palestinesi a liberare il soldato». E si può presentare tutto questo non solo come legale e necessario, ma anche come moralmente lecito e degno dell’espressione più avanzata di civiltà e di sviluppo nell’area.
Per dire poi, come Berlusconi e Prodi stranamente concordi, durante la cerimonia dei 58 anni dello stato ebraico il 3 maggio a Roma, che «l’Italia tutta, non quella divisa in due, non quella del centrodestra e del centrosinistra, sarà sempre al fianco di Israele come baluardo della difesa della sua democrazia e della sua libertà» o che in fondo «tutti noi siamo israeliani»...
Mi fermo qui perché, a questo punto, mi vengono alla mente praticamente solo parolacce. E non vorrei, scrivendo qualche trivialità, far sussultare e arrossire qualche “anima bella”, gentile e fortunata, di quelle che sanno incartare e normalizzare nelle loro logiche metafisiche ogni orrore, compresi quelli sopra elencati, ma che proprio non riescono a capire come una persona, superata la retorica e le bugie, possa addirittura perdere le staffe semplicemente di fronte allo sterminio quotidiano di un pugno di arabi incivili e impenitenti.