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Perchè bisogna ritirarsi immediatamente da Kabul
Publie le martedì 23 maggio 2006 par Open-Publishing1 commento
di Fosco Giannini
La morte di due militari italiani inquadrati nella missione Nato in Afghanistan, unita all’attacco alla base italiana di Herat, ha riaperto la discussione sulla natura della nostra presenza militare nel paese dell’Asia Centrale, dopo che Ds e Margherita hanno assicurato in questi anni insieme al centro-destra il sostegno alla missione Isaf (Forza di assistenza per la Sicurezza internazionale), nata come missione Onu per poi passare dall’11 agosto 2003 in ambito Nato. Una missione, insomma, totalmente subordinata ai piani di egemonia Usa sull’intero continente asiatico. L’episodio che ha coinvolto i nostri militari è pressoché contestuale ad una fase delicata per l’intero progetto di “stabilizzazione” dell’Afghanistan, segnata dal passaggio della missione Isaf dal comando italiano a quello britannico (Corpo di reazione rapida alleato) e da una contemporanea estensione e potenziamento della stessa. «L’Isaf e l’operazione militare a guida statunitense Enduring Freedom - precisa una nota dell’Alleanza Atlantica - continueranno a rimanere separate. La prima continuerà ad operare sul piano della stabilizzazione e sicurezza del paese, mentre la seconda continuerà a perseguire la sua missione di contrasto del terrorismo».
In sintesi, a quasi tre anni dalla guerra e dal rovesciamento del regime dei Talebani, il governo di Karzai, nonostante il sostegno di Stati Uniti, Nato ed Unione Europea, è in grado di controllare la sola zona intorno a Kabul, oltre al nord del paese, già alleato delle potenze occidentali durante i bombardamenti aerei partiti nell’ottobre 2001. Controllo limitato, con la guerriglia degli “studenti di teologia” in grado di colpire obiettivi sempre più significativi, tanto da costringere i ministri degli esteri dei paesi Nato ad approvare, nel dicembre 2005, un nuovo Piano operativo (Fase 3 di Espansione), volto ad estendere e potenziare l’Isaf in vista delle cruciali elezioni di settembre 2006. Se gli obiettivi della missione non hanno subito stravolgimenti (assistere il governo afgano ad estendere la propria autorità in tutto il paese; conduzione di operazioni di stabilizzazione insieme alle forze afgane; sostegno tecnico e logistico al nascente esercito di Kabul; disarmo dei gruppi illegali), è l’area delle operazioni ad estendersi in direzione sud ed est, nel cuore dei territori abitati dai Pashtun (etnia maggioritaria in Afghanistan), con ripercussioni potenzialmente pesanti sull’intero quadro. Tra gli obiettivi finali del nuovo Piano operativo vi sono la creazione di “Squadre di ricostruzione provinciale” (strutture locali di stabilizzazione di riferimento per l’Isaf) in quattro province ribelli del sud e dell’est, la predisposizione di ben quattro Comandi regionali (Kabul, Mazar-i-Sharif, Herat e Kandahar) e l’apertura di una base militare e logistica a Kandahar. Obiettivi, questi, che dovrebbero essere garantiti attraverso l’impiego di 6mila uomini in più, per un totale complessivo di 15mila unità dispiegate sul territorio.
L’estensione delle operazioni segna, in realtà, un punto di svolta dell’intera missione, un nuovo capitolo di una guerra mai finita per il controllo di un territorio fondamentale perché situato nel cuore dell’Asia, nelle aree tribali al confine con il Pakistan, rendendo in questo modo ancora più difficile e delicata la posizione del presidente pakistano Musharraf, prezioso alleato di Bush.
La necessità di potenziare la presenza militare della Nato a difesa del governo Karzai e dell’imposta “transizione alla democrazia”, elementi utili per coprire di fronte all’opinione pubblica mondiale la realtà di una brutale occupazione militare, costituisce di per sé un elemento di debolezza, a dimostrazione del fatto che la stabilità dichiarata è solo apparente, perché si regge su elementi del tutto congiunturali e su equilibri assolutamente precari (un esempio su tutti, le laute prebende pagate ai noti “signori della guerra”). A partire da un governo che non solo non ha alcuna autonomia rispetto alle forze di occupazione, ma che non è in grado di elaborare alcuna scelta sui grandi temi economici, politici e sociali, esattamente come accade in Iraq. Al di là della propaganda e di alcuni interventi di facciata, l’economia afgana continua ad essere totalmente dipendente dalla produzione massiccia di oppio ed altri stupefacenti (basti, da questo punto di vista, quanto ha scritto da ultimo Lorenzo Bianchi su “Il Giorno” di lunedì 8 maggio 2006), così come la condizione femminile rimane drammaticamente arretrata, prova ulteriore che i sistemi democratici non si impongono con la violenza e la sopraffazione. Quando i nostri giovani trovano la morte causa l’uso di stupefacenti, oltre ad interrogarsi sulle cause interiori e “sociali” sarebbe bene cominciare a riflettere anche sulla provenienza di queste sostanze e sul relativo mercato (dall’Afghanistan alla Colombia di Uribe).
Difficile non vedere, poi, che i grandi nodi riguardanti il futuro di questo tormentato paese, che si configura da secoli come un groviglio inestricabile di avvenimenti, popoli, etnie e religioni, intrecciati con secoli di protettorato coloniale, rimangono drammaticamente aperti. Senza dimenticare, o peggio rimuovere, alcuni passaggi cruciali della sua storia recente:
1) A seguito dell’intervento sovietico del dicembre 1979, che ha diviso i vertici del partito e dello stato a Mosca, le potenze occidentali hanno sostenuto, insieme a Pakistan ed Arabia Saudita, la guerriglia islamica. Per tutti gli anni ’80, l’Afghanistan, formalmente appartenente al blocco dei Paesi non-allineati, è stata la fucina dell’Islam radicale sunnita (anche in contrasto con l’Iran khomeinista sciita), utilizzato dalle potenze imperialiste come elemento di destabilizzazione in diversi teatri strategici di intervento (dalla Cecenia, allo Xinjiang cinese, al Kashmir, alla ex-Jugoslavia);
2) una volta ritiratisi i sovietici e cacciato il governo Najibullah (1992), si è aperto uno scontro frontale tra il presidente Rabbani da una parte e il primo ministro integralista Hekmatyar, sostenuto apertamente dal Pakistan;
3) dopo diversi tentativi di conciliazione, Stati Uniti, Pakistan ed Arabia Saudita hanno sostenuto i Talebani, una sorta di “milizia della droga di orientamento islamico-radicale”, che, una volta entrata a Kabul nel 1996, ha iniziato la propria azione di governo impiccando Najibullah ed adottando una legislazione oscurantista sul piano sociale. Il sostegno di Washington alle milizie islamiche radicali derivava dalla necessità di stabilizzare il paese nel tentativo di tagliare fuori Cina ed Iran dalla zona nevralgica per la produzione ed il passaggio delle risorse energetiche, lanciando così un energico “avvertimento” anche a Russia ed India. In questo contesto si colloca il colpo di stato incruento del generale Musharraf in Pakistan nell’ottobre 1999;
4) questo scenario ha subito una modifica radicale dopo l’11 settembre 2001, con gli Usa decisi a rovesciare gli ormai ex alleati Talebani e Bin Laden, senza però rinunciare ad una presenza diretta in un paese chiave per gli equilibri in Asia. Grazie alla guerra gli Usa sono riusciti a penetrare in diverse Repubbliche ex sovietiche dell’Asia Centrale, repubbliche che oggi chiedono a Washington di andarsene, grazie anche al consolidamento del Gruppo di Shanghai, alleanza regionale che comprende diversi di questi piccoli e complessi stati, oltre alla Russia di Putin ed alla Cina. La presenza diretta di Usa e Nato in Afghanistan assume, in questo contesto, un peso determinante, come elemento di pressione tanto verso Cina ed Iran, quanto verso l’intero subcontinente indiano (dal Kashmir ai delicati equilibri di governo in India, potenza nucleare emergente).
In Afghanistan si prepara un nuovo capitolo di una guerra mai terminata, così come i piani di egemonia statunitense in Asia stanno determinando una nuova, drammatica militarizzazione dell’intero continente, da Taiwan al Giappone. A Kabul, nonostante le recenti fanfaronate elettoralistiche ad uso e consumo delle opinioni pubbliche occidentali di Karzai e del Segretario generale Nato de Hoop Scheffer, la situazione si complica giorno dopo giorno, tanto che uno dei più noti e potenti “signori della guerra”, l’ex primo ministro Hekmatyar, non nasconde il proprio sostegno ai Talebani. Così come aumentano esponenzialmente per il nostro paese i costi della missione Isaf: secondo i dati diffusi dal ministero della Difesa si passa dagli iniziali 51.741.552 euro del 2002 agli oltre 68 milioni di euro del 2003, 110 milioni del 2004, 214 del 2005 e 149.906.020 stanziati per il solo primo semestre 2006.
Il nostro partito si è sempre schierato con coerenza contro la guerra in Afghanistan, opponendosi ai diversi rifinanziamenti della missione Nato e chiedendo il ritiro del nostro contingente militare. Dobbiamo continuare a sostenere questa richiesta con la stessa forza ed intensità con le quali rivendichiamo il ritorno a casa dei nostri soldati dall’Iraq, tentando di modificare gli orientamenti più moderati che oggi prevalgono all’interno dell’Unione.
Messaggi
1. > Perchè bisogna ritirarsi immediatamente da Kabul, 26 maggio 2006, 18:16
Grazie, ma fate presto prima che altre persone paghino con la vita queste assurde ed inutili missioni.
Fate presto, scendete in piazza, fatevi sentire, basta con le ipocrisie! basta con l’asservimento alle solite potenze!
Fate sentire la vostra voce ogni giorno, ogni ora!