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Possono i colpevoli del tracollo economico risolvere i problemi
Publie le giovedì 20 novembre 2008 par Open-PublishingPossono i colpevoli del tracollo economico risolvere i problemi dell’economia? No, eppure...
di Bruno Steri, responsabile Europa Prc/Se
Nonostante il tardivo ma pur sempre positivo innalzamento del numero dei partecipanti, neanche il più inguaribile degli ottimisti avrebbe potuto pensare che il vertice di Washington partorisse una chiara e univoca linea di condotta, al cospetto della più pesante crisi dell’economia capitalistica mai prodottasi dal ’29 dello scorso secolo ad oggi. Le formule altisonanti con cui era stato presentato l’incontro dei G20 – Bretton Woods 2, Piano Marshall 2 e così via esagerando – si sono presto dissolte davanti all’equivoco di fondo che lo ha caratterizzato: come possono credibilmente sedere al capezzale di un malato grave quegli stessi medici che per decenni lo hanno intossicato fino a ridurlo allo stremo? Il riferimento è innanzitutto all’intero establishment statunitense. Non si tratta solo di un presidente ormai al tramonto, impossibilitato a decidere alcunché e pervicacemente preoccupato di difendere i fondamenti del paradigma neoliberista, nonostante il loro fragoroso fallimento. Ad esser chiamata in causa è un’intera scuola di pensiero che oggi, pur dovendo prender atto di effetti oggettivi e nefasti, non sa e non vuole aggredire le cause; e un’intera classe politica, repubblicana e democratica. Non solo dunque l’intransigente monetarista Alan Greenspan, ma anche il mediatore Robert Rubin; non solo G. W. Bush, ma anche Bill Clinton, che a suo tempo avallò le prime decisioni “deregolatrici” in tema di limitazione dei controlli dell’autorità monetaria e liberalizzazione della compra-vendita di prodotti derivati (rispettivamente, Gramm Leach Bliley Act e Commodity Futures Modernisation Act).
La profondità della crisi richiederebbe ragionevolmente, al livello della finanza, il varo di provvedimenti eccezionali, in grado di colpire almeno i dispositivi responsabili delle degenerazioni più macroscopiche. Invece ci si limita a proporre vaghe misure di sorveglianza del sistema finanziario globale, con attivazione di sistemi di preallarme: una più attenta regolamentazione ed un maggiore coordinamento sopranazionale. Non va oltre questa impostazione soft la stessa lettera di intenti trasmessa al G20 dall’italiano Mario Draghi, presidente del Financial Stability Forum, e dal francese Dominique Strauss Kahn, direttore del Fondo Monetario Internazionale (precisamente i due organismi incaricati dei nuovi compiti di supervisione globale). Ed anche Obama ben difficilmente potrà usare il bisturi e dovrà con ogni probabilità attenersi a queste stesse modalità “correttive”.
L’Europa, dal canto suo, si è presentata all’incontro con un’unità di facciata ed il sembiante di Sarkozy, insolitamente duro nei confronti dell’alleato Usa. Oltre all’attivazione di consistenti risorse per la ricapitalizzazione delle banche, tra gli intenti più concreti si intravede la possibilità di intervenire sul potere di condizionamento delle agenzie americane di rating (le stesse che hanno premiato col massimo dei voti i titoli-spazzatura) e di porre dei limiti ai superstipendi dei managers d’impresa. Atti dovuti alla decenza, che non possono tuttavia compensare il silenzio sui capitoli più spinosi. Ci si guarda bene ad esempio dal dire qualcosa sull’auspicabile chiusura dei paradisi fiscali: dei 10 mila hedge funds esistenti (i fondi specializzati nel commercio dei derivati) più dell’80% sono registrati nelle Isole Cayman e (come denuncia Sbilanciamoci, squarciando l’inerzia colpevole della sinistra istituzionale) dei 72 paradisi fiscali censiti ben 25 operano in territorio europeo. Nulla si dice della più che necessaria messa al bando dei prodotti derivati strutturati, a cominciare dai micidiali Credit Default Swap (CDS), polizze che trasferiscono – ma non azzerano, anzi accrescono – il rischio di credito e che hanno messo in ginocchio, tra gli altri, il colosso assicurativo Usa AIG. Silenzio tombale sull’auspicabile eliminazione degli ambiti non regolamentati e al di fuori della Borsa (il mercato over the counter) che ospitano l’enorme massa di operazioni sui derivati (600 mila miliardi di dollari, pari a 12 volte il Pil mondiale). Inutile poi cercare qualche cenno sull’opportunità di invertire il ciclo liberista, tornando ad una limitazione o ad un controllo della circolazione dei capitali, anche solo nella forma più blanda di un’imposta minima sulle transazioni valutarie (la cosiddetta Tobin Tax), che ponga un freno al libero flusso di capitali speculativi. Come si vede, non stiamo parlando di socialismo ma di misure che abbiano un effettivo potenziale anti-crisi.
Il punto è che, in assenza dei suddetti provvedimenti, gli stessi poderosi interventi salva-banche, tesi a iniettare liquidità nel sistema creditizio, rischiano di sortire l’effetto contrario. Utilizzare la leva monetaria abbassando i tassi e dando risorse al sistema bancario, in assenza di radicali contropartite, non fa che ricostituire le premesse del tracollo. Il dubbio fa capolino perfino sul quotidiano confindustriale: “Come possono le stesse politiche che sono state la causa del collasso del sistema monetario rappresentarne anche la soluzione?” (Il Sole 24 Ore-Plus24, p.33). In effetti, sono ormai 20 anni che il capitale ha infilato la via della speculazione finanziaria, alla ricerca di un surplus che l’economia reale non garantiva più. In questi 20 anni, la stessa spasmodica ricerca del massimo profitto ha dato luogo al più gigantesco travaso di reddito dai salari ai profitti nella storia del dopoguerra: sappiamo che qui, nelle contraddizioni dell’economia reale, va individuata la vera origine della crisi. Ma, ragionando sul ciclo corto, sappiamo anche che le premesse dell’attuale implosione finanziaria sono state poste quando Alan Greenspan, presidente della Fed, a seguito del crollo dei titoli della “New Economy” (le cosiddette azioni “dot-com”) nonché del catastrofico 11 settembre 2001, optò per una politica monetaria espansiva e decise di abbassare il tasso di sconto, mantenendolo per i successivi due anni a livelli minimi (1%): proprio una tale disponibilità di “denaro facile” ha avviato negli Usa la corsa all’indebitamento di imprese e famiglie, con gli esiti che oggi sono sotto i nostri occhi. Più indietro nel tempo, non mancano ulteriori clamorose conferme di tale meccanismo perverso. Come a più riprese ha sottolineato - tra gli altri - Joseph Halevi, l’opzione espansiva adottata da Banche centrali e governi non ha risparmiato al Giappone, dal 1989 in poi, una cronica depressione e prima ancora agli Stati Uniti, precisamente all’indomani del 1929, una fortissima depressione – nonostante il New Deal – durata 15 anni e risoltasi solo attraverso la “distruzione creatrice” della Seconda Guerra Mondiale.
Tali considerazioni – oltre ovviamente a quelle di carattere etico-politico – dovrebbero indurre a valutare bene come spendere le risorse. Offrendole innanzitutto a chi è destinato a subire i colpi della recessione. In questa prospettiva, andrebbe sollecitata l’adozione di criteri rigorosamente selettivi: non solo per quel che concerne gli aiuti al sistema finanziario, ma anche al riguardo del credito alle imprese. Occorre condurre una battaglia politica per la creazione di un Polo Finanziario Pubblico concordato a livello europeo, reso operativo Paese per Paese, con filiali regionali che operino a ridosso delle economie locali. Come è stato recentemente suggerito da Paul Boccara, economista del Pc francese, bisognerebbe far sì che si imponesse una nuova e diversa concezione del credito, tesa a valorizzare “investimenti utili” in direzione dei “bisogni sociali” (cfr. L’Humanité, 13 ottobre 2008): un credito selettivo e a lungo termine con tassi d’interesse molto bassi, volto a sostenere investimenti reali come quelli per Ricerca e Sviluppo; ma soprattutto tanto più bassi quanto più diretti a imprese che promuovano lavoro duraturo, di qualità e ben remunerato, oltre che attento all’impatto ambientale. Con indicatori e organismi di verifica aperti ai lavoratori e alle loro organizzazioni.
Occorrerebbe destinare risorse sottratte alla tagliola del Patto di stabilità e crescita, per un diverso modello di sviluppo, che non tagli fondi alla scuola ma ne potenzi il compito formativo, che migliori la rete ospedaliera come quella ferroviaria. E per un sostegno diretto a salari e pensioni: attraverso adeguate politiche fiscali e sui redditi, che diano ossigeno ai redditi bassi e prelevino risorse da quelli più alti. Non sembra sia questa la strada intrapresa. Per ciò è necessario che Rifondazione e con essa la Sinistra Europea abbiano la forza per farsi sentire.
Roma, 19 Novembre 2008