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Prc, il dovere del mea culpa
Marzia Bonacci, 15 aprile 2008, 20:04
Prc, il dovere del mea culpa Politica Oggi la segreteria del partito dopo la débacle. Le minoranze, le voci critiche e i rappresentanti periferici chiedono un congresso, che si terrà probabilmente a luglio, oltre che la tabula rasa della dirigenza e la messa in discussione del processo unitario (da cui si chiama fuori il Pdci). La polemica inizia anche a livello locale con le prime dimissioni
3,2% al Senato e 3,1% alla Camera, tradotto: zero senatori e zero deputati per la Sinistra-L’Arcobaleno. Due milioni di voti spartiti nel nulla. Una sconfitta politica omogenea, geograficamente, che travolge tutto, persino le antiche roccaforti storicamente legate alla sinistra e in particolare al Prc. Un pezzo di paese privato di rappresentanza istituzionale che spinge alcuni a paventare lo spettro della lotta armata. La sinistra orfana del mondo del lavoro che sceglie, in particolare al Nord, la Lega come referente politico. Un partito, quello di Oliviero Diliberto, che ufficializza l’intento di sfilarsi dal processo unitario: ufficializza è d’obbligo, perché di convinzione verso una formazione rossa unica se ne respirava davvero poca nel Pdci. E le minoranze interne e le voci critiche intestine sempre più forti nel chiedere un redde rationem ai vertici del partito. A livello nazionale ma anche locale. Questi i contenuti e il contesto che si sono riversati drammaticamente sul tavolo dei componenti della segreteria di Rifondazione, riunitasi dalla tarda mattinata nella sede romana di via del Policlinico.
Prima tappa di una discussione che si preannuncia seria, lunga, feroce, e che ha già stabilito i prossimi appuntamenti che ne accoglieranno la continuazione: venerdì, il direttivo del partito, mentre sabato il comitato politico nazionale. Il tutto, nella prospettiva di un congresso che dovrà essere indetto il prima possibile, probabilmente a luglio. Una occasione dove la possibilità di uno scontro tra fratelli si fa di ora in ora quasi certezza, soprattutto perché sono diverse le ipotesi al vaglio dentro il Prc: continuare, anzi accelerare sul processo unitario lanciando una costituente del partito unico, come chiedono Fausto Bertinotti e Franco Giordano, oppure ripartire da Rifondazione incamminandosi in caso sulla strada della federazione, come vogliono Paolo Ferrero e Giovanni Russo Spena. Terza via, sostenuta dalle minoranze, quella di rifondare il Prc e di rilanciare la prospettiva comunista, chiudendo la porta a qualsiasi aggregazione formale con le altre forze della sinistra, per altro estranee a questa stessa prospettiva legata alla falcemartello (Sd e Verdi). Al di là di quale strada si deciderà di percorrere, quel che è certo è che il nodo delle responsabilità non potrà essere sciolto troppo facilmente. Le dirigenze dunque saranno chiamate a rispondere da più parti nel tribunale della politica. E centrale in questa discussione sarà il ruolo avuto nel governo: la scelta di lasciare la piazza è indicata da tanti come causa del tracollo elettorale subito.
Oggi ha aperto i lavori il segretario, in un primo momento deciso a dimettersi da capo in carica del partito, poi convinto a restare da Bertinotti, uscito di scena senza che fossero troppi a rimpiangerlo. E non solo nel Prc. Giordano ha espresso gratitudine e solidarietà all’ex leader candidato e al processo di unità, affermando che non si può tornare indietro da quanto iniziato l’8 dicembre a Roma. Certo, Giordano non ha potuto non riconoscere i limiti della scelta governista e la responsabilità della dirigenza nella debacle patita, causata però anche dal sistema impresso alla campagna elettorale e alla politica del paese per opera dei grandi partiti. Ma il processo di unita no, quello non si tocca.
"Il prezzo altissimo pagato al governo Prodi, oltre alla morsa bipolare: se ripenso alla manifestazione di Vicenza, a quella del Gay Pride, per finire alla straordinaria manifestazione contro il precariato del 20 ottobre scorso - ha osservato il segretario - mi rendo ancora più conto dell’impermeabilità su queste tre grandi questioni che c’era dentro il governo Prodi e delle resistenze opposte dal Partito democratico".
Rispetto a tutto questo, ha ammesso, "siamo tutti in discussione", anche se non si può far pagare l’errore all’intero processo unitario, che rimane il faro di riferimento. Proprio su questo punto, Giordano ha colpito il Pdci, "una forza politica che ha deciso di sottrarsi al percorso della costruzione di una sinistra di alternativa". Ma l’autodafè del segretario appare ad alcuni troppo poco, come ha evidenziato il deputato uscente Ramon Mantovani, invitando i compagni di partito a frenare sul processo iniziato. "Se il gruppo dirigente irresponsabile che ha portato a questo disastro insisterà sulla linea della sinistra arcobaleno sarà travolto dai militanti e dagli iscritti di Rifondazione comunista", ha ammonito, ricordando ai vertici che "sarebbe bene per loro e per il partito che si dimettessero immediatamente". Al contrario, "bisogna ripartire da Rifondazione e ripartiremo da Rifondazione", ha avvisato Mantovani, anche "cercando una unità seria con altre forze mettendo da parte l’idea elettoralistica e subalterna al Partito democratico della Sinistra e L’arcobaleno". Gianluigi Pegolo e Fosco Giannini de L’Ernesto hanno chiesto la stessa messa in discussione dei vertici e del progetto che, "cancellando le singole identità a partire da quella comunista", hanno "conseguito una tragica sconfitta". Ricostruire Rifondazione e un partito comunista con, passaggio obbligato, un congresso è la loro ricetta.
"Tutti a casa" (non solo la leadership del Prc, ma dell’intera Sa) anche per Giorgio Cremaschi, segretario nazionale della Fiom, "per un fatto di igiene della politica", ha spiegato. E chiedendo anche scusa, perchè "quello italiano è il solo Parlamento in Europa a non avere la presenza di un comunista".
Ed è terremoto di reazioni polemiche verso la dirigenza anche a livello locale, soprattutto da parte degli esponenti delle minoranze, ma non solo. "Senza comunisti non c’è la sinistra e chi ha voluto ostinatamente cancellare in queste elezioni un’autonoma presenza dei comunisti ha portato l’intera sinistra al disastro", ha affermato Stefano Franchi della segreteria del Prc di Bologna, rammaricandosi anche perchè "sarebbero bastati gli elettori delle due liste comuniste per superare lo sbarramento del 4% alla Camera". Da oggi, dunque, "si dovrà tornare al progetto originario del Prc, la rifondazione di un partito comunista", passando per la cancellazione del vertice e della sua scelta unitaria. Stessa musica è stata suonata da Leonardo Masella, capogruppo al parlamentino regionale e dirigente dell’area L’Ernesto, che ha chiesto "tabula rasa" della dirigenza, anche locale, e la convocazione di un congresso. Anche per lui sono in molti a doversi fare da parte -dato che "nel 1997 il Prc aveva l’8,6%, adesso il 3,1% assieme a Verdi, Pdci e Sd"-, in primis Bertinotti, ovvero "il pifferaio magico che ci ha portato in un burrone" con il suo "anticomunismo" e con la scelta di "partecipazione al governo Prodi". Al contrario si deve, in continuità con quanto "maturato contro la svolta occhettiana della Bolognina", mettere assieme "tutti i comunisti che in questi anni sono andati via in forma organizzata, Pdci, Sinistra critica e Partito comunista dei lavoratori e i singoli compagni che si sono allontanati". Niente casa rossa, né federata né confederata: "i socialisti di Mussi stiano con i socialisti, i comunisti con i comunisti", ha ammonito.
In Liguria non va meglio. Giacomo Conti, segretario regionale del partito e consigliere regionale, ha scelto la strada delle dimissioni e ha spiegato il tracollo (meno 100mila voti nella zona) indicando tre motivazioni: "la permanenza al Governo", le mancate e tanto promesse "politiche sociali", "la forte bipolarizzazione, il cosiddetto voto utile". E la colpa, anche per lui, è "dei nostri dirigenti che hanno costruito un’alleanza in forma di cartello elettorale e non di progetto politico". Oltre a Conti, si è dimesso anche il segretario comunale de L’Aquila, Pelino Santilli. Nelle Marche, Marco Amagliani, coordinatore dell’area Essere Comunisti del Comitato politico nazionale e assessore all’ambiente, ha attaccato a testa bassa: "il nostro gruppo dirigente nazionale, nel bel mezzo di questa catastrofe politica, che fa? Rilancia un progetto politico fallito, senza esitazione, senza imbarazzo, senza pudore", ha detto polemizzando con tutto ciò che di governista è fuoriuscito dal Congresso di Venezia in poi, ma anche con il percorso unitario. Una dirigenza il cui "unico scopo, ambiguamente mascherato, era quello che puntava allo scioglimento di Rifondazione stessa", ha tagliato corto chiedendo la testa dei vertici.
Amagliani non ha esitato a fare i nomi: "Rifondazione Comunista non è dei vari Bertinotti che, ricordo per memoria, alla nascita del Prc del 1991 optò per il Pds, Giordano, Migliore, Gianni, Vendola o chi altri. Rifondazione Comunista è dei suoi iscritti e dei suoi militant", quindi al via subito "un congresso che ribadisca chiaro e forte che non c’e’ sinistra in Italia senza un partito Comunista autonomo".