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Processo di chi? Processo di che? Le ambiguità degli altermondialismi e degli antimondialismi
Publie le martedì 22 maggio 2007 par Open-Publishingdi Samir Amin
Processo: dell’economicismo, della crescita economica senza limiti, dello sviluppo, dell’innovazione,
del patriarcato, della distruzione delle risorse e della diversità della natura, dei Lumi, della Ragione,
del Progresso, dell’Occidente, dell’eurocentrismo, della Modernità, del socialismo e del marxismo,
dell’imperialismo culturale mondializzato, dei valori universali, dei progetti di emancipazione
umana che essi ispirano.
Oppure processo: del capitalismo immaginario e del capitalismo realmente esistente, dell’imperialismo
che ne è indissociabile, in tutti i loro fondamenti e in tutte le loro dimensioni.
Difesa: delle civiltà del passato, della diversità in sé e per sé, delle mitologie e delle adesioni obbligatorie
alle religioni sociali, dell’effimero, del privilegio delle identità comunitarie, della ricerca del
consenso.
Oppure difesa: della diversità degli immaginari orientati verso la costruzione del futuro, della democrazia
radicale e della laicità, della molteplicità delle identità, del loro movimento, del riconoscimento
dei conflitti.
Per: non "la" rivoluzione - quella che deve risolvere tutti i problemi dell’umanità - ma i progressi
rivoluzionari in risposta alle sfide concrete reali e immediate che i popoli devono affrontare oggi.
Per: la produzione di visioni strategiche a lungo termine, anche se devono essere sempre oggetto
di critica e revisione permanenti.
Per l’identificazione delle tappe necessarie e possibili che portino a progressi rivoluzionari.
Contro: le illusioni della soggezione al mito del capitalismo non superabile, di un "capitalismo dal
volto umano" che potrebbe essere l’obiettivo delle lotte, la cultura politica della scelta del "meno
peggio", le illusioni della democrazia rappresentativa, la frantumazione delle lotte.
Contro: gli immaginari e le utopie reazionarie.
Contro: le illusioni riformistiche e l’apoliticità.
Per: gli immaginari e le utopie di emancipazione.
Per: fare politica, indubbiamente "in altro modo", ma comunque fare politica, rivoluzionaria per sua
natura.
Contro: la mondializzazione capitalistica.
Per: una mondializzazione fondata sulla diversità durevole e permanente, la costruzione di un prospettiva
comunista prodotta dal movimento reale dei popoli, fondata nell’immediato sulla ricostruzione
di un mondo multipolare.
Ambiguità e confusioni del momento attuale
La lunga lista dei "pro" e "contro" su cui si aprono le riflessioni che seguono non ha altro obiettivo
che quello di illustrare l’estrema differenza dei punti di vista adottati esplicitamente o meno da tutti
coloro che non vivono il sistema che imprigiona l’umanità contemporanea come una "felice mondializzazione",
per riprendere questa disgraziata espressione.
Le opzioni che ho elencato sono quelle che mi sembrano necessarie se si vuole evitare la catastrofe
sulla cui strada la "civiltà del capitalismo" ha avviato l’umanità. Ma queste opzioni non sono
sinonimo di rifiuto del processo dell’economismo, dell’eurocentrismo, del patriarcato, dello spreco,
dei "socialismi storici realmente esistenti", dell’imperialismo culturale del modello e del pensiero
unico, delle opzioni immediate dei movimenti impegnati in lotte forzosamente parziali. Le opzioni
che io sostengo suppongono invece precisamente tutte queste critiche, senza pretendere di "dare
dei voti", ma solo di inserirle in una visione più ampia che deve inglobarle in maniera adeguata per
lo spirito e per l’azione.
Mi propongo di dimostrare che mediante questo esercizio, l’attrezzo intellettuale e pratico del marxismo
è più che mai il migliore di cui dispone l’umanità contemporanea, anche se evidentemente
questo marxismo non è necessariamente quello di tutti coloro che vi si ispirano. Sarò breve, avendo
già espresso più dettagliatamente in altra sede le proposte che farò qui.
Che cos’è il capitalismo?
Non esito affatto a definire capitalistico il sistema in cui viviamo. Non credo necessario e neppure
efficace sostituirvi altre definizioni, come quella di "sistema occidentale", o "prometeico", oppure
"economicista". Tutte queste definizioni sono comprese nel termine di "capitalista", come io lo intendo.
Il capitalismo non è un "sistema economico", bensì un sistema (come tutti i sistemi) pluridimensionale
integrato, un sistema di civiltà. Ha i suoi fondamenti specifici e la sua storia concreta che lo
distinguono dai regimi che le varie civiltà hanno conosciuto prima di esso. Bisogna dimostrare come
questi fondamenti e questa storia spieghino tutti i caratteri della realtà del mondo"moderno",
cioè tutti i "vizi" - maggiori o minori, secondo gli uni o gli altri - contro cui si rivoltano gli alter e antimondialisti
di oggi, i riformisti moderati e i radicali. Bisogna dimostrare come le specificità caratteristiche
dei momenti successivi di questa storia e quelle che fanno le "differenze" oggi non sono altro
che le forme specifiche con le quali si esprime il movimento generale messo in moto dall’attuazione
dei principi del capitalismo.
1.
Il capitalismo è un sistema sociale globale, a vocazione mondiale. Non è riducibile alla sua apparenza
immediata, espressa nella vulgata attuale in termini di "dominio assoluto della logica unilaterale
del mercato". Ancor meno nei termini della vulgata proposta dall’ideologia dominante: il regno
dello "scambio" fra "individui", con la società ridotta alla somma di essi, e lo scambio ridotto a
scambio economico (acquisto e vendita) o scelta ("libera") fra diverse alternative (che vanno dalla
scelta del coniuge a quella del rappresentante politico eletto). Questa vulgata ignora
completamente la realtà di tutta la storia dell’umanità, e anche le regole elementari dell’uso della
ragione nell’analisi di tale realtà passata e presente.
Il capitalismo - come tutti i sistemi della storia reale dei popoli - è un sistema di civiltà in cui le varie
dimensioni - economica, sociale, culturale, ideologica, politica - sono indissociabili. Il capitalismo è
un sistema di conquista: e infatti ha conquistato tutto il pianeta. In questo senso la mondializzazione
non costituisce una caratteristica nuova del sistema. Io sono fra quelli che lo hanno sempre
pensato; ma scritti vecchi di più di cinquanta anni parlano di "accumulazione su scala mondiale".
Le critiche di oggi che rifiutano di separare il concetto di mondializzazione dalla sua realtà - della
mondializzazione capitalistica - non dicono nulla di diverso.
2.
Il principio fondamentale su cui è costruito il capitalismo tutto intero è quello della proprietà privata
(dell’impresa) e della libertà (di impresa). Questo principio basta da solo per teorizzare il capitalismo
nella sua realtà. Ma non era il principio su cui erano state costruite le civiltà umane, compresa
quella dell’Europa cristiana e feudale. Questo nuovo principio è stato formulato (dall’Illuminismo)
come quello della Ragione e dell’efficacia pratica.
Il capitalismo non è fondato su altri principi essenziali. I concetti di eguaglianza fra tutti gli esseri
umani, quello di democrazia come modo di gestione del potere, sono stati ideati e definiti - nel
senso di limitati - in base alle esigenze del buon funzionamento del principio della libertà dell’imprenditore
capitalista. Che l’eguaglianza dei diritti, il loro progressivo allargamento fino a comprendere
i diritti sociali e la pratica della democrazia rappresentativa abbiano rappresentato dei "progressi
storici", non lo nego. Benché alcuni vi vedano un regresso in rapporto alle forme di "convivialità"
che essi credono abbiano caratterizzato i sistemi non capitalistici precedenti. Io non condivido
questo punto di vista, che mi sembra non solo del tutto reazionario, ma fondato su illusioni
che vogliono abbellire la realtà dei sistemi precedenti. Al contrario, io vedo nell’affermazione di
questa realtà - sia pure progressiva, relativa, limitata e infine subordinata alle esigenze dello sviluppo
capitalistico - il prodotto della resistenza delle classi popolari (e delle loro vittorie parziali)
all’orrore capitalistico.
Marx pensava sicuramente che il passaggio per il capitalismo era un fatto (chi potrebbe negarlo?),
ma anche un progresso necessario per poter pensare di andare poi più lontano. Anche io la penso
così; il che non significa che oggi la "via capitalista" - intesa fra l’altro nelle periferie del sistema
mondiale reale come mezzo di recupero del divario esistente con i centri - sia possibile e neppure
auspicabile. Marx pensava anche - in parte e a volte -che "più il capitalismo è libero da ogni eredità
precedente, meglio è per prepararne il superamento". Per questo ha lasciato capire che egli giudicava
"superiore" e "migliore" il capitalismo costruito negli Stati Uniti rispetto a quello europeo, che
non si è liberato integralmente dal suo passato feudale.
Io penso esattamente il contrario. Che il capitalismo più "puro", quello degli Stati Uniti, è più resistente
ai progetti rivoluzionari necessari per il suo superamento. Giacché esso è stato in grado di
modellare la società e la sua cultura politica in funzione delle esigenze della riproduzione capitalistica
con maggiore efficacia che non i capitalismi "impuri" dell’Europa. In questo senso la società
statunitense è veramente totalitaria. Il suo totalitarismo - che prende il nome di consenso (consenso
sul principio che il capitalismo non è superabile, fa parte della "natura umana") - può ben sembrare
"accettabile", rispettoso del "diritto" e di certe libertà (non tutte). Ma non è meno totalitario di
quanto non fossero - o cercassero di essere - le teocrazie del passato. Io non attribuisco alle "vestigia
feudali" nella costruzione capitalistica europea realmente esistente le virtù che i nostalgici del
passato vogliono riconoscere. Al contrario, queste vestigia hanno rafforzato gli aspetti reazionari
dei poteri capitalisti interessati. Ma con la loro stessa esistenza hanno anche evitato la possibilità
di un consenso "all’americana", e hanno prodotto un contrasto destra/sinistra senza il quale non si
capirebbero né l’emergere di una contestazione socialista al capitalismo né le prospettive che essa
apre.
Mi sono espresso altrove su questi problemi e non voglio ritornarvi. Ricordo soltanto le proposte
che ho avanzato circa le ragioni per cui il capitalismo è emerso in Europa (e in Giappone) piuttosto
che in Cina, in India o nel mondo musulmano. La flessibilità delle forme periferiche del modo di
produzione tributario - e il feudalesimo europeo e giapponese rappresentavano tali forme in opposizione
alle forme tributarie compiute delle grandi civiltà antiche - ha costituito il "vantaggio" che
spiega il "miracolo europeo". Ricordo anche le ipotesi che ho avanzato circa le divergenze fra la
cultura politica degli Stati Uniti e quella dell’Europa moderna. Oggi gli Stati Uniti costituiscono un
centro più "compiuto" dell’Europa, e perciò stesso più resistente al cambiamento.
Il principio fondamentale del capitalismo (proprietà privata e libertà d’impresa quali ne siano i limiti
dettati da eventuali regolamentazioni) - si esprime in pratica non solo con la "ricerca del profitto"
(quello del capitale diventato forza dominante che si impone agli agenti economici e ai servitori
politici), ma anche configurando i modi di produzione e di consumo che servono all’accumulazione
del capitale, diventata necessità di sopravvivenza quotidiana del sistema, e pertanto incontrollabili
nella loro permanente fuga in avanti. Mi sembra indiscutibile che questa realtà sia stata positiva nel
senso che ha permesso uno sviluppo accelerato e senza precedenti delle forze produttive. E in
questo senso il capitalismo ha costituito un "progresso", e non una regressione. Su questo punto io
concordo con Marx e non mi unisco ai nostalgici del passato. Ma secondo me questo momento
"costruttivo" oggi è totalmente superato. La dimensione distruttiva del capitalismo oggi la vince su
quella che è stata la sua dimensione costruttiva; e il capitalismo è diventato un sistema obsoleto, il
nemico dell’umanità.
La dimensione distruttiva del capitalismo non è nuova (nuova è la gravità della minaccia che essa
rappresenta). Essa è sinonimo di "alienazione economicista" ("mercantile", per usare il termine di
Marx). I critici del marxismo - in generale - ignorano in gradi diversi questa analisi, secondo me
fondamentale, che costituisce l’asse centrale del marxismo come io lo intendo. E’ con il capitalismo
che l’economico diventa l’istanza dominante della riproduzione sociale nel suo complesso. Su questa
questione mi sono espresso nella maniera seguente: "la legge del valore (propria del capitalismo)
non informa soltanto l’economia del capitalismo, ma tutta la società capitalistica", o ancora
"non esiste un’economia di mercato che non sia anche una società di mercato" (contrariamente a
quanto affermano certi socialdemocratici), anche se ciò non significa che non si possa teorizzare
un "socialismo con mercato" come tappa nella lunga transizione oltre il capitalismo.
La scoperta fatta da certi critici del mondo moderno che nelle società precedenti l’economico era
inserito (embedded) in altre dimensioni sociali, ignora che Marx l’aveva già scoperto molto prima di
loro. Ma Marx non pensava che le società precedenti ignorassero perciò l’alienazione, che - secondo
lui - rivestiva una forma "religiosa". Ciò che mi sembra importante sottolineare, perché i nostalgici
del passato lo ignorano, è che l’emancipazione implica il superamento di tutte le alienazioni
sociali, mercantili o di altro tipo. Ha invece una certa importanza la scoperta che anche nel capitalismo
realmente esistente (in contrasto con il capitalismo immaginario dei dottrinari liberali) "il mercato"
non esiste al di fuori delle frammentazioni della società reale entro la quale esso funziona.
Giacché tale scoperta è precisamente quella che mi porta a distinguere il capitalismo immaginario
(che ne nega l’esistenza) dal capitalismo realmente esistente.
L’alienazione economicista è all’origine della doppia distruzione che minaccia la civiltà. Quella dell’essere
umano, ridotto dalla logica capitalistica a non essere altro che "forza lavoro", che sia riconosciuto
il suo sfruttamento o sovrasfruttamento da parte del capitale, o al limite che non lo sia,
mascherandolo allora con il discorso mistificante e individualista del "capitale umano" (non si può
immaginare un’espressione più infelice, prodotta evidentemente dalla cultura dell’alienazione).
L’essere umano, oltre alla sua qualità fondamentale di forza-lavoro (per servire il capitale), diventa
allora un "consumatore" (utile al capitale), uno "spettatore politico" (o pseudo cittadino impotente).
Tutte le critiche rivolte al capitalismo in questa materia - che sono numerose e diverse - si uniscono
alle mie.
E poi la distruzione della natura, ridotta a ricchezze passive che aspettano di essere sfruttate dalla
società, cioè di fatto dal capitale. Anche questo Marx l’aveva già detto, malgrado la pretesa visione
"prometeica" che gli si attribuisce senza sfumature, e che egli "condividerebbe" con l’ideologia borghese,
definita allora come "occidentale".
Resta infine da sapere se le forme precedenti di civiltà avanzate non hanno prodotto anch’esse
effetti analoghi, benché il loro funzionamento fosse diverso. L’alienazione è subordinazione (la subordinazione
volontaria per mezzo della religione sociale e del potere sacro) e permette lo sfruttamento
del lavoratore. Nulla permette di affermare che queste forme di alienazione siano state più
"umane", o "conviviali". Le società più antiche, che ignoravano il potere statale, le classi o gli ordini,
erano libere da ogni alienazione? Crederlo mi sembra semplicemente ingenuo, checché ne dicano
i culturalisti nostalgici.
3.
Il capitalismo realmente esistente come sistema mondiale ha una sua storia concreta, certo. Una
storia che pone molte questioni di fronte alle quali, in mancanza di risposte adeguate (finché possibile,
e sempre sottoposte a critica) gli avversari del mondo contemporaneo rischiano di sbagliare
nemico, confondendo per esempio capitalismo e Occidente.
Prima serie di questioni: come spiegare il fatto (importante) dell’emergere del capitalismo in Europa?
E quali ne sono state le conseguenze? Mi sono già espresso ampiamente su questa serie di
questioni. Fra l’altro ho criticato (e rigettato) le tesi che attribuiscono il fatto a determinate "specificità"
pretesamente antiche dell’"europeità" (l’eredità greca, la cristianofilia, le versioni successive del
razzismo). Ho creduto invece di poter spiegare il fatto con le specificità (recenti) della storia europea,
cioè il feudalesimo, forma periferica del modo tributario generale, che caratterizza tutte queste
società di classi premoderne.
Seconda serie di questioni: come situare in questo contesto (le circostanze concrete dell’emergere
del capitalismo in Europa) l’ideologia che ne accompagna la formazione (l’Illuminismo)? L’Illuminismo
con i suoi concetti di Ragione e di Progresso, è una realtà che non si può capire fuori dal contesto
dell’emergere del capitalismo. Ne è al contrario l’espressione. Si tratta di Lumi borghesi, e i
concetti di Ragione e di Progresso portano tutti il carattere - i limiti e le contraddizioni - del progetto
di società che promuovono.
Il principio fondamentale della modernità di cui l’Illuminismo segna l’inizio, è per sua natura "senza
fine" e proclama che "l’Uomo fa la propria storia". Questo principio, che contrasta con quello dei
tempi precedenti che attribuiva questa responsabilità a Dio, o agli Antenati, o al loro sostituto di
fatto - il Re, la Chiesa - costituisce a mio modesto parere un progresso (con la "p" minuscola), nel
senso di un avanzamento rivoluzionario. Giacché ormai permette di inventare liberamente il futuro,
sostituisce alla legge immutabile (quella dettata dalla religione sociale in generale, come la Sharia
in terra d’Islam, o dal "costume" etnico o para etnico) il diritto di innovare: e con ciò stesso crea le
condizioni della democrazia, che è un concetto moderno che non ha nulla a che vedere con le pratiche
di consultazione che si ritrovano in tutte le società. Questo principio libera anche l’individuo,
concetto nuovo ed esigenza dell’emancipazione umana, che io considero ugualmente per questa
ragione un avanzamento rivoluzionario.
I principi proposti dall’Illuminismo e i loro sviluppi non sono peraltro meno prigionieri delle esigenze
del capitalismo emergente. Sono interpretati come confluenti con la libertà di iniziativa economica
della nuova classe capitalistica. Essi fondano una democrazia di facciata dominata dalla classe
dirigente. Non dico qui nulla di nuovo rispetto a quel che ha già detto Marx, ma la maggior parte
dei critici "postmoderni" e altri (compresi i tenori dei neofondamentalismi religiosi o parareligiosi)
sembrano ignorarlo. La modernità borghese non è la fine della storia, ma solo la prefazione di progressi
capaci di radicalizzarne la portata.
Beninteso, l’Illuminismo è ambiguo e ambivalente, come quasi tutte le espressioni del pensiero
sociale. Il bastone si può rivoltare in un senso o nell’altro, secondo gli interessi sociali espliciti o
impliciti e la loro legittimazione pretesamene "teorica" (da parte mia preferisco parlare di pensiero
sociale invece che di teoria sociale). Per esempio, tale pensiero può associarsi all’assoluto ateismo.
Ma la teologia della liberazione prova che avere fede e proclamare che l’uomo fa la propria
storia sono perfettamente conciliabili in un’interpretazione di un’evoluzione che porta alla "religione
senza dogmi", come ho scritto. Per esempio l’individuo in questione può essere inteso come già
soggetto di storia (come dice il pensiero sociale borghese su cui si fonda la pretesa teoria economica
liberale), il che peraltro non può essere nella società di classi che è il capitalismo. Per esempio
questo pensiero può essere associato a una negazione dell’interazione fra natura e umanità e
alla riduzione della natura allo status di cosa, in attesa di essere merce.
Ma la buona ecologia (di cui Marx sparge alcuni primi semi) non lo accetta, e giustamente secondo
me. Per esempio, la forma rappresentativa della democrazia e il "regno della legge" possono essere
considerati come espressione esclusiva della Ragione: ma molti movimenti delle classi popolari
vittime del capitalismo non lo accetteranno. Per esempio, il futuro da costruire, presentato come il
socialismo possibile, può esser ridotto a un’accumulazione al servizio di tutti e non più solo di una
minoranza - ed è così che i socialismi realmente esistenti lo hanno inteso.
Ma il futuro si può anche
immaginare in forma diversa, come rottura con la logica dell’accumulazione prodotta dal capitalismo.
Ogni volta che ci si trova ad affrontare la realtà e le proposte avanzate per cambiare il mondo, si è
per ciò stesso obbligati a fare le scelte qui suggerite. La questione da porre a questo punto non è
di sapere "quale sia la scelta giusta", ma chi sceglie che cosa e perché. Si tratta di capire e di
spiegare (con il rischio di errore che non si può mai escludere) prima di approvare o condannare.
L’ideologia dell’Illuminismo - giacché ogni pensiero sociale è anche ideologia - cioè l’ideologia dei
Lumi borghesi, è all’origine della produzione di un "capitalismo immaginario" che presta legittimità
all’economicismo e alla pratica della gestione capitalistica della società. L’economicismo in questione
non è condiviso dal pensiero liberale e da quello marxista, come pretendono numerosi critici
del mondo contemporaneo. Il pensiero di Marx è un anti-economicismo fondamentale. Non a caso
il Capitale porta come sottotitolo "critica dell’economia politica". Tale critica non propone una "teoria
economica buona" per sostituire la "teoria economica cattiva" della borghesia, ma spiega perché
nel capitalismo l’economico è diventato l’istanza dominante.
Indubbiamente tale lettura di Marx
non è stata quella dei marxismi storici al potere, in particolare della vulgata sovietica. Ma bisogna
spiegare perché è andata così. Riprenderemo l’argomento più avanti.
Il capitalismo immaginario costituisce l’oggetto della "scienza economica" borghese. Essa si sforza
di "dimostrare" che il principio del mercato generalizzato fondato sulla proprietà privata delle imprese
deve produrre tre effetti associati: il progresso materiale a beneficio di tutti (anche se progressivamente),
le condizioni della "felicità" (identificato come progresso delle quantità consumate)
e le condizioni di un "consenso democratico" espresso dalla democrazia rappresentativa.
La dimostrazione non vale nulla in teoria. Giacché è fondata sull’idea - falsa - che i mercati tendano
all’equilibrio "ottimale". La dimostrazione è perfettamente tautologica perché di fatto non si può
dimostrare che il contrario: che i mercati passano da uno squilibrio all’altro senza che si sappia mai
dove portano. Si spiega la loro storia reale a posteriori, facendo intervenire dei conflitti di interessi
sociali che la teoria economica vuole ignorare. All’origine dello sproposito c’è l’idea che l’individuo,
mediante il mercato (capitalistico), sia già diventato il soggetto della storia. I critici del sistema che
ci ricordano che i mercati non operano nel vuoto, ma sono inseriti (embedded) in realtà sociali multiple,
fanno qui opera utile. E si uniscono - anche quando lo negano - a Marx.
La realtà smentisce quanto il rigore del ragionamento tutte le attese della mitologia liberale. Giacché
lo sviluppo del capitalismo realmente esistente produce e riproduce in forme sempre rinnovate
la "povertà", cioè il contrario della "felicità", e la disuguaglianza - fra i popoli dei centro e quelli delle
periferie del sistema globale mondializzato. Lo sviluppo esige dunque la violenza e la "dittatura"
più spesso di quanto non favorisca la democrazia, non fosse che quella rappresentativa. Bisogna
certo spiegare le ragioni di queste realtà, e non contentarsi di proclamare che il liberalismo "ben
inteso" permetterà di superarle.
Che cosa è l’imperialismo?
I vantaggi - in termini di potenza - delle società capitaliste emergenti in Europa (e nelle altre regioni
principali in cui si è diffuso il capitalismo - gli Stati Uniti e il Giappone) sono all’origine della conquista
del mondo da parte delle potenze interessate. La potenza qui si esprime anzitutto in termini di
mezzi militari. Ma si esprime anche in termini di attrazione che la potenza economica permette,
oltre che in termini di livello di vita (consumi utili o meno, istruzione e sanità, speranza di vita, ecc.)
come in termini di attrazione delle forme nuove della gestione sociale associate al capitalismo (genere
di vita, per quanto criticabile, liberazione almeno parziale dell’individuo, tolleranza religiosa e
di altro tipo, rispetto della legge, cioè pratica democratica). I nostalgici del passato disprezzano
forse questi motivi di attrazione; i popoli no.
Certo i vantaggi in questione, e la conquista del mondo che vi è associata, prendono la forma di
una "occidentalizzazione" del mondo. Tanto più che ne viene confortata l’espressione arrogante -
da parte degli europei e dei nordamericani, loro figli - di una loro "superiorità" (che diventa aperto
razzismo), rafforzata a sua volta dalle mitologie eurocentriche di cui ho già ricordato le critiche.
Ma l’imperialismo in questione non è anzitutto "culturale" ("l’occidentalizzazione del mondo"). E’
anzitutto economico, nel senso molto preciso che lo sviluppo del capitalismo mondializzato realmente
esistente non ha mai creato le condizioni per un "recupero" da parte delle regioni rimaste
indietro; al contrario ha sempre prodotto e riprodotto, approfondendola, la cesura fra zone centrali
dominanti e zone periferiche dominate. Non torno su questo punto, che è centrale nella mia lettura
del capitalismo realmente esistente, che ho definito imperialista per sua natura in tutte le tappe del
suo sviluppo a livello mondiale. Al punto che la contraddizione fra centri e periferie è diventata la
principale contraddizione visibile mediante la quale si esprime il conflitto fra capitale transnazionale
dominante e lavoro frantumato e diviso fra le nazioni, trasformando le periferie in zone di tempeste
permanenti (dico tempeste e non rivoluzioni).
Se il capitalismo, con la sua mondializzazione, avesse messo in moto un processo di "recupero"
più o meno generalizzato, i popoli non europei avrebbero potuto accettare "l’occidentalizzazione
del mondo" - con il suo buono o meno. Marx lo ha lasciato intendere a volte, benché poi su questo
punto si sia corretto. Ma appunto perché il sistema è imperialista (nel senso polarizzante definito
nei termini stessi con cui si misura il grado di "sviluppo" capitalistico), l’occidentalizzazione del
mondo è vissuta male, e spesso viene rifiutata senza rifiutare il capitalismo, che è la causa del male.
Il contrasto fra centri e periferie diventa sempre più profondo ad ogni fase, rivestendo ogni volta
forme nuove: il mercantilismo dal 1500 al 1800, il monopolio industriale dal 1800 al 1950, i nuovi
monopoli (i "cinque monopoli" - dell’accesso alle risorse naturali del pianeta, del controllo delle
tecnologie, dell’informazione, della circolazione finanziaria, delle armi di distruzione di massa - sui
quali mi sono espresso altrove). I paesi detti "emergenti" costituiscono oggi di fatto il cuore delle
periferie di domani. L’imperialismo non è né una fase né una forma di circostanza, nello sviluppo
del capitalismo mondializzato realmente esistente. E’ una caratteristica che gli è inerente: e produce
una contraddizione reale sempre più violenta.
Siamo arrivati allo stadio in cui questa contraddizione costringe il capitalismo a diventare genocida.
Come gestire le masse di popolazioni che comprendono l’85% dell’umanità e alle quali il capitalismo
non ha molto altro da offrire se non la violenza permanente? La scelta di una strategia di
"controllo militare del pianeta" da parte delle forze armate degli Stati Uniti, con la complicità dei
loro alleati della triade imperialista (Europa e Giappone) è la logica conseguenza della situazione
reale del mondo.
La resistenza delle vittime principali del sistema - le classi popolari delle periferie - non è nuova. Si
è manifestata in tutte le fasi dello sviluppo capitalistico, ma nel XX secolo è diventata una delle
forze principali che il capitalismo ha dovuto affrontare nei suoi progetti di dominio e di riproduzione
di esso. La resistenza ha sempre assunto forme diverse, e la sua efficacia è stata sempre variabile.
Essa si esprime, fra l’altro, in uno dei tre gruppi di risposte alla sfida, che ricorderò brevemente.
Il primo gruppo consiste nell’attuazione di contro-strategie di adattamento e di sopravvivenza. I
"poveri" non muoiono tutti, molti "sopravvivono" perché sanno adattarsi e inventare stratagemmi
intelligenti ed efficaci, associando procedimenti derivanti dalle logiche dominanti del capitalismo e
altri ad esso estranei - pretese "eredità della cultura antica" o meno. E’ necessario osservare queste
strategie e anche difenderle. Ma si tratta solo di strategie di adattamento, che siano in tutto o in
parte recuperate (l’informale al servizio della redditività del capitale che si sviluppa nelle attività
formali) o che non lo siano. Sono convinto che sia molto ingenua l’idea che queste strategie possano
costruire il mondo di domani. Ciò non significa che non ci sia nulla da imparare: è proprio
sulla loro base - perché esse sono la realtà - che la resistenza dei popoli potrà eventualmente avanzare
nella direzione di lotte più decisive.
Il secondo gruppo è costituito - a mio parere - da opzioni che rinchiudono in un vicolo cieco e producono
perciò conseguenze tragiche e inevitabili. Sono opzioni favorite dall’accento che si pone
sulla dimensione "culturale" dell’imperialismo realmente esistente, a scapito della sua dimensione
dominante, quella impressa dallo sviluppo delle logiche capitalistiche. Ho proposto altrove alcuni
esempi, sui quali mi sono dilungato ampiamente. A queste strategie impotenti ho dato la definizione
di "derive culturaliste", intendendo con ciò che sono fondate sulla convinzione che le "culture"
costituiscono delle invarianti nella storia. Queste derive possono assumere forme "etniciste" (preferisco
definirle para-etniciste) come in Jugoslavia, in Europa orientale, in Africa e altrove.
Oppure
forme "religiose" (para-religiose). Esempi contemporanei di questa deriva sono fra gli altri l’Islam
politico, ma anche l’Hindutva, di cui molti critici della modernità tessono elogi sconsiderati. Questi
movimenti si presentano come "nemici dell’Occidente" (ma non del capitalismo, di cui ignorano
perfino il concetto). Ma nemici impotenti, e perciò alleati oggettivi. Con il Corano, la Bibbia o un’insegna
tribale in una mano, e la bottiglia di Coca Cola nell’altra, essi procacciano profitti al sistema,
anche se sembrano creargli qualche problema.
Il terzo gruppo è il più interessante, secondo me, perché apre la possibilità di rimettere in discussione
il capitalismo. Si tratta di quello che io ho chiamato "avanzate rivoluzionarie", non "la" rivoluzione
(finale).
Avanzate che si sono espresse mediante le "rivoluzioni" condotte nelle periferie del
sistema in nome del socialismo (Russia, Cina, Vietnam, Cuba) o attraverso i movimenti di liberazione
nazionale d’Asia e d’Africa nel secondo dopoguerra (l’era di Bandung, quella dei nazionalpopulismi).
Che queste avanzate non abbiano prodotto "alternative autentiche" ma si siano piegate
alle esigenze dello "sviluppo" - essenzialmente di natura capitalistica - non mi sembra affatto che
costituisca una proposizione erronea. Al contrario, mi sembrano fatti evidenti, ma prima di condannarli
bisogna sapere perché è andata così. Non si potrà andare più lontano se non si sa dare una
risposta a questa domanda.
Bilancio delle lotte anticapitalistiche
I popoli non hanno tardato a impegnarsi nelle lotte contro il capitalismo, sia per adattarsi a vantaggio
delle classi popolari, sia nettamente per rovesciarlo. E’ sempre necessario fare un bilancio critico
di ciò che queste lotte hanno permesso di ottenere, delle prospettive in cui si inquadrano le
loro vittorie e le loro sconfitte. Il bilancio è stato fatto e rifatto, e bisognerà continuare a farlo. La
severità nel giudizio, e la conclusione che nessuno di questi movimenti di lotta è riuscito veramente
a uscire dalle logiche di riproduzione e di sviluppo del capitalismo, non mi disturbano affatto.
Ma bisogna mantenere un atteggiamento di modestia riguardo alle proposte alternative che questo
severo bilancio critico può provocare. Se tante generazioni passate hanno preso la strada sbagliata,
che sicurezza abbiamo noi, oggi, di sapere che abbiamo la chiave del successo? Non esiterò a
rivolgere questo rimprovero a molti movimenti contemporanei che si contentano di dire: il socialismo,
o i socialismi, sono tutti falliti. Punto. Ecco la ricetta per fare meglio. Dirò anche che sono
sorpreso dell’ignoranza dei fatti, delle teorie e degli argomenti del passato e delle critiche a questo
passato; e che questa ignoranza sorprende ancor più quando si tratta di intellettuali colti.
Le rivoluzioni del passato condotte in nome del socialismo sono fallite. E’ vero. Ma è necessario
precisare la natura del loro fallimento e le sue ragioni. Queste rivoluzioni sono fallite semplicemente
perché la "teoria generale" di ciò che si proponevano di costruire portava necessariamente a
un’impasse e a un ritorno indietro? Oppure sono state delle realtà oggettive (di cui va precisata la
natura), combinate con le analisi compiute e le risposte date per affrontare la loro sfida, che spiegano
i percorsi seguiti?
Per alcuni, oggi, il frutto era bacato già dall’inizio: la rivoluzione russa ha fallito perché il marxismo
avrebbe condiviso con l’ideologia borghese l’illusione dello "sviluppo", cioè dello sviluppo capitalistico.
Alcuni arrivano a definire il marxismo come teoria (o pensiero) economicista, prometeica,
culturalmente eurocentrica. Io credo che costoro conoscano male Marx. Il che non significa affatto
che le correnti dominanti del marxismo storico non abbiano potuto essere - almeno in parte - eurocentriche
ed economiciste. La questione è sapere perché i "cattivi marxisti" (economicisti) l’hanno
avuta vinta sui "buoni": quali realtà oggettive hanno pesato in questo senso.
Tutte le rivoluzioni condotte "sotto la bandiera del marxismo" (Russia, Cina, Vietnam, Cuba) si sono
realizzate nelle periferie del sistema mondiale. Molti critici di queste esperienze non tengono
conto di questo fatto, o - come alcuni suggeriscono - "non si doveva tentare di fare una rivoluzione
socialista in quei paesi".
L’alternativa - una rivoluzione borghese - mi sembra peggiore, impossibile
per di più, e senza avvenire. Da parte mia credo che le rivoluzioni in questione, che io preferisco
chiamare avanzate rivoluzionarie, hanno dovuto affrontare, per la pesante ragione oggettiva che
ho ricordato (l’appartenenza alla periferia del sistema), un duplice compito: "recuperare" e "fare
altro". Pensare che avrebbero dovuto (e potuto) rinunciare al "recupero" e limitarsi a "fare altro" -
come suggeriscono numerosi movimenti contemporanei - mi sembra piuttosto ingenuo e poco realistico.
I critici del modernismo nostalgici del passato possono permettersi di sorvolare sulle esigenze di
un certo sviluppo delle forze produttive necessario per assicurare un livello di vita accettabile al
popolo e anche per garantire la sicurezza militare contro l’aggressione dell’imperialismo. Essi possono
nutrire quella che per me è un’illusione: che gli abitanti dei villaggi africani possano - se lo
vogliono - uscire dal "sistema dello sviluppo" e proporre la soluzione all’umanità intera. Non possono.
E non vogliono, anche se sono condannati a sviluppare stratagemmi "non capitalistici" per
riuscire a sopravvivere. Le proposte di un certo ecologismo fondamentalista sono destinate perciò
a non avere alcuna forza di convincimento, alcun impatto al di fuori degli ambienti intellettuali (occidentali)
che con ciò esprimono dei pii desideri, generosi ma impotenti.
La combinazione fra "un certo sviluppo delle forze produttive" e la costruzione di rapporti sociali
altri, è difficile perché è contraddittoria. Lo sviluppo delle forze produttive richiede fatalmente la
riproduzione di modelli di produzione, di organizzazione e di consumo di tipo capitalistico per natura,
nel senso di simili a quelli sviluppati storicamente dal capitalismo nei suoi centri avanzati. L’imitazione
è sempre pericolosa, perché non è neutra e ostacola l’altro obiettivo: inventare i rapporti
sociali del socialismo. Secondo me, la critica deve vertere sull’analisi di come questa combinazione
sia stata pensata e messa in pratica. Ciò implica una lettura critica del marxismo, quella di Marx
stesso (perché no?) ed evidentemente quella dei marxismi storici. Ma la critica vera, se non vuole
ricadere nella scolastica dogmatica, non può separare l’analisi teorica (del o dei marxismi) da quella
degli interessi sociali in azione.
Ciò che ho detto sulle rivoluzioni condotte in nome del socialismo si applica mutatis mutandis alle
lotte di liberazione dei popoli delle periferie del sistema. Questi popoli si scontrano con le stesse
sfide: devono "recuperare", almeno abbastanza da ridurre la loro vulnerabilità interna ed esterna.
Non c’è dubbio che in queste esperienze l’altro obiettivo (fare altro) era assente, anche quando
una certa retorica "nazionalistica" affermava il contrario. Per questa ragione l’obiettivo del "recupero"
è all’origine della scelta fondamentale - un modello di sviluppo che in definitiva è capitalistico. Io
per dirlo non ho aspettato che la generazione contemporanea scoprisse questa realtà: lo vado dicendo
dall’epoca di Bandung, cioè dal 1955.
Questo sviluppo capitalistico doveva "fallire", nel senso che non permetteva il "recupero" invocato
per legittimarne la scelta. Ma esso costituiva, secondo me, un’avanzata rivoluzionaria perché esprimeva
una presa di posizione antimperialista che avrebbe potuto dar luogo ad altri passi avanti.
Non voglio dire con questo che questo primo avanzamento doveva produrre "spontaneamente"
un’evoluzione favorevole verso altri progressi come pretendeva la teoria sovietica della "via non
capitalistica" (che ho combattuto). Voglio dire che non era scritto nel Dna del sistema (che ho definito
nazionalpopulista) che dovesse cadere a destra, come quello dell’Unione Sovietica. Avrebbe
potuto evolvere a sinistra. Evidentemente a partire da un certo stadio di "cattivo sviluppo" (cioè di
sviluppo puramente capitalistico, operante nelle condizioni della periferia del sistema), si può dire
che i giochi erano fatti, che il crollo e la restaurazione erano diventati inevitabili.
Comunque, anche in queste esperienze di "socialismo annacquato" del Sud (in confronto con quello
dei socialismi reali dei paesi dell’Est) le realizzazioni del periodo nazionalpopulista non sono state
trascurabili (e i popoli interessati la pensano così). Non solo in termini materiali - livello e condizioni
di vita, capacità di difesa - ma anche in termini di scelte politiche in grado di permettere ulteriori
progressi. La "deconnessione" - cioè la sostituzione di priorità interne a quelle imposte dall’aggiustamento
al capitalismo mondiale - non è uno dei meno importanti fra questi tentativi di progredire
ulteriormente. Sono meravigliato che i difensori della "uscita dallo sviluppo capitalistico" non lo
vedano.
Le sfide che i popoli oggi devono affrontare hanno sempre la stessa natura, anche se queste sfide
si inquadrano in un sistema globale trasformato (come sempre nella storia reale). Si può allora,
modestamente, trarre qualche lezione dalle debolezze e dalle vicissitudini del passato, e anche dai
fallimenti più evidenti, per proporre qualche idea strategica nuova?
Allora che fare?
Tre gruppi di risposte alla sfida, come sempre.
Primo gruppo: non fare niente, lasciar correre, o contentarsi di quel che si fa (le resistenze in corso).
Ci sarà sempre un pensiero politico disposto a fare questa scelta. Alcuni più piattamente perché
pensano - e confessano - che la loro concezione della politica implica che ci si inserisca nei
rapporti di forze che operano nella società quale essa è, e definiscono come utopia irrealistica ogni
volontà di agire per modificare i rapporti di forza. La destra adotta spontaneamente questo punto di
vista, perché i rapporti di forza operano per definizione in suo favore. Ma una buona parte delle
sinistre dette "realiste" non sono lontane dal comportarsi nella stessa maniera. Si giustificheranno
con la scelta del "male minore". O spesso in buona fede parleranno della speranza di dare "un volto
umano" al capitalismo, della globalizzazione "responsabile" ecc.
Lo stesso atteggiamento, ma in maniera più sofisticata, guida il pensiero di coloro che credono che
l’avvenire sia costruisca già nel presente. Sì, certo, ma attraverso le contraddizioni del sistema e la
radicalizzazione delle lotte. No, invece, se si pensa di potersi limitare a fare l’inventario delle resistenze
in corso e a sostenerle. Negri ha tentato di "teorizzare" questa opzione, ma con argomenti
vuoti, secondo me.
Un’analoga forma di pensiero anima certi militanti di base, impegnati in forme di resistenza attiva e
inventiva, che vanno dagli stratagemmi di sopravvivenza al "commercio equo", alla creazione di
"banche dei poveri", cooperative ecc. Non che queste iniziative siano da disprezzare. Affatto. Ma
oltre il sostegno che vi si può dare, il successo del potenziale di futuro che queste strategie possono
mobilitare dipenderà dalla radicalizzazione dell’insieme delle lotte. In mancanza di queste, mi
pare che quelle azioni resteranno episodiche e il sistema dominante riuscirà ad assorbirle perfettamente.
Secondo gruppo: ritornare al passato, dove si potrebbe scoprire la risposta alle sfide poste dalle
impasse in cui il mondo contemporaneo si è intrappolato. Non è necessario tornare su questa questione,
cui ho già dato la mia risposta. Il passato cui veniamo invitati a tornare è la mitologia inventata
di un passato del tutto immaginario, che non ha nulla a che fare con il passato reale; questa
costruzione artificiale abbellisce il passato per legittimare l’appello a tornarvi.
L’appello può prendere
forme brutali e assolute (è il caso dei fondamentalismi parareligiosi e paraetnici) o con maggior
sottigliezza può evocare fra molti veli la "convivialità" delle società del passato. Una caratteristica
che di fatto funzionava nel contesto di poderose alienazioni sociali. Ma questa evocazione registra
qualche successo (effimero, il più spesso modaiolo) per via delle distruzioni operate dall’individualismo
borghese. Le pratiche politiche derivate da queste ideologie passatiste sono sempre incapaci
di rispondere alle sfide contemporanee, e spesso sono anche terribilmente reazionarie e violente
(come l’Islam politico), e perciò perfettamente utili per perpetuare la gestione del sistema capitalistico.
Terzo gruppo: liberare l’immaginario creativo guardando avanti, non indietro, per pensare il futuro.
Difendo qui l’utopia critica, come ha fatto Marx pensando il comunismo. Non certo come proseguimento
dello "sviluppo materiale" secondo i procedimenti del capitalismo storico (come dicono
frettolosamente i detrattori del marxismo), ma in maniera fondamentalmente diversa. Bisogna riflettere
sulle frasi di Marx circa la riduzione drastica del tempo di lavoro e sullo sviluppo delle facoltà
creative dell’individuo (prima pescatore, un’ora dopo poeta, ...). Un tempo libero affatto diverso
però dal tempo libero mercificato che serve a ricostruire la forza lavoro. Un comunismo le cui forme
e istituzioni organizzative non si possono definire in anticipo (come hanno immaginato di poter
fare i "socialismi utopici") perché non possono essere altro che la creazione progressiva dell’immaginario
attivo dei popoli, nella diversità.
La diversità è per sua natura plurale. Può capitalizzare a suo profitto le ricche eredità (se si sa farne
la critica) della prodigiosa storia dell’umanità (e non soltanto, evidentemente, degli "occidentali").
E deve permettere la coesistenza di filosofie di ispirazione molteplice, comprese quelle religiose
(come la teologia cristiana della liberazione dimostra la possibilità). Questa diversità necessaria,
vitale, durevole (e non di "transizione") non opportunista e non manipolata, chiama alla critica vigilante
delle tendenze, alla dogmatizzazione, religiosa o civile.
Ma io difendo anche la necessità di impegnarsi in questo senso fin da oggi. In pratica, e non solo
in teoria. E per farlo bisogna partire dalle contraddizioni concrete del sistema qual è, dalle crepe
che esse aprono e che permettono passi avanti seri. Bisogna pensare - e mettere in pratica - strategie
di radicalizzazione delle lotte.
Non voglio proporre alcuna formula già confezionata, per rispondere alla sfida. Non ne ho la presunzione,
e poi penso che l’esercizio in sé può essere pericoloso. Mi limito dunque a segnalare ciò
che secondo me potrebbe costituire un insieme di principi da sottoporre a discussione, per facilitare
l’elaborazione di strategie all’altezza della sfida.
Primo principio: ideare e definire gli obiettivi delle lotte immediate (a partire da quelle in corso) andando
oltre la democrazia rappresentativa (essa stessa in crisi e in arretramento, checché se ne
dica), delineando l’associazione (e non la dissociazione) della democratizzazione (processo, e non
formula definita una volta per tutte) di tutte le dimensioni della vita sociale (locale, nazionale e internazionale;
nella gestione economica, sociale, culturale e politica) con il progresso sociale (termine
volontariamente impreciso, che permette di fare piccoli passi in avanti o passi più grandi
quando sia possibile, verso il socialismo da inventare).
Ciò implica non solo l’adozione di carte dei diritti individuali e collettivi, sociali ed economici come
politici, generali e specifici, che comprendano i diritti dei contadini (all’accesso alla terra), delle
donne (all’uguaglianza reale e non solo "di diritto"), i diritti delle generazioni future (principio di precauzione,
gestione non mercantile delle risorse naturali), ma anche la definizione di programmi di
controllo e di regolazione dei mercati e dei diritti dell’impresa (privata o pubblica).
Ciò implica anche naturalmente una pratica radicale della laicità, il rifiuto di ogni aspirazione al
dominio da parte di qualsiasi religione sociale, identità comunitaria, filosofia di Stato, pensiero unico.
A sua volta questa esigenza impone che si rifiuti la tentazione di costruire il consenso e le
maggioranze elettorali per esprimerlo, e di favorire invece la cultura politica del conflitto riconosciuto
e legittimo.
Secondo principio: intendere la mondializzazione come processo che deve essere fondato sul riconoscimento
della pluralità delle nazioni, dei popoli e degli Stati. Combattere dunque la mondializzazione
unipolare attuata dall’egemonia degli Stati Uniti o dalla triade imperialista (Stati Uniti,
Europa, Giappone). Lottare per la costruzione di alleanze e di fronti nel Sud, che possano far arretrare
la mondializzazione unipolare e imporre l’alternativa multipolare.
Questo principio parte dal riconoscimento degli effetti incredibilmente distruttivi della civiltà, espressi
dalle spaventose disuguaglianze prodotte dalla mondializzazione capitalistica. Se ne deduce
che le formule che associano democratizzazione e progresso sociale non possono essere
identiche per i centri e le periferie del sistema, gli uni e gli altri declinati al plurale. Questa associazione
definisce il senso che io attribuisco al termine di sviluppo, anch’esso sempre volutamente
impreciso. Lo sviluppo allora non è più semplicemente capitalistico, bensì conflittuale.
L’insieme di questi due principi, e di tutti i corollari che se ne possono dedurre, costituisce ciò che
io chiamo "fare politica". Una politica che fa prevalere le logiche di lotta su quelle di "organizzazione"
("partecipare al potere", magari solo per raccoglierne le briciole). Questa politica è realistica
nel senso buono del termine, cioè nel senso che non alimenta i sogni romantici di una rivoluzione
che tutto risolve. O dei suoi sostituti non meno romantici, come "bloccare immediatamente lo sviluppo".
Essa preconizza progressi rivoluzionari e la costruzione della loro convergenza nella diversità.
L’identificazione dei soggetti storici concreti capaci di attuare questa politica costituisce la sfida
maggiore che devono affrontare tutti coloro che vogliono non solo pensare, ma anche agire. Non
tenterò di imbastire risposte a queste questioni concrete. Dirò soltanto che i soggetti non possono
essere che multipli, definiti in termini di classi sociali (e non solo riducendoli a quello che sarebbe il
"proletariato" operaio o in senso più ampio), di movimenti e di gruppi di cittadini, di donne, di contadini,
di popoli.
Dirò anche che l’identificazione di questi soggetti riguarda tutte le regioni del mondo,
ma per via del contrasto principale fra centri e periferie, il processo sarà sempre determinato
dalla posizione dei popoli nella gerarchia prodotta dal capitalismo-imperialismo mondializzato. Sia
fra gli uni che fra gli altri saranno possibili avanzate rivoluzionarie, anche se resteranno per forza di
cose ambivalenti, capaci di condurre a nuove avanzate o anche in vicoli ciechi. La tentazione del
socialimperialismo nei centri, del nazionalismo stretto nelle periferie sono esempi che illustrano
questa realtà.
L’internazionale dei popoli - da costruire - è il solo mezzo per rafforzare le possibilità di convergenza
fra i progressi possibili nei centri e quelli nelle periferie - la zona delle tempeste - con il reciproco
sostegno che le lotte degli uni e degli altri devono considerare come un principio guida fondamentale
del loro pensiero e della loro azione.
(traduzione di Nunzia Augeri)