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Quale autonomia per i giornali di partito?

Publie le venerdì 8 agosto 2008 par Open-Publishing

Quale autonomia per i giornali di partito?

di Beppe Lopez

Quale dovrebbe essere il livello e quale il tipo di autonomia di un giornale di partito rispetto alla linea politica e al gruppo dirigente del partito di riferimento? La questione è ricicciata fuori in questi giorni con la campagna congressuale e il cambio di segreteria di Rifondazione Comunista, e con le franche polemiche tra Paolo Ferrero (prima come leader dell’opposizione al cartello Giordano-Ventola-Bertinotti e poi come neo-segretario del partito) e Piero Sansonetti (insediato alla direzione di Liberazione ai tempi della segreteria-Bertinotti).

Ma per anni la stessa questione ha animato e spesso sinistrato i rapporti fra l’Unità, negli anni della direzione di Furio Colombo prima e di Antonio Padellaro poi, e i Ds-Pd o perlomeno alcuni suoi consistenti gruppi interni. Polemiche e contrasti dello stesso tipo hanno via via riguardato anche i rapporti fra Europa e alcuni settori della Margherita, e più recentemente persino il confronto fra Marco Pannella, padre-padrone della “galassia radicale” e proprietario di Radio Radicale, e il pur devoto direttore dell’emittente Massimo Bordin…

Va subito rilevato che sarebbe fuorviante collegare meccanicamente tale fenomeno con le storiche querelles, ad esempio, sulle direzioni di una Unità o di un Popolo sino alla scomparsa del Pci e della Dc. Erano tempi di partiti forti e di direzioni perlopiù affidate a esponenti dello stesso gruppo dirigente partitico, in base a una dialettica e ad avvicendamenti interni.

L’affidamento di testate di partito a giornalisti con le (diverse) storie e stature professionali di Colombo, Padellaro, Sansonetti o Stefano Menichini sarebbe stato allora impensabile. E a suo modo è uno dei tanti segnali, insieme, della debolezza e della voglia/necessità di apertura dei partiti, oggi notoriamente molto indeboliti sul terreno della rappresentatività della società reale. E persino della loro leaderizzazione e autoreferenzialità (nel caso di ricorso non a prestigiosi professionisti, ma più semplicemente a giornalisti di stretta fiducia del leader di turno).

Tornando all’oggi, la caratteristica di queste direzioni si è venuta sempre meglio definendo come rivendicazione ed esercizio di “autonomia” rispetto al partito (in qualche caso di autonomia piena e reale, in altri di autonomia dalla dialettica del partito ma non dal suo leader nominante). Non solo un’autonomia di natura professionale ma di autonomia politica e culturale vera e propria: di sostanziale alterità rispetto al partito e, sempre più spesso, di critica esplicita, quando non addirittura di attacco, al partito o più spesso a pezzi di esso o a suoi singoli esponenti.

Una situazione veramente paradossale, anche dopo che, per salvare i partiti dalle gravi situazioni debitorie accumulate dai propri organi di stampa, li si mise in carico di fatto al bilancio dello Stato (in aggiunta al complessivo aumento delle voci e dell’entità dei “costi della politica”). Si statuì che avessero diritto alle provvidenze per l’editoria, divenute col tempo sempre più generose, in quanto organi ufficiali di partito o di gruppo parlamentare. Più recentemente, con codicilli e artifici regolamentari, si è riconosciuto a numerose testate tale diritto a prescindere dall’ufficiale ed effettiva titolarità di “organo”. Difatti il Pci-Pds-Ds non esiste più, tanto meno in termini di gruppo parlamentare; non esiste più la Margherita, non esiste più il gruppo parlamentare di An, ma l’Unità, Europa e Il Secolo d’Italia, fra gli altri, continuano a prendere il loro contributo.

In particolare Menichini e Sansonetti si sono sempre distinti per la rivendicazione della loro autonomia rispetto ai partiti di riferimento e del diritto, anzi quasi del dovere dei loro giornali di operare in termini di liberi organi di opinione. Una posizione che, concettualmente, rischia di minarne alla base il diritto al contributo pubblico. Già contestato come improprio “costo della politica”, esso potrebbe apparire indebito se attribuito ad un libero organo di opinione. E perché non agli altri liberi organi di opinione? E perché non ai tanti, numerosi, piccoli e indipendenti giornali locali, soffocati sia dall’abuso delle posizioni dominanti da parte dei grandi giornali sia da presenze concorrenti direttamente finanziate (peraltro come questi ultimi, con i “contributi indiretti”) dallo Stato?

Provvidenze a parte, appare evidente la contraddizione basilare di un organo di partito che rivendichi l’autonomia politica dal proprio partito (magari per utilizzarla a fini interni: ma questo è un aspetto politico che non ci riguarda in questa sede). Del resto, non è nemmeno teorizzabile la riduzione di un giornale, per quanto “organo”, all’obbedienza cieca, pronta e assoluta – diciamo burocratica – agli ordini, alle disposizioni e ai gusti della segreteria di turno del partito di riferimento.

Diciamo che il treno di un “giornale di partito” deve poter viaggiare su un binario costituito, ovviamente, da due assi: la linea politica del partito e l’autonomia professionale del giornale.

Sul piano della trasparenza, della democrazia e della deontologia – e, in ricaduta, della tendenziale aderenza alla dialettica e alla complessità del rapporto fra partiti, elettorato e società – la questione potrebbe essere sintetizzata così: da un canto il partito ha il diritto di dare la linea e le direttive politiche, e il dovere di non ingerirsi nella gestione e nel lavoro redazionale; dall’altro canto il giornale e il suo direttore hanno il diritto di esercitare in piena autonomia la propria idea e la propria capacità di rappresentazione, spiegazione e approfondimento della linea politica del partito, accogliendo e soddisfacendo le aspettative del suo elettorato e l’interesse del proprio lettorato (impaginando, titolando, facendo inchieste, dando notizie, pubblicando foto, fissando rubriche, intervistando, ecc.) ma anche il dovere di mantenersi fedele a quella linea. Con professionalità, con intelligenza, non burocraticamente, ma fedele.

E comunque tutto facendo meno che rivendicare la propria autonomia politica rispetto al partito. Autonomia peraltro impossibile, perché materialmente impraticabile allorché non sia sostanzialmente simulata.

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