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Quando Tito era trotskista Per Stalin e Togliatti

Publie le sabato 2 agosto 2008 par Open-Publishing

"Il dito sulla piaga", un libro di Maurizio Zuccari sulla rottura tra Mosca e Belgrado

Quando Tito era trotskista Per Stalin e Togliatti

di Antonio Moscato

La prima grande crisi del sistema sorto intorno all’URSS di Stalin esplose nel 1948 con l’improvvisa esclusione della Jugoslavia dal Cominform, con grande stupore di Tito e la conseguente trasformazione in scisma di quella che doveva essere una scomunica. Il titolo del libro di Maurizio Zuccari, Il dito sulla piaga , ("Togliatti e il Pci nella rottura tra Stalin e Tito. 1944-1957", Mursia, 2008) allude alla famosa frase di Stalin che pensava di poter schiacciare col suo dito mignolo un’eventuale resistenza alla condanna, e si trovò spiazzato dal "monolitismo" del gruppo dirigente jugoslavo.

Ci si potrebbe interrogare sulla necessità di un libro di questa mole (oltre 600 pagine) su un tema già trattato più volte esaurientemente (ad esempio dallo storico sloveno Joze Pirjevec, che ha scritto l’introduzione), ma il dubbio viene rapidamente rimosso dalla lettura: Zuccari porta elementi nuovi confrontando le vicende già note con nuovi documenti (in parte riportati in appendice) trovati nel prezioso Archivio del Pci, e anche con le prese di posizione antijugoslave pubblicate sulla stampa o pronunciate nello stesso parlamento.

Tra l’altro il libro ricostruisce bene i conflitti che misero in difficoltà il Pci triestino e del Friuli-Venezia Giulia, lacerato già nel 1945 tra l’attrazione per l’efficienza e la radicalità dell’armata jugoslava, e la repulsione per il modo brutale e sciovinista con cui veniva affrontata la delicata questione nazionale in una zona di confine in cui l’intreccio tra le etnie era spesso inestricabile.

Ma al di là di quei primi conflitti, e dalle oscillazioni del partito in rapporto ai pronunciamenti sovietici sull’attribuzione di Trieste, che costarono già in prestigio e in voti, soprattutto nelle zone in cui si concentrarono dalmati e istriani in fuga dalle terre in cui vivevano da secoli, il libro ricostruisce bene lo zelo con cui il maresciallo Tito, prima esaltato come il più efficace concretizzatore della politica di Stalin nei Balcani, viene additato come trotskista e poi direttamente come fascista, anzi come collaboratore del nazismo. Solo pochissimi dei tanti militanti comunisti che avevano combattuto nella resistenza jugoslava osarono differenziarsi e furono bersagliati a loro volta da accuse infamanti.

Emerge così l’inconsistenza della tesi che retrodata le differenziazioni di Togliatti dallo stalinismo. Anzi appare chiara la sintonia profonda tra Togliatti e Stalin, che sola può spiegare un dato che era sfuggito alla maggior parte degli storici, ad eccezione di Renzo Martinelli: già nell’agosto 1945 Togliatti aveva fatto in una riunione di direzione un accenno a un "pericolo di guerra tra Jugoslavia e Russia", che appariva sorprendente e inesplicabile quasi tre anni prima della scomunica del giugno 1948, e che passò quasi inosservato.

Evidentemente Togliatti era al corrente dell’irritazione di Stalin nei confronti delle proteste jugoslave per il comportamento delle truppe sovietiche (che avevano stuprato migliaia di donne durante il breve passaggio in territorio serbo per arrivare a Budapest), e delle frizioni createsi per il rifiuto delle società di navigazione e commercio miste a maggioranza sovietica, accettate da tutte le "democrazie popolari" ma non da Belgrado. Evidentemente diciotto anni al fianco di Stalin gli avevano insegnato che una insubordinazione anche piccola non poteva essere perdonata.

Il libro ricostruisce bene, ed è un altro dei suoi meriti, il contesto in cui la condanna - rimasta inefficace in Jugoslavia - venne ribadita con i processi ai presunti "titoisti" a Praga, Budapest, Bucarest, Sofia, ecc., tutti commentati con penoso zelo sulla stampa del Pci. Molto interessante la ricostruzione della caccia ai presunti "trotskisti" e "titoisti", sui quali venivano vomitate menzogne inverosimili, al punto che perfino il suocero (che era anche deputato socialista) del principale di essi, Valdo Magnani, interruppe ogni rapporto col genero.

Anche il padre di Magnani, socialista, venne messe al bando nel suo stesso partito, allora allineatissimo. Ma è ancor più significativo il panico che colpì i dirigenti del Pci quando ricevettero in via riservata la notizia del riavvicinamento sovietico mesi prima del viaggio di Chrusciov a Canossa (cioè Belgrado). Notizia che non misero in circolazione per parecchio tempo, lasciando che i quadri locali triestini e friulani continuassero le polemiche fino al momento dell’annuncio.

L’orientamento dei poveri militanti sballottati veniva assicurato da parziali successive ammissioni sulla "giustezza" delle risoluzioni del Cominform, pur ammettendo alcune "eccezioni", mentre venivano messi a tacere coloro che erano stati liberati, sia pur tardivamente, dalle prigioni di Tito, dove erano finiti nel quadro di missioni decise a Botteghe oscure. E’ il caso, tra gli altri, di Adriano dal Pont, che ha fornito all’autore documenti e amare testimonianze.

Quegli anni sono ricostruiti nel libro a tutto tondo, fornendo in densissime note una documentazione preziosa, e a volte maliziosa: Zuccari sottolinea spesso le cantonate di quegli ottusi emissari del Pci, come Roasio e Montagnana, che tornano da Budapest assicurando (pochi giorni prima dell’insurrezione popolare!) che «il compagno Rakosi continua ad essere amato e rispettato»; ma non esclude dalla rassegna degli orrori futuri dissidenti come la Rossanda, per le corresponsabilità nelle menzogne e nei silenzi.

Alcuni testi riportati integralmente nel libro, come la dettagliatissima "informazione riservata" fornita dal Pcus ai dirigenti dei principali partiti comunisti sullo stato delle trattative sovietico-jugoslave del giugno 1956, sono illuminanti. Una casistica degna della peggiore chiesa della controriforma prepara alla somministrazione di alcune verità in piccole dosi, in base a scelte tattiche.

A chi cerca di trovare ragioni alla catastrofe attuale delle sinistre moderate e "radicali" può essere utile risalire a quelle lontane vicende, in cui si consolidava il sistema della doppia o della mezza verità, in sostanza l’inganno sistematico della propria base, a cui venivano additati i capri espiatori di turno, a volte insinuando, a volte asserendo categoricamente, che agivano per conto del nemico di classe.