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Quanti altri morti, per sentirvi cittadini di Gaza? di Mustafà Barghouti
Publie le lunedì 29 dicembre 2008 par Open-Publishing2 commenti
E leggerò domani, sui vostri giornali, che a Gaza è finita la tregua. Non era un assedio dunque, ma una forma di pace, quel campo di concentramento falciato dalla fame e dalla sete. E da cosa dipende la differenza tra la pace e la guerra? Dalla ragioneria dei morti? E i bambini consumati dalla malnutrizione, a quale conto si addebitano? Muore di guerra o di pace, chi muore perché manca l’elettricità in sala operatoria? Si chiama pace quando mancano i missili - ma come si chiama, quando manca tutto il resto?
E leggerò sui vostri giornali, domani, che tutto questo è solo un attacco preventivo, solo legittimo, inviolabile diritto di autodifesa. La quarta potenza militare al mondo, i suoi muscoli nucleari contro razzi di latta, e cartapesta e disperazione. E mi sarà precisato naturalmente, che no, questo non è un attacco contro i civili - e d’altra parte, ma come potrebbe mai esserlo, se tre uomini che chiacchierano di Palestina, qui all’angolo della strada, sono per le leggi israeliane un nucleo di resistenza, e dunque un gruppo illegale, una forza combattente? - se nei documenti ufficiali siamo marchiati come entità nemica, e senza più il minimo argine etico, il cancro di Israele? Se l’obiettivo è sradicare Hamas - tutto questo rafforza Hamas.
Arrivate a bordo dei caccia a esportare la retorica della democrazia, a bordo dei caccia tornate poi a strangolare l’esercizio della democrazia - ma quale altra opzione rimane? Non lasciate che vi esploda addosso improvvisa. Non è il fondamentalismo, a essere bombardato in questo momento, ma tutto quello che qui si oppone al fondamentalismo. Tutto quello che a questa ferocia indistinta non restituisce gratuito un odio uguale e contrario, ma una parola scalza di dialogo, la lucidità di ragionare il coraggio di disertare - non è un attacco contro il terrorismo, questo, ma contro l’altra Palestina, terza e diversa, mentre schiva missili stretta tra la complicità di Fatah e la miopia di Hamas. Stava per assassinarmi per autodifesa, ho dovuto assassinarlo per autodifesa - la racconteranno così, un giorno i sopravvissuti.
E leggerò sui vostri giornali, domani, che è impossibile qualsiasi processo di pace, gli israeliani, purtroppo, non hanno qualcuno con cui parlare. E effettivamente - e ma come potrebbero mai averlo, trincerati dietro otto metri di cemento di Muro? E soprattutto - perché mai dovrebbero averlo, se la Road Map è solo l’ennesima arma di distrazione di massa per l’opinione pubblica internazionale? Quattro pagine in cui a noi per esempio, si chiede di fermare gli attacchi terroristici, e in cambio, si dice, Israele non intraprenderà alcuna azione che possa minare la fiducia tra le parti, come - testuale - gli attacchi contro i civili.
Assassinare civili non mina la fiducia, mina il diritto, è un crimine di guerra non una questione di cortesia. E se Annapolis è un processo di pace, mentre l’unica mappa che procede sono qui intanto le terre confiscate, gli ulivi spianati le case demolite, gli insediamenti allargati - perché allora non è processo di pace la proposta saudita? La fine dell’occupazione, in cambio del riconoscimento da parte di tutti gli stati arabi. Possiamo avere se non altro un segno di reazione? Qualcuno, lì, per caso ascolta, dall’altro lato del Muro?
Ma sto qui a raccontarvi vento. Perché leggerò solo un rigo domani, sui vostri giornali e solo domani, poi leggerò solo, ancora, l’indifferenza. Ed è solo questo che sento, mentre gli F16 sorvolano la mia solitudine, verso centinaia di danni collaterali che io conosco nome a nome, vita a vita - solo una vertigine di infinito abbandono e smarrimento. Europei, americani e anche gli arabi - perché dove è finita la sovranità egiziana, al varco di Rafah, la morale egiziana, al sigillo di Rafah? - siamo semplicemente soli. Sfilate qui, delegazione dopo delegazione - e parlando, avrebbe detto Garcia Lorca, le parole restano nell’aria, come sugheri sull’acqua.
Offrite aiuti umanitari, ma non siamo mendicanti, vogliamo dignità libertà, frontiere aperte, non chiediamo favori, rivendichiamo diritti. E invece arrivate, indignati e partecipi, domandate cosa potete fare per noi. Una scuola? Una clinica forse? Delle borse di studio? E tentiamo ogni volta di convincervi - no, non la generosa solidarietà, insegnava Bobbio, solo la severa giustizia - sanzioni, sanzioni contro Israele. Ma rispondete - e neutrali ogni volta, e dunque partecipi dello squilibrio, partigiani dei vincitori - no, sarebbe antisemita. Ma chi è più antisemita, chi ha viziato Israele passo a passo per sessant’anni, fino a sfigurarlo nel paese più pericoloso al mondo per gli ebrei, o chi lo avverte che un Muro marca un ghetto da entrambi i lati?
Rileggere Hannah Arendt è forse antisemita, oggi che siamo noi palestinesi la sua schiuma della terra, è antisemita tornare a illuminare le sue pagine sul potere e la violenza, sull’ultima razza soggetta al colonialismo britannico, che sarebbero stati infine gli inglesi stessi? No, non è antisemitismo, ma l’esatto opposto, sostenere i tanti israeliani che tentano di scampare a una nakbah chiamata sionismo. Perché non è un attacco contro il terrorismo, questo, ma contro l’altro Israele, terzo e diverso, mentre schiva il pensiero unico stretto tra la complicità della sinistra e la miopia della destra.
So quello che leggerò, domani, sui vostri giornali. Ma nessuna autodifesa, nessuna esigenza di sicurezza. Tutto questo si chiama solo apartheid - e genocidio. Perché non importa che le politiche israeliane, tecnicamente, calzino oppure no al millimetro le definizioni delicatamente cesellate dal diritto internazionale, il suo aristocratico formalismo, la sua pretesa oggettività non sono che l’ennesimo collateralismo, qui, che asseconda e moltiplica la forza dei vincitori. La benzina di questi aerei è la vostra neutralità, è il vostro silenzio, il suono di queste esplosioni. Qualcuno si sentì berlinese, davanti a un altro Muro. Quanti altri morti, per sentirvi cittadini di Gaza?
(testo raccolto da Francesca Borri)
Messaggi
1. Quanti altri morti, per sentirvi cittadini di Gaza? di Mustafà Barghouti, 29 dicembre 2008, 12:30
Buongiorno "lottacontinua"
per la prossima volta per piacere pubblicare il testo completo...
Bellaciao
1. Quanti altri morti, per sentirvi cittadini di Gaza? di Mustafà Barghouti, 29 dicembre 2008, 14:43
LA STORIA
Gaza, l’inferno nella scuola
quei sogni spezzati degli studenti
Otto morti dopo il raid al "Training Center" dell’Onu
dal nostro inviato FRANCESCA CAFERRI
DIVENTARE falegname, aiuto farmacista, tecnico dell’elettricità. Avevano sogni forse piccoli ma reali, gli otto ragazzi che sono morti sabato durante uno dei primi raid israeliani su Gaza.
Come migliaia di coetanei erano a scuola, un istituto professionale gestito dalle Nazioni Unite, quando sono cadute le prime bombe. Terrorizzati, sono fuggiti dall’edificio, solo per essere colpiti nel cortile, che dista 200 metri dall’edificio dove ha sede il governo di Hamas, obiettivo dell’attacco. Altri venti loro compagni sono stati feriti: alcuni sono in gravi condizioni.
La storia dei ragazzi del Gaza Training Center è diventata uno dei simboli della tragedia che si vive nella Striscia. "Avevano tutti 17 o 18 anni - racconta Sami Mshasha, funzionario dell’Unrwa, l’agenzia Onu che si occupa dei palestinesi e che gestisce l’istituto - erano lì per imparare un mestiere, per non restare in strada. La fine che hanno fatto è orribile".
Quando la bomba ha colpito la scuola molti studenti sono riusciti a ripararsi: per quelli più vicini al palazzo del governo però non c’è stato scampo: "Le nostre guardie hanno cercato di tirarli fuori, ma era impossibile - prosegue il funzionario - è stato difficile anche far arrivare le ambulanze in quel caos. C’erano genitori che urlavano, altri che arrivavano di corsa a cercare i loro ragazzi. Abbiamo chiesto ufficialmente che il governo israeliano apra un’inchiesta, perché questo per noi dimostra che l’operazione non è stata affatto chirurgica come dicono. Ma oggi non possiamo evitare di farci delle domande: forse avremmo dovuto tenere le scuole chiuse quel giorno. C’era molta tensione. Magari abbiamo sbagliato noi. Ed ora è troppo tardi".
I dubbi di Mshasha sono condivisi da molti, nella Striscia: quando gli attacchi israeliani sono cominciati, sabato mattina, molte scuole erano nel pieno delle lezioni. In quelle con il doppio turno la prima rotazione stava terminando e la seconda iniziando. Per questo le bombe hanno sorpreso tanti bambini fuori casa o nelle aule, e tanti genitori in strada mentre correvano per andare a prendere i figli. Sul quotidiano Haaretz Hamira Hass, la giornalista israeliana che meglio conosce Gaza, ha raccontato ieri le storie di padri e madri stretti fra l’angoscia per i bombardamenti e quella per il destino dei figli. "Sono arrivato alla scuola di mia figlia e mi sono trovato di fronte centinaia di ragazzine che scappavano urlando. Ero il primo adulto che arrivava lì. Si sono strette intorno a me piangendo", le dice un genitore, Abu Muhammad. La maestra, Umm Salah, racconta come abbia dovuto portare soccorso ai bambini della sua classe feriti dai vetri rotti. Solo dopo è potuta correre alla ricerca dei suoi figli: "Alcuni dei miei alunni hanno iniziato a piangere. Altri sono rimasti in silenzio, paralizzati".
Uno dei figli dell’insegnante era in strada quando la madre l’ha trovato. Il maggiore si era già rifugiato a casa, accolto da una nonna terrorizzata. "Ho pensato di accendere la tv per calmarli, ma poi ho visto le immagini. L’ho spenta e li ho mandati a fare i compiti".
Mshasha teme che ricordi come questi segneranno in maniera indelebile gli allievi non soltanto dell’istituto professionale Unrwa, ma anche delle altre scuole. "Negli ultimi mesi abbiamo riscontrato un tasso di attenzione molto minore. I ragazzi arrivavano a scuola affamati, perché a casa non c’era nulla da mangiare. O depressi, perché non vedevano futuro e capivano che anche i genitori non possono far nulla per loro.
Abbiamo riattivato le mense, e creato servizi di assistenza psicologica. Ma di fronte a una strage così, o di fronte alla morte dei tuoi compagni di banco con che spirito potranno tornare?".
Una domanda che riguarda migliaia di allievi. L’Unrwa gestisce il principale sistema educativo di Gaza: 200mila studenti, 9000 insegnanti e 240 edifici scolastici su cui si basa di fatto l’accesso all’istruzione di un’intera generazione di bambini e ragazzi palestinesi. "Spero che torneranno. Anche perché non hanno altro", conclude il funzionario.
29 dicembre 2008 da "La Repubblica"
http://www.repubblica.it/2008/11/sezioni/esteri/medio-oriente-43/otto-ragazzi/otto-ragazzi.html