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Quel «servizio civile» che divide gli arabi

Publie le giovedì 3 luglio 2008 par Open-Publishing

Quel «servizio civile» che divide gli arabi

di Michele Giorgio

In bilico tra difesa identitaria e integrazione nello Stato, i palestinesi rivendicano i loro diritti. E ad Haifa ebrei e arabi studiano i modelli di convivenza del futuro che divide gli arabi I contestatori: «Prima vogliamo l’uguaglianza» Ma il progetto del governo trova consensi tra le donne

Oltre due terzi degli «arabi israeliani», i palestinesi con cittadinanza israeliana, preferiscono vivere in Israele e non lo cambierebbero con altri stati. Non pochi palestinesi, commentando i risultati del recente studio dell’Università di Harvard, non hanno potuto fare a meno di sorridere. «È la solita storia - commenta l’opinionista Omar Barghuti, una delle penne più taglienti dell’intellighenzia palestinese -: i risultati questi sondaggi fanno subito il giro del mondo ingannando l’opinione pubblica».

È ovvio, spiega Barghuti, «che un palestinese non voglia cambiare Israele con nessun altro paese, perché è la sua terra, perché è la storica Palestina dove sono le sue radici e dove la sua famiglia ha vissuto per secoli. Ciò non significa che sono felici della politica attuata dallo Stato nei loro confronti, anzi la criticano duramente». Una lettura più approfondita dell’indagine in effetti conferma le considerazioni dell’intellettuale palestinese. L’84% degli arabi israeliani, ad esempio, pensa che il governo debba investire in modo ingente per mettere fine al gap, a tutti i livelli, tra la minoranza araba e la maggioranza ebraica, e alle discriminazioni, sottili o palesi, alle quali i cittadini palestinesi sono soggetti.

La ricerca dell’Università di Harvard giunge in una fase delicata del dibattito interno ai palestinesi in Israele. Integrazione oppure difesa dell’identità nazionale, rimane il dilemma sul quale la società civile araba israeliana continua a discutere e a spaccarsi. Per i fautori dell’integrazione, un gruppo esiguo, solo un affievolimento del nazionalismo e una maggiore collaborazione con la maggioranza ebraica potrà allentare il pregiudizio dello Stato verso una minoranza che, in quanto araba, si sente più parte della nazione palestinese che una componente della popolazione di Israele.

Per i nazionalisti più accesi, al contrario, una maggiore integrazione sarebbe una scelta in ogni caso inutile poiché, affermano, uno Stato che è nato per accogliere e privilegiare gli ebrei non potrà mai garantire una piena uguaglianza, nei diritti e nell’accesso alle risorse, ai non ebrei. Nel frattempo cresce d’intensità la discussione sul superamento dello Stato sionista ebraico e la creazione di uno Stato unico e democratico, per ebrei e palestinesi, in tutta la Palestina storica, inclusi i Territori occupati.
Il tema è stato ampiamente discusso una settimana fa durante una conferenza al Teatro Midan di Haifa, dove si sono riuniti alcuni dei più noti teorici palestinesi ed ebrei di questa soluzione.

«Quella dello Stato unico è una idea che penetra maggiormente la popolazione palestinese e molto meno quella ebraica che si oppone al superamento dello Stato sionista - dice Omar Barghuti - sappiamo che è un progetto a lungo termine ma è l’unica possibilità d’impedire che, attraverso il piano dei due Stati per i due popoli, si instauri in realtà un sistema compiuto e riconosciuto di apartheid a danno dei palestinesi». Secondo Barghuti il rapporto tra i due Stati sarebbe inevitabilmente squilibrato a favore della parte più forte, Israele, e costringerebbe i palestinesi a vivere in «bantustan» del terzo millennio, simili a quelli del Sudafrica della segregazione razziale.

Su di un punto tutti gli arabi israeliani sono d’accordo: non è possibile andare avanti così. «Il problema è che da parte dello Stato non arrivano soluzioni che favoriscono lo sviluppo delle minoranze non ebraiche - si lamenta l’ attivista di Haifa Nadim Nashef -. Ci troviamo di fronte solo a tentativi di svuotare della loro identità nazionale i palestinesi (in Israele), in modo da rendere sempre più israeliani i cittadini arabi e strapparli alle loro origini». Nashef è il responsabile di Baladna, un’associazione che si occupa del sostegno ai giovani arabi israeliani e che di recente è diventata punto di riferimento della battaglia che l’elite politica palestinese in Israele sta conducendo contro il progetto di «Servizio nazionale» lanciato dallo Stato.

Si tratta di un programma che prevede una sorta di «servizio civile» per i palestinesi con cittadinanza israeliana - i giovani tra i 18 e i 21 anni vengono sollecitati a prestare servizio volontario in scuole, ospedali e servizi pubblici per un anno o due - e che i suoi oppositori considerano invece un percorso che, tra qualche anno, porterà al servizio militare obbligatorio dal quale, sin dalla fondazione dello Stato di Israele, gli arabi israeliani sono esenti (ad eccezione di quelli drusi, mentre circassi e beduini possono offrirsi come volontari).

«Non siamo contrari al fatto che un giovane possa, all’interno della sua comunità, svolgere attività socialmente utili, ma ciò non deve essere la strada obbligata per l’ottenimento di certi diritti e benefici che lo Stato dovrebbe in ogni caso garantire ai suoi cittadini, ebrei e arabi, senza eccezioni», dice Nashef. «E poi - aggiunge il direttore di Baladna - il fatto che tutti i responsabili di questo servizio nazionale provengano dai servizi segreti non può non generare sospetti». Baladna da qualche settimana ha avviato, tra la diffidenza delle autorità di governo e il sostegno di quasi tutti i deputati arabi, una campagna in Galilea di «chiarimento» sul servizio nazionale. «Noi non partiamo dall’idea che un arabo che aderirà a questo programma statale sia un traditore - afferma Manar Yacoub, responsabile della campagna di Baladna -: cerchiamo semplicemente di mettere le persone di fronte a dati di fatto. Alla gente chiediamo che cosa drusi e beduini hanno ottenuto sino ad oggi in cambio della loro partecipazione al servizio militare. Tutti sanno che un arabo che fa il militare comunque otterrà molto meno rispetto a un cittadino ebreo. Ne vale la pena?».

Per il professor Sami Smooha, preside della Facoltà di Scienze Sociali dell’Università di Haifa, Baladna e i leader politici arabi sarebbero piuttosto lontani dalle tendenze e dal sentire della loro comunità. «In realtà tra i giovani arabi c’è un forte sostegno a questo programma di servizio nazionale. Il 70% è favorevole», dice citando un sondaggio recente. Smooha sottolinea che il sostegno giunge soprattutto dalle donne che, nel programma dello Stato, individua una strada per sottrarsi al controllo delle famiglie e delle loro comunità.

Una deputata araba israeliana Nadia Hilu (laburista) aggiunge da parte sua di non vedere pericoli «assimilazione» ed esorta «a dare maggior fiducia ai giovani arabi». I leader arabi vedono le cose in modo molto diverso. Secondo Nadim Nashef il problema «è sempre lo stesso. Lo Stato dovrebbe riconoscerci come minoranza nazionale e farci gestire le nostre comunità, con la partecipazione proprio dei più giovani». Purtroppo, conclude, «gli obiettivi finali del servizio nazionale sono palesemente ben diversi dai nostri bisogni: uguaglianza, parità di accesso alle risorse e pieno riconoscimento».

su Il Manifesto del 01/07/2008