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Questa è una storia di espansionismo statunitense, più che di aggressione russa
Publie le venerdì 29 agosto 2008 par Open-PublishingLa guerra nel Caucaso è il prodotto dell’imperialismo americano e non
solo di conflitti locali, ed è probabile che sia solo un assaggio di
eventi futuri
Questa è una storia di espansionismo statunitense, più che di
aggressione russa
AUTORE: Seumas MILNE
Tradotto da Manuela Vittorelli
L’esito di sei lugubri e sanguinari giorni di guerra nel Caucaso ha
innescato la nauseante ipocrisia dei politici occidentali e dei mezzi
di informazione a essi asserviti. Mentre i commentatori tuonavano
contro l’imperialismo russo e la brutale sproporzione della reazione,
il vice presidente degli Stati Uniti Dick Cheney, fedelmente
riecheggiato da Gordon Brown e David Miliband, ha dichiarato che
"l’aggressione russa non deve rimanere senza risposta". George Bush ha
denunciato la Russia per avere "invaso un vicino stato sovrano" e
minacciato "un governo democratico". Una tale azione, ha insistito,
"nel XXI secolo è inaccettabile".
Questi sono per caso i capi degli stessi governi che nel 2003 hanno
invaso e occupato - insieme alla Georgia, guarda caso - lo stato
sovrano dell’Iraq con un falso pretesto causando centinaia di migliaia
di vittime? O dei due governi che nell’estate del 2006 hanno bloccato
un cessate il fuoco mentre Israele polverizzava le infrastrutture del
Libano e uccideva più di mille civili come rappresaglia per la cattura
o l’uccisione di cinque soldati?
Dopo tutta questa indignazione per l’aggressione russa quasi si fatica
a ricordare che è stata la Georgia a scatenare la guerra giovedì
scorso attaccando brutalmente l’Ossezia del Sud per "ristabilire
l’ordine costituzionale", in altre parole il dominio su un’area che
non ha mai controllato dal crollo dell’Unione Sovietica. Né, in mezzo
a tutto questo sdegno per i bombardamenti russi, c’è stato qualcosa di
più di brevi riferimenti alle atrocità commesse dalle forze georgiane
contro gli abitanti della capitale Tskhinvali. Diverse centinaia di
civili sono stati uccisi a Tskhinvali dalle truppe georgiane. Tra le
vittime ci sono anche alcuni soldati russi che operavano in base a un
accordo di pace risalente agli anni Novanta. "Ho visto un soldato
georgiano tirare una granata in un seminterrato pieno di donne e
bambini", ha raccontato martedì ai giornalisti un abitante di
Tskhinvali, Saramat Tskhovredov.
Sarà forse perché la Georgia è quella che Jim Murphy, il ministro
britannico per gli Affari Europei, ha chiamato "una piccola bella
democrazia". Be’, sarà certo piccola e bella, ma sia l’attuale
presidente, Mikheil Saakashvili, che il suo predecessore sono saliti
al potere in seguito a colpi di stato appoggiati dall’Occidente, il
più recente dei quali è stato graziosamente chiamato "Rivoluzione
delle rose". Saakashvili è stato allora consacrato presidente con il
96% dei voti prima di instaurare quello che l’International Crisis
Group ha di recente definito un governo "sempre più autoritario" e che
lo scorso novembre ha brutalmente represso l’opposizione, il dissenso
e i media indipendenti. In questi casi "democratico" sembra
semplicemente voler dire "filo-occidentale".
La disputa di vecchia data sull’Ossezia del Sud - e sull’Abchazia,
l’altra regione contestata della Georgia - è una conseguenza
inevitabile del crollo dell’Unione Sovietica. Come nel caso della
Jugoslavia, minoranze che erano più o meno soddisfatte di vivere da
una parte o dall’altra di un confine interno, la cui presenza non
influiva molto sulle loro vite, si sono sentite ben diversamente
quando si sono trovate dalla parte sbagliata di un confine tra due
nazioni.
Negoziare una soluzione per problemi di questo tipo è già difficile in
qualsiasi circostanza. Ma aggiungeteci gli Stati Uniti, la loro
instancabile promozione della Georgia come avamposto filo-occidentale
e anti-russo nella regione, i loro sforzi per portare la Georgia nella
NATO, il passaggio attraverso il territorio georgiano di un oleodotto
cruciale e mirato a indebolire il controllo russo delle forniture
energetiche. Aggiungeteci il riconoscimento, sponsorizzato dagli Stati
Uniti, dell’indipendenza del Kosovo - il cui status era stato
esplicitamente associato dalla Russia a quello dell’Ossezia del Sud e
dell’Abchazia. Aggiungete tutto questo e capirete che il conflitto era
solo questione di tempo.
Il coinvolgimento della CIA in Georgia è stato forte fin dai tempi del
crollo sovietico. Ma con l’amministrazione Bush il paese è diventato a
tutti gli effetti un satellite degli Stati Uniti. Le forze armate
georgiane sono equipaggiate e addestrate dagli Stati Uniti e Israele.
Quello georgiano è per consistenza il terzo contingente militare in
Iraq: di qui la necessità che gli aerei degli Stati Uniti riportassero
800 soldati georgiani in patria per combattere contro i russi. I
legami di Saakashvili con i neo-conservatori di Washington sono
particolarmente stretti: la società di lobbying presieduta dal
consigliere per la politica estera del candidato repubblicano John
McCain, Randy Scheunemann, ha ricevuto quasi 900.000 dollari dal
governo georgiano a partire dal 2004.
Ma sotto il conflitto della scorsa settimana c’era anche la più ampia
ed esplicita intenzione dell’amministrazione Bush di imporre
l’egemonia globale degli Stati Uniti e prevenire minacce regionali,
soprattutto quelle rappresentate da una Russia in ripresa. Questo
obiettivo era stato espresso per la prima volta quando Cheney era
segretario della difesa sotto Bush padre, ma il suo vero impatto si è
sentito solo quando la Russia ha cominciato a riprendersi dalla
disintegrazione degli anni Novanta.
Nell’ultimo decennio l’inarrestabile espansione verso est della NATO
ha portato l’alleanza militare occidentale a premere contro i confini
della Russia e a penetrare nell’ex-territorio sovietico. Nell’Europa
Orientale e nell’Asia Centrale sono apparse basi militari americane e
gli Stati Uniti hanno contribuito a instaurare un governo anti-russo
dopo l’altro per mezzo di una serie di rivoluzioni colorate. Adesso
l’amministrazione Bush si prepara a installare nell’Europa dell’Est un
sistema di difesa anti-missile palesemente puntato contro la Russia.
La riflessione e il buon senso ci dicono che questa non è la storia di
un’aggressione russa, ma dell’espansione imperialista degli Stati
Uniti e di un accerchiamento sempre più accentuato della Russia da
parte di una forza potenzialmente ostile. Non dovrebbe sorprendere che
una Russia divenuta più forte abbia usato il pasticcio dell’Ossezia
per limitare quell’espansione. Più difficile da capire è perché
Saakashvili abbia lanciato l’attacco della scorsa settimana e perché i
suoi amici di Washington lo abbiano incoraggiato.
Se è così, le conseguenze sono state spettacolari, con un costo umano
altissimo. E malgrado Bush mercoledì abbia tentato di esprimersi con
fermezza, la guerra ha anche smascherato i limiti del potere
statunitense nella regione. Finché viene rispettata l’indipendenza
della Georgia - e qui l’opzione migliore è quella della neutralità -
non dovrebbe essere un male. Il dominio unipolare del mondo ha
ristretto lo spazio della vera auto-determinazione, e il ritorno di un
qualche contrappeso va accolto favorevolmente. Ma il nuovo assetto
porta con sé dei pericoli. Se la Georgia fosse stata membro della NATO
il conflitto di questa settimana avrebbe rischiato un’escalation ben
più grave. Lo si vedrebbe bene nel caso dell’Ucraina, che ieri ha
offerto materiale per un futuro scontro quando il suo presidente filo-
occidentale ha minacciato di limitare il movimento delle navi russe
nella base di Sebastopoli, in Crimea. Con il ritorno dei conflitti tra
le grandi potenze, l’Ossezia del Sud è probabilmente solo un assaggio
di ciò che verrà.
Originale da: http://www.guardian.co.uk/commentisfree/2008/aug/14/russia.georgia/print
Articolo originale pubblicato il 14 agosto 2008
L’autore
Manuela Vittorelli è membro di Tlaxcala, la rete di traduttori per la
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