Home > RAMZI, IL VIOLINISTA DELLE PIETRE
Gli occhi di Ramzi sorridono e nelle mani l’archetto della viola passa veloce. Vent’anni fa ad Al Amari, campo profughi prossimo a Ramallah, i piccoli occhi si stringevano e le mani lanciavano pietre più grandi di lui. A otto anni Ramzi divenne il ‘comandante delle pietre’ in quella che rimase celebre come la Prima Intifada. Non poteva far altro, un amico, un altro bambino, gli era caduto al fianco colpito alla testa da una pallottola sparata da una jeep dell’esercito israeliano. Sangue, disperazione, rabbia scatenate da chi toglieva la vita e gli affetti. Negli anni Ramzi Aburedwan perde il padre e un fratello, uccisi dalla repressione israeliana nella terra degli avi che si chiamava Palestina e che ora il mondo che decide le sorti dei popoli definisce Cisgiordania o semplicemente Territori Occupati. Nei brandelli di patria tenuti insieme dalla voglia di esistere, di essere popolo i piccoli Ramzi per anni non hanno potuto far altro che tirar pietre e appena cresciuti colpi di kalashnikov o razzi katiuscia o farsi saltare in aria come kamikaze.
’’Non si nasce terroristi – afferma Ramzi – si nasce bambini e si diventa uomini. Nel mio villaggio ho conosciuto muratori, contadini, panettieri, insegnanti e ho visto soldati, tanti soldati che uccidono e ti rendono impossibile la vita. Per questo scoppiava l’Intifada, ci soffocavano l’esistenza anche nei campi profughi. Ci hanno costretto a combattere con qualsiasi arma’’. Già a quattro anni era conosciuto perché nonostante il fisico da pulcino trascinava un pacco di giornali e li vendeva. Poi l’episodio delle pietre, quella foto che l’immortala e gira dappertutto. Poteva diventare un combattete come tanti suoi fratelli di sangue che hanno lasciato la vita per difendere la dignità e la ragione d’essere popolo, ma a un certo punto le sue mani hanno afferrato un violino. Fu per caso: a diciassette anni una ragazza lo fece incontrare con un professore di musica che offrì un’altra voce all’inno alla vita suonato dal ‘comandante delle pietre’. In collaborazione col Conservatorio di Ramallah il professor Fadel iniziò un lavoro per avviare alla musica un gruppo di bambini e adolescenti. Ramzi era fra loro.
Innate doti lo portarono in breve tempo a eccellenti risultati, cui seguì un perfezionamento al Conservatorio francese di Angers. Quindi François Hetsch, professore di quello strumento a Parigi e Angers, lo selezionò per una borsa di studio. Dal settembre 2005 Ramzi insegna viola al Conservatorio di Ramallah e ha creato insieme ad altri strumentisti il centro Al Kamandjâti - in arabo il violinista - che raccoglie quattrocento bambini. E altri nuclei musicali stanno nascendo a Jenin, Hebron, Nablus dove gl’insegnanti si recano superando il calvario quotidiano dei chek-point in cui i palestinesi vengono ammassati, umiliati, derisi da ventenni irreggimentati nella divisa con la stella di David. La storia di Ramzi può essere la metafora della trasformazione d’un popolo schiacciato ma mai vinto, capace di rigenerarsi e rilanciare una resistenza che è pura energia esistenziale. Come gli ulivi delle proprie terre, che gli israeliani sradicano per fare spazio al Muro e mortificare i proprietari, indomabili i palestinesi gettano nuovi germogli. Continuamente. Perpetuandosi.
’’La cultura rappresenta un invidiabile strumento identitario proprio per chi non ha più nulla, a volte neppure la casa, distrutta sotto i propri occhi’’ dichiara il violinista impegnato all’Auditorium di Roma nello spettacolo che porta il nome della scuola, splendido mix musicale, narrativo e documentario in cartellone stasera e domani con le voci narranti di Amira Hass, Mohammad Bakri (il protagonista del film ‘Private’), Moni Ovadia e la regia video di Marco Dinoi.
“Noi dobbiamo proteggere la cultura e la memoria per poter continuare a esistere. L’apprendimento della musica per i bambini, io ne sono una testimonianza diretta, rappresenta una via d’uscita a condizioni in alcuni casi terribili. La nostra scuola offre la possibilità di scoprire un’eredità culturale e di esplorarne personali potenzialità creative. Non è facile ricevere sostegni. Molti artisti palestinesi - che la diaspora successiva al 1948 ha sparso in Medio Oriente, Europa, Stati Uniti - ci sostengono però a volte tanti connazionali pensano solo a fattori materiali. Io dico che mangiare è importante ma la cultura lo è di più perché nutrendo il cervello aiutiamo anche i nostri stomaci. E poi ci si deve arrangiare. Ricordo quando per comperare la mia viola dovetti vendere il televisore. Una privazione minima, alla quale ho potuto sopperire. Col mio strumento sono riuscito a fare tanto, a insegnare, a nutrire cervelli e col lavoro son riuscito a ricomprarmi una nuova tivù”.
“La cultura riesce a cementare la coscienza d’un popolo, è l’altra faccia della politica certamente la più nobile. Gli israeliani ci hanno rubato terre, case, auto possono ucciderci, non potranno rubarci l’anima”. Ramzi afferma che il bambino delle pietre vive in lui anche ora che insegna soltanto “Credo nell’unità della persona, me la sento dentro perciò non rinnego il passato e sono solidale verso le lotte che sostengono la nostra causa. Dico che questa può avere tante sfaccettature ed espressioni, il mezzo che ho scelto di utilizzare da anni sono le note. Posso manifestare il dolore per il popolo oppresso con una musica tragica piuttosto che con le pietre, anche se amo le arie gioiose e spero che queste risuoneranno presto nei paesi e villaggi martoriati. Perciò la nostra associazione s’impegna con le nuove generazioni, lo crediamo un grosso investimento per stabilire pace e giustizia in Palestina. La musica e altre espressioni artistiche - a Gaza ci sono tanti pittori - possono contribuire a facilitare l’incontro e la comprensione fra persone diverse, creando legami che diventano un ponte per l’affermazione di tolleranza e apertura al mondo”.
Enrico Campofreda, 30 novembre 2007 pubblicato su alternativ@mente.info