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RENATO VALLANZASCA SUL CASO BRUSCA
Publie le mercoledì 13 ottobre 2004 par Open-Publishing6 commenti
"Sono sdegnato per Brusca libero"
"Sono esausto e non ho più voglia di lottare, ma non perdo la speranza, che è l’unico conforto rimastomi, né la voglia di poter esprimere il mio sdegno di fronte a certe cose". Renato Vallanzasca, che sta scontando quattro ergastoli per altrettanti omicidi, commenta la decisione del Tribunale di sorveglianza di concedere permessi premio a Giovanni Brusca, ex boss della mafia ed oggi collaboratore di giustizia.
"Cerco una logica per tante cose - aggiunge Vallanzasca nella lettera inviata al giornalista Mario Campanella -. Io e Graziano Mesina siamo rinchiusi nel carcere di Voghera da una vita, mentre altri come il signor Brusca, che a differenza nostra si sono pentiti, anche se hanno ucciso bambini meritano addirittura i permessi premio. Ho accettato di pagare per rispetto delle persone cui ho fatto del male e non ho mai chiesto permessi: ho solo chiesto, inutilmente, di essere trasferito a Milano per curare i disturbi odontoiatrici di cui soffro e rivedere mia madre, che ha 87 anni e che non incontro dal 2001. Chi si pente dopo avere ucciso bambini di 12 anni può addirittura uscire dal carcere e penso che questo sia un problema da affrontare in Italia".
"Non sono in carcere per avere ucciso delle mosche - scrive Vallanzasca - ma persone e di questo sono consapevole. Ma so anche che 32 dei miei 54 anni li ho trascorsi in galera e che è inumano non concedere ad una persona il diritto di curarsi e di vedere la propria madre senza che questo comporti un giorno di sconto della pena".





Messaggi
1. > RENATO VALLANZASCA SUL CASO BRUSCA, 14 ottobre 2004, 15:22
renato vallanzasca e graziano mesina pagano, piu’ che i reati commessi, il loro "dialettizzarsi" con l’ antagonismo degli anni settanta e ottanta, fuori e dentro il carcere.
gia’ rappresentano due tipi di "criminalita" oggettivamente ribelle e non "di potere" come quella delle camorre e delle mafie.
poi, in carcere, hanno partecipato attivamente alle lotte dei detenuti contro le carceri speciali negli anni settanta ed ottanta e alle evasioni fatte insieme ad esponenti della lotta armata.
mesina ebbe rapporti sia con i Nap (coi quali evase dal carcere di lecce ) sia con esponenti separatisti e anarchici sardi.
vallanzasca ha pagato pesantemente, anche con una invalidita’ permanente, la scelta , durante un ’ evasione da s.vittore a milano, di fermarsi a soccorrere corrado alunni, di prima linea, ferito gravemente dalle pallottole dei carabinieri.
di loro si puo’ dire di tutto ma certo si tratta di personaggi assai diversi da un "animale" come giovanni brusca
1. > RENATO VALLANZASCA SUL CASO BRUSCA, 14 ottobre 2004, 17:26
Vallanzasca racconta l’ evasione da S. Vittore
by il fiore del male Thursday, Oct. 14, 2004 at 4:15 PM mail:
da Il fiore del male di Renato Vallanzasca e Carlo Bonini
Il piano (dell’evasione n.d.c) non era particolarmente complesso.
L’idea era quella di fare arrivare delle armi in carcere.
Il resto sarebbe venuto da solo. Per avere il necessario trovai senza eccessiva difficoltà un cavallo.
La guardia era disponibile.
C’era solo un problema.
A San Vittore, in quel periodo, c’era anche Gigi, Pierluigi Concutelli, coimputato nel processo Trapani per quei milioni che gli erano stati trovati in casa e che provenivano dal riscatto.
Non mancavano neppure un buon numero di brigatisti, con un nome per tutti: Corrado Alunni.
Senza contare che San Vittore, come e più di tutti i grandi carceri, è un porto di mare.
Quindi, in quei tre mesi, sempre per processo, arrivarono in sezione, per fermarsi più o meno a lungo, Turatello, Marco Medda, Mirabella....
Insomma, il gotha della mala milanese.
Di fatto, in carcere, erano un po’ in sbattimento.
Eravamo in troppi,pericolosi, tutti insieme.
Il cavallo mi disse che quello sarebbe stato il periodo meno adatto per introdurre qualsiasi cosa.
Li stavano sottoponendo a un sacco di perquise, soprattutto prima di montare nella nostra sezione.
Quindi... meglio lasciar passare il momentaccio.
Di lì a poco parecchi compagni sarebbero partiti, come pure i miei soci.
Tornata la calmasi sarebbe potuto fare tutto bene. Non era il massimo, proprio perché volevo che riuscissero tutti ad approfittarne. Ma quella era la situazione, non si poteva che rimandare.
Dissi dunque a quel paio di persone cui tenevo particolarmente di partire tranquilli. Sarebbero dovuti tornare entro un mesetto e promisi che avrei sistemato tutto per il loro ritorno.
Con lo svuotarsi dei raggi arrivarono le armi.
Il primo pezzo lo imboscai murandolo dietro le piastrelle del cesso.
Il secondo i fu consegnato invece quando Pinella, rientrato, venne messo in cella con me.
Ricordo perfettamente.
La guardia arrivò davanti alla cella e, mentre allungava il braccio attraverso lo spioncino, mi chiamò:
«Vallanzasca, tenga ’sta roba».
Proprio da fuori di testa.
Neppure si era preoccupato di avvolgerlo in un giornale o in uno straccio.
La mano della guardia roteava dentro la cella tenendo il cannone per la canna.
Eravamo seduti per la cena e per poco a Pimpi non venne uno sbocco. La guardia ripetéil movimento una seconda volta.
E mi ritrovai con due pezzi tra le mani.
Tonino non stava più nella pelle.
Evidentemente, non era convinto che sarei riuscito a concludere positivamente la missione.
Volle un’arma e se ne andò al cesso, per evitare di essere visto da qualcuno cui fosse venuta l’idea di affacciarsi all’improvviso allo spioncino.
In preda all’euforia, all’interno del bagno, Pinella cominciò a mimare l’evasione che, nell’attesa dei rientri, arrivò all’ultimo giorno utile fissato per il piano: il 28 aprile. Alle 13.20, durante l’ora d’aria.
Quella mattina mi limitai a dire a tutti che avrebbero dovuto scendere al passeggio con le scarpe da tennis, perché si doveva discutere sulla forma di protesta per risolvere alcuni problemi che si erano verificati in carcere.
Infatti, a parte il sottoscritto, Colia, Antonio Rossi, e Micio, c’era Corrado che avrebbe deciso a chi dirlo.
Ci fu così la new entry.
Quel culo rotto di Daniele Lattanzio.
Era arrivato la sera precedente.
Sembrava destino: se c’era in atto un preparativo di evasione, quello si materializzava in tempo senza saper nulla in anticipo.
Gli altri detenuti ignoravano tutto.
E del resto avevo ritenuto inutile informarli.
Già ne erano a conoscenza in troppi.
Tanto, a che sarebbe servito?
L’unica cosa che contava era esser portati fuori e io quello stavo facendo.
Il piano procedeva secondo il programma.
Pinella e io, con la scusa che ormai stava uscendo il caffè, ci facemmo aprire la cella per ultimi, anche se in realtà ci trovavamo in quella che avrebbe dovuto essere aperta per prima.
A mano a mano che gli altri scendevano venivano messi al corrente. Una volta rimasti soli in sezione, mi feci aprire e passata regolarmente la perquisa con il cannone piazzato tra le palle, me ne andai nel corpo di guardia con il mio bravo caffè bollente.
Si mise a parlare con il brigadiere che faceva da caporeparto. Una sceneggiata. Anche questa studiata nei dettagli.
«Hai sempre un culo della Modonna.
Ogni volta che c’è un problema da risolvere ci sei sempre tu in servizio. Dai, molla sta cazzo di Gazzetta e scendi con me al passeggio che dobbiamo parlare delle infamità che state facendo con la posta».
Con la proverbiale flemma di chi non ha voglia di fare un cazzo, e un po’ contrariato, il brigadiere si alzò e mi venne dietro.
Siccome era indispensabile che Pimpi ed io si scendesse assieme, sapendo come prenderlo dissi al brigadiere:
«Dai, fai aprire anche Colia, almeno ne discutiamo per bene. Siete qui in metà di mille... o devo pensare che due duri così ti mettono la strizza al culo?».
Come mi aspettavo, ’sto pampurio, affermando che lui non aveva paura di nessuno, disse di aprire anche Colia.
E tutti insieme, il brigadiere e io davanti a un codazzo di guardie e Pimpi sul fondo della fila, scendemmo lungo le brevi rampe di scale che portavano al piano terra.
Ora avevano pochi minuti.
Tirammo fuori i cannoni e ci ritrovammo con una decina di ostaggi. Lui in cima alle scale, io in fondo e loro in mezzo. Feci un breve e minaccioso discorsetto a tutti, al brigadiere in particolare.
Pinella rimase a controllare gli agenti di custodia. Vallanzaca, la pistola puntata alla schiena del brigadiere, sorretto come se stesse male, arrivò nel cortile dove gli altri detenuti erano al passeggio.
Il brigadiere fece quello che gli era stato ordinato.
Chiamò la guardia nella garitta protetta da un vetro antisfondamento: «Vieni qui a darmi una mano! Non vedi che si senta male?»...
Come quello uscì, lo puntai e, in meno di quindici secondi, avendo aperto il cancello dei passeggi liberando tutti gli altri ragazzi.
Diedi la terza pistola che avevo a Luigi Lattanzio e i tre coltelli ad altrettanti scatenati. Gli altri si armarono con spranghe di ferro e attrezzi da muratore Dissi quindi a tutti di spogliare le guardie e di indossarne le divise.
Io e Pinella dovevamo uscire in fretta, mentre loro, dovendo aspettare che noi gli si aprisse la strada, avrebbero avuto tutto i tempo di travestirsi.
Erano in sedici e contavano sul vantaggio che gli avrebbe garantito la confusione. Tra loro anche Corrado Alunni,, riconosciuto leader di Prima Linea e il nappista Paolo Klun.
Ricorrendo alla tecnica, tanto cara agli sbirri, del bastone e della carota, mettemmo in mezzo il brigadiere. Io minacciavo stragi inenarrabili se fosse andato storto qualche cosa e non ce l’avessimo fatta ad uscire. Pimpi rassicurava il briga: «Dai, Renato, non c’è bisogno di strapazzarlo, : ha capito che qui si muore tutti quanti. Vedrai che si comporta bene. Vero brigadiere?».
Il brigadiere assicurò che avrebbe eseguito le istruzioni alla lettera.
Primo della fila, avrebbe fatto aprire ai due detenuti tutti i cancelli che separavano il cortile del passeggio dall’ingresso principale del carcere in via Filangieri.
Ci aprirono un cancello dopo l’altro.
Avanzavo con Tonino a ruota e a ogni cancello superato, dopo aver preso un altro ostaggio, mettevamo la mandata in modo che tutti gli altri potessero seguirci senza trovare ostacoli.
Passammo nel corridoio degli avvocati, sapendo che a quell’ora lo avremmo trovato deserto.
L’unica difficoltà rimaneva il doppio cancello prima dell’ingresso. Straripava sempre di guardie, soprattutto durante i turni di mensa. Ma come vidi che l’addetto lo stava aprendo per far entrare un collega, con un paio di spintoni fui dentro.
Feci scattare la serratura automatica del secondo cancello e mi precipitai nella portineria senza curarmi dei presenti. Sapevo infatti che alle mie spalle c’era Tonino.
La pistola l’avevo nella tasca del giubbotto.
Andavo a passo svelto, ma non di corsa.
Incrociò un avvocato che lo conosceva.
Era appena entrato in carcere con un magistrato per un interrogatorio.
Mi guardò stupito, ma dopo una mia occhiata, credo eloquente, si rimise a parlare con il giudice. Arrivai quindi alla tappa finale.
E non ci fu nemmeno bisogno di tirare fuori l’arma.
La guardia dell’ultimo cancello, intenta a discutere con uno dei suoi, mi degnò a malapena di uno sguardo e spalancò al volo.
Con tutto quel via vai doveva essere un riflesso condizionato.
Tra me e la libertà non c’erano più ostacoli.
Vallanzaca decise allora di neutralizzare l’ultimo piantone.
Quello che stazionava alla porta principale.
Lo afferrai per la collottola e lo tirai all’interno del portone.
L’avevo preso per le spalle feci per disarmarlo, ma la fondina era vuota. Era un altro napoletano, scansafatiche.
Mi riconobbe subito e mi disse : «Rena’, tengo famiglia . U’cannone non ce l’ho. Pesa assaie».
Ci sarebbe stato da ridere, se non per il particolare che su quel cannone fidavo molto. Un pezzo in più in certi momenti fa comodo.
Lo feci inginocchiare nell’androne con la faccia al muro:
«Se ti giri che sono ancora qui, tua moglie dovrà crescere da sola due orfani...».
E feci capolino sul portone.
Mentre Vallanzasca aveva raggiunto l’esterno del carcere, i quattordici detenuti del passeggio avevano cominciato a risalire la teoria dei cancelli forzati dal passaggio di Vallanzasca e Colia.
Affacciatomi vidi subito due auto dei grippa, che poi risultarono la scorta del magistrato che avevo incrociato uscendo.
Erano ferme all’angolo del piccolo bar di via Filangeri, in cui i familiari dei detenuti confezionano il pacco da consegnare al colloquio.
Solo uno era rimasto al volante, mentre tre erano scesi e parlavano tra loro. Attraversai la strada e mi fermai sul marciapiede di fronte all’ingresso del carcere, a una ventina di metri di distanza dalle due auto. (nella foto la freccia rossa indica il portone centrale dal quale uscì Vallanzasca ed i giardinetti di fronte)
Doveva aspettare che gli altri lo raggiungessero, almeno Colia e Lattanzio.
Affrontare i grippa da solo , con quel pistolino che quasi spariva nella mano, non sarebbe stato igienico.
Era pur sempre una calibro 9, ma avendo avuto l’esigenza di farla entrare per nasconderla, avevo chiesto che fosse di piccole dimensioni. Certo, sparava e faceva molto male anche quella.
Ma l’impatto psicologico del vedersi minacciato da quel ninnolo poteva non essere terrorizzante.
Con due pezzi in mano e mettendoli in mezzo, avrebbero certo avuto meno voglia di fare qualche colpo di testa.
Mai due tardavano.
Dal mio punto di osservazione, vidi che tutti avevano raggiunto la portineria. Ma invece di cominciare a uscire, si attardavano a prendere in ostaggio tutti quelli che arrivavano. Per ben due volte attraversai la strada per chiamare fuori almeno uno di quelli con il cannone.
Finché, mentre per la seconda volta si trovava al centro della strada, percepì un colpo di pistola.
Arrivava dall’interno del carcere.
Guardai subito le reazioni in strada e vidi che un solo carabiniere aveva alzato la testa . probabilmente lo scoppio si era confuso con i rumori dell’intenso traffico.
Poco dopo però si sentirono altri tre colpi di pistola.
In rapida secessione.
Lo scarafone ormai era fatto.
I carabinieri misero mano alle armi.
E a capire cosa stava accadendoli aiutarono le prime sagome che affacciavano al portone d’ingresso.
Cominciò il finimondo.
Vallanzasca era l’unico ad essere già in strada, sufficientemente distante dall’entrata del carcere.
E con quel giubbottino elegante, camicia e foulard al collo lo avevano confuso per un passante.
Un caramba cominciò a urlare di mettermi al riparo. Avrei potuto allontanarmi tranquillamente, ma significava mollare gli altri che erano rimasti inchiodati, farli arrestare tutti senza neanche che avessero messo il naso fuori. Decisi la sola cosa giusta da fare. Attraversai la strada di corsa e cominciai a urlare anch’io: «Prendete gli ostaggi, bisogna uscire alla svelta!»
Era di nuovo all’interno del corpo di guardia.
Recuperai quel simpatico napoletano simile ad un ippopotamo che avevo lasciato in ginocchio.
Era ancora là come l’avevo messo.
Lo presi per il bavero e me lo tirai appresso mentre bestemmiava: Azzz, che sfaccimme e’jurnata.
Quindi tornai in strada, questa volta coperto dalla voluminossissima sagoma del mio ostaggio.
«Se volete uccidere un innocente, sparate pure» urlai.
Gli spari cessarono di colpo de dissi subito agli altri di cominciare a correre sfruttando la nostra copertura Uno dopo l’altro uscirono undici ragazzi, ma siccome dovevamo essere in diciassette, che è veramente un numero sfigato, mi attardai ad attendere gli altri che non si vedevano.
Non passarono più di venti secondi, che però ci sarebbero costati cari. Non potevo correre liberamente come facevano gli altri.
Per coprirmi la fuga, camminavo a ritroso, obbligando il mio ostaggio a fare altrettanto.
Funzionò per un centinaio di metri, ma come il ciccione inciampò e cadde, sembrò il segnale che aspettavano, fu la festa di Piedigrotta.
Vallanzacca ora correva.
Antonio Rossi era già stato colpito.
Impugnava uno dei tre coltelli a serramanico distribuiti al passeggio.
Era riuscito a fare solo un a decina di metri.
Lo avevano abbattuto nei giardinetti del vicino Beccaria Vallanzasca proseguì senza voltarsi, finché non svoltò l’angolo di via degli Olivetani, mentre il rumore assordante delle sirene anticipava la rapidità con cui il carcere stava per essere circondato.
Fu allora che si accorse che sull’altro marciapiede stava correndo Corrado Alunni, armato del secondo serramanico.
Gli gridai di attraversare la strada Dal mio lato avrebbero avuto la copertura anche della mia pistola Ma soprattutto non sarebbe stato sotto il tiro dei mitra che facevamo fuoco dal muro di cinta.
Alunni attraversò via Giambattista Vico.
Ma invece di proseguire la corsa fino a trovare uno spazio sufficiente per superare le auto in sosta, si attardò a tentare di passare tra due auto posteggiate troppo vicine.
Errore fatale quello del capo di Prima Linea.
Un colpo lo raggiunse allo stomaco.
Strammazò in terra in un lago di sangue, accanto a una 125 blu coperta da un telone.
Arrivai che era appena caduto. Mi piegai su di lui e lo afferrai per un braccio: «Alzati, Corrado, dai che ce la facciamo».
Lui si comprimeva il ventre con le mani, dimenandosi, perché poche ferite sono dolorose come quelle nello stomaco. Aveva la voce straziata:
«Vai, non ce la faccio. Scappa e buona fortuna».
Mi rialzai: «Okay, buona fortuna anche a te, ci vediamo».
Ma forse la frase non la finii neppure. Non so quale delle tre cose percepii per prima, se il carabiniere che a non più di sei metri puntava contro di me la pistola impugnandola con tutt’e due le mani, il colpo secco dell’arma, o la terrificante mazzata.
Il colpo lo aveva raggiunto alla testa, nella parte alta della fronte, all’attaccatura dei capelli.
Andai a sbattere contro il muro, ma rimasi in piedi. Avevo la testa che era una giostra. Tutto mi girava intorno vorticosamente.
Ma barcollando ebbi ancora la forza di fare qualche metro. Avevo la sensazione che le montagne russe in cui mi sembrava si fosse trasformata la strada andavano spianandosi.
Riuscivo anche a correre.
Ripetevo a me stesso: «Dai Renato, che ce la fai...ce la devi fare».
A fermarlo fu un secondo, decisivo colpo, esploso dal muro di cinta. Renato si afflosciò come un sacco vuoto
La perizia stabilirà che era stato sparato dalla guardia sulla cinta. Il colmo della sfiga. Un colpo partito da un centinaio di metri era rimbalzato sul muro e mi si era conficcato nella parte alta della nuca.
Ora Vallanzasca se ne stava immobile sull’asfalto.
Perdeva molto sangue, che gli rendeva quasi irriconoscibile il volto.
Non credo dia aver mai perso conoscenza, anche se sembravo morto.
Il colpo alla testa mi aveva paralizzato.
Non riuscivo a muovere nulla se non le palle degli occhi.
Ricordo interminabili minuti di caos in un concerto insopportabile di sirene. Finchè non sentii una fitta all’osso sacro.
Una tremenda scarpata di uno che non poteva che essere uno sbirro, indipendentemente dalla divisa.
«E’ quel bastardo di Vallanzasca. Ora finirai per sempre di rompere i coglioni».
Udii distintamente il rumore del carrello dalla pistola quando si mette il colpo in canna. Era alle mie spalle.
Merda, mi stava ammazzando e, per quanti sforzi facessi, non riuscivo a muovermi Non avevo paura, ma ero furioso.
Morire ci stava pure, ma non riuscire a portarmene appresso qualcuno, era proprio da pirla. Poi sentii un ’altra voce: «Fermi! Non vedete che è morto?»
Lo poteva scorgere da terra. Era un carabiniere.
Lo sentii discutere con gli altri sbirri.
« Ha ammazzato più di un tuo collega e dei nostri. Perché non vuoi eliminarlo?»
Un carabiniere gli stava salvando la vita.
Sì, devo la pelle ad un ragazzo in divisa.
Ancora mi ricordo il tono con cui risposa a quelli che mi volevano far fuori. « Non mi frega un cazzo di chi è e che cosa ha fatto, so solo che è mezzo morto, e che nessuno gli farà niente. Indietro, mettetevi contro il muro...»
Aveva armato il mitra e l’aveva alzato ad altezza d’uomo.
Tanto che per un attimo pensai, o meglio sognai che... potesse essere un socio travestito.
Arrivarono i barellieri
Mentre mi caricavano sull’ambulanza mi cade di mano la pistola. Per tutto quel tempo evidentemente non se n’erano accorti. Un barelliere le diede subito un calcio e disse al compagno: «Se gli dico che ce l’aveva in mano lo ammazzano».
Poi si rivolse a qualche sbirro: «Guardate, lì c’è una pistola ». Anche un uomo di poca fede come me fu costretto a pensare che di brava gente in giro ce n’era più di quanto si pensasse.
La fuga di Vallanzasca era finita.
Ma non era andata meglio a molti altri.
Il nappista Pailo Klun e Vittorio Barindelli non erano riusciti a fare un passo oltre il cancello del carcere.
Emanuele Attimonelli sarà arrestato la sera stessa.
Antonio Colia, dopo essersi asserragliato in un vecchio stabile di fronte al carcere e aver preso in ostaggio una donna, si consegnerà alla fine di quaranta minuti di assedio all’allora commissario e futuro vicecapo della polizia Achille Sera Solo Merlo, Rossi, Lattanzio, Bonato, Marocco e due brigatisti pentitisi il giorno dopo, ce la fecero.
L’ambulanza con a bordo Vallanzasca raggiunse il Policlinico in via Francesco Sforza.
Erano le due, e mentre i giornali del pomeriggio preparavano lenzuoli a nove colonne per descrivere il terrore di quella mattina, nella sala del Pronto Soccorso venivano scaricate tre lettighe.
Su una Vallanzasca, sulle altre due agenti di custodia feriti.
2. > RENATO VALLANZASCA SUL CASO BRUSCA, 18 ottobre 2004, 11:47
Più che un articolo appare come un mediatico e malcelato invito al buonismo
nazional-popolare, inducendo indirettamente al perdonismo acritico ed iniquo.
Delusione ed amarezza i sentimenti che affiorano durante e dopo la lettura di questo
articolo. Evidentemente il sig. Vallanzasca è un uomo molto "più uguale" degli
altri o più semplicemente, uomo vero, come ama dipingersi e come Lei stesso involontariamente sottolinea, non lo è mai stato e non lo è neppure oggi dal
momento che non esita a strumentalizzare la madre, inventandosi letteralmente
impedimenti e difficoltà deambulatorie che, fortunatamente, sua madre non ha.
Infine una domanda: per quale motivo non intervistate anche le mogli, le madri,
i figli degli uomini che il sig. Vallanzasca non ha esitato ad ammazzare, per quattro soldi, semplicemente perchè stavano facendo il proprio dovere ?
Provate a chiedere loro, ad esempio, se hanno dormito come prima, se hanno
lavorato ed amato come prima. Come sono cresciuti i figli di quegli uomini, la cui
vita è stata spenta, tutti sappiamo come e da chi.
A quel punto si potrà parlare di giornalismo vero , costruttivo, che lascia traccia
di sè, ma fino ad allora certi articoli non possono andare al di là di una superficiale
demagogia da supermercato, sicuramente remunerativa ma altamente diseducatica. Grazie per l’attenzione e . . . . . . . buon lavoro !!
1. > RENATO VALLANZASCA SUL CASO BRUSCA, 19 ottobre 2004, 15:09
Ma come si può parlare di buonismo malcelato?
Vallanzasca paragonato a un boss della mafia non è nemmeno un criminale.
Per non parlare di quelli delle Brigate Rosse, ma forse è per questo che Vallanzasca da fastidio, perchè è apolitico.
2. > RENATO VALLANZASCA SUL CASO BRUSCA, 24 ottobre 2004, 17:19
a quando il coraggio, da parte di questo movimento, di dire che bisogna fare un ’ amnistia non solo per i militanti della lotta armata ma anche per i "ribelli" degli anni sessanta e settanta, figli diretti anche loro di quella epoca, di quel lungo sessantotto che in italia e’ durato quasi quindici anni ?
a quando il coraggio, senza pietismi e buonismi, di dire "vallanzasca libero", "mesina libero", "medda libero", "boe libero" ?
p.s. qualcuno ha chiesto qualcosa ai familiari delle vittime di brusca, di cristiano fioravanti, di tommaso buscetta ?
non mi sembra.
3. > RENATO VALLANZASCA SUL CASO BRUSCA, 8 novembre 2004, 10:03
non posso che essere daccordo con renato,ma non dimentichiamoci mai di una cosa...questa è l’italia...il bel paese,che non fa piu meraviglie ormai..in europa e nel mondo...