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Radicamenti e non costituenti
In margine alla presentazione della mozione Vendola a Caserta l’11 giugno
di Giosuè Bove
Ho ascoltato con piacere la passione e la poesia che Nichi Vendola riesce a mettere anche nel racconto più grigio. L’ho ascoltato ripercorrere il novecento con la dolcezza ed il rimpianto quasi infantile di un epoca, di una epopea, di un mondo: una ballata, che a volte lenta macina memoria, a volte come un fiume che incontra un salto, acquisisce velocità e travolge e suscita sentimenti di orgoglio e di ritorno. E dietro il racconto un impianto analitico condivisibile: la fine del Novecento e di quella composizione di classe, di quella storia, la dimensione della Sconfitta. Come in un bizzarro viaggio in treno, avanti e indietro le immagini di quei braccianti e di quegli operai, del lavoro che da “pietra di scarto diventava pietra angolare”: l’alfabeto della nostalgia che lacrima gli occhi e ti riempie il cuore.
E però, proprio per quello che Vendola descriveva, sicuramente meglio di tanti, io ho scelto di oppormi alla costituente della sinistra, cioè ad un tentativo neo-identitario, giocato tutto nel cielo della politica: perché sarebbe sbagliato, contribuendo a rimuovere dall’immaginario sociale l’idea della abolizione dello stato di cose presenti, e inutile, perché al resto del mondo, alla gente normale, al nuovo proletariato precario, di come ti chiami, nel bene o nel male, frega poco, mentre è essenziale quello che fai e come lo fai.
Ci deve essere tra il racconto e le sue conclusioni un rapporto consequenziale, come in un bel film tra lo sviluppo della trama ed il suo finale, che non c’era e non c’è nella proposta della mozione firmata da Vendola. Se la situazione è quella, e cioè la traversata nel deserto, non c’è bisogno di costituenti, ma di radicamenti, non c’è bisogno di dissolvenze ma di materializzazioni. In altre parole non è mettendo insieme ceti politici di partiti o anche di associazioni che si risolve il problema né inventandosi nomi, sigle, simboli nuovi e peraltro paradossalmente di fatto più minuscoli e minoritari di quelli esistenti. Del resto l’unità che costruisce arricchimento è quella capace di sintesi e di rispetto delle differenze, come fu il Genoa Social Forum, come potrebbe essere oggi una rete consiliarista, a snodi territoriali o a forum tematici: dal basso, valorizzando differenze, identità, autonomie.
Ma la questione di fondo non insiste sulla forma: essa ci tocca nel profondo e riguarda il nostro tornare alle radici. Non solo “stare nelle masse e fare inchiesta” ma viverci immersi, nelle medesime condizioni. Vendola ha citato due esempi, la Spagna e la Francia, in cui la sinistra ha seguito strade, a suo parere, opposte (la prima in direzione della “marmellata”, la seconda della “atomizzazione”) entrambe perdenti. In questo citare e, soprattutto, nel non citato egli ha svelato uno dei perché di fondo della stonatura, della cesura tra racconto e conclusioni: in realtà in entrambi i casi – Francia e Spagna - ci troviamo alla medesima logica della ingegneria politica, impotente di fronte alla Sconfitta, come si è visto anche in Italia con la Sinistra Arcobaleno, il cui politicismo ha aggravato la situazione; e nella mancata citazione della Germania e dell’Olanda vi è una reticenza sulle esperienze che - in forma non neo-identiaria - hanno praticato il radicamento sociale, cioè l’essere pienamente a servizio del popolo, ricostruire così il movimento operaio nella accezione nuova del termine ed una correzione netta del rapporto tra rappresentanze politiche ed istituzionali e soggettività sociali, cioé l’essere “uguali” dal punto di vista del reddito e del modo di vivere delle persone che intendi rappresentare.
La conclusione del bel racconto è stata, insomma, una nota stonata, reticente: di fronte alla lirica della vita, evocata dalle citazioni di Moro, Che Guevara e Gramsci, scappa infine lo strepitio ansioso della ricerca di una nuova identità politica, che appare come il classico arrampicarsi sugli specchi, come una frettolosa negazione dell’altezza maestosa della riflessione sulla sconfitta. Mentre più grande e più saggio sarebbe stato ammettere che dentro la discussione nostra c’è stato un travolgimento ma che è evidente a tutti che la priorità va data alla ricostruzione della soggettività sociale, che oggi è necessario esercitare le nostre poche energie proiettando i nostri circoli, il nostro partito, quel che ci rimane della rappresentanza istituzionale, nella dimensione del “partito sociale”, evitando di perder tempo in altre questioni e soprattutto evitando di perdere un altro treno, dopo quello che sciaguratamente abbiamo visto partire dalla stazione di Genova in quel maledetto e meraviglioso luglio del 2001.