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Recensione: L’OMBRA DELLA GUERRA di Guido Crainz
Publie le venerdì 21 settembre 2007 par Open-Publishing“E come potevamo noi cantare/ con il piede straniero sopra il cuore/ fra i morti abbandonati nelle piazze/ sull’erba dura di ghiaccio, al lamento/ d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero/ della madre che andava incontro al figlio/ crocifisso sul palo del telegrafo”. Nel sentimento e nella lirica di quel poeta, cittadino e uomo che è stato Salvatore Quasimodo ecco cos’era l’Italia che usciva dai venti sciagurati mesi seguiti all’8 settembre. Mesi neri come i volti e i vessilli di morte della Repubblica Sociale Italiana e dei suoi funerei attori, a cominciare dal Mussolini prigioniero, prima che del suo ruolo e del Furehr-protettore, prigioniero d’una misera vanagloria. Che aveva trascinato nella tragedia un popolo intero. E’ questo il presupposto per la comprensione del periodo, degli eventi, delle azioni accadute nei mesi che seguirono il 25 aprile, per valutare i perché dell’odio e della violenza contro i vinti. Bisogna risalire all’origine di tanto scempio e richiedere quell’assunzione di responsabilità cui i protagonisti solitamente si sottraggono. Questo lavoro non esteso ma ricco di spunti dello storico Crainz torna su un tema che tanto spazio ha trovato nella pubblicistica del revisionismo storico, intento a demonizzare la Resistenza come moto “sanguinario” perché fu realizzato con le armi e le armi utilizzò per colpire fascisti e collaboratori del nazismo.
C’è una crisi di Regime che si manifesta sin dalla prima fase del conflitto mondiale, dovuta alla crescente povertà della popolazione specie del Sud (cresciuta nel numero da 12 a 16 milioni) cui la madrepatria impediva dagli anni Trenta l’emigrazione all’estero. C’è una guerra totale coi bombardamenti alleati e la terra bruciata fatta dai nazisti in ritirata, la morte che sopraggiunge dall’alto coi bombardieri alleati e lo sfregio delle stragi. Così gli sfollati conservano il ricordo d’una condizione disumanizzata “il parto per terra, il pasto consumato con le mani senza quel simbolico prodotto di civiltà che sono le posate. I pidocchi, gli escrementi… “. Con l’8 settembre e l’armistizio per un attimo prosegue l’illusione già vissuta il 25 luglio che il fuoco possa cessare. Iniziava invece, soprattutto al Centro-nord, la fase più dura e feroce della guerra. I primi giorni di settembre saranno i giorni del caos. Il re e i vertici militari fuggono da Roma per mettersi al riparo nei territori controllati dagli anglo-americani lanciando criptici e insignificanti proclami. Chi veste l’uniforme in un esercito già ridotto allo stremo ha davanti un ritorno a casa
L’ombra della guerra incrementa le illegalità “macerie, macerie, corpi insepolti, corpi sfracellati…” vendette private, mercato nero, insensibilità morale. E ancora proteste per carenze di alimenti, certe città come Napoli sono off-limits e paiono Shangai. Alla povertà dei diseredati s’aggiunge l’impoverimento di larghi settori impiegatizi che perdono status. Eppure esiste una parte del Paese che sembra impermeabile a tutte le tragedie di cui De Ruggero sottolinea “quel fondo di cinismo che nell’animo italiano è il sedimento lasciato da molti secoli della nostra storia… “. Se c’è chi parla di “sdoppiamento degli italiani” Pannunzio ricorda che “l’Italia, come il bastimento di Ibsen, porta un cadavere nella stiva. Quel cadavere è il fascismo… “. E nella parte del Paese pur liberata nell’estate del ’44 – che comunque aveva vissuto l’oppressione e l’orrore nazifascista con episodi strazianti come i romani rastrellamenti del Ghetto, del Quadraro, la strage delle Ardeatine - la carica d’odio accumulata dal popolo contro personaggi che si chiamavano Caruso e Carretta, collaboratori di Kappler e della banda Koch, è altissima. Il linciaggio e l’uccisione del direttore di Regina Coeli Carretta rappresentano l’epilogo già scritto con cui centinaia di familiari delle vittime vollero vendicarsi.
Parri in un testo divenuto anche una lezione storica dichiarò che “dalla primavera del ’44 inizia la guerra inespiabile“. Seppure già dal settembre ’43 la Wermacht presente sul territorio italiano iniziava rastrellamenti ed eccidi di civili come a Boves è dalla seguente primavera che i crimini contro la popolazione divennero diffusissimi. La Benedica, S.Anna di Stazzema, Marzabotto furono le punte note ai più della politica del massacro di massa attuato con bestiale perfidia, parimenti sostenuta da chi vestiva la divisa salodina. In tanti casi torna quella morte profanata che aveva esordito coi fucilati del Castello Estense nel novembre ’43, coi corpi esposti per giorni, gli avvertimenti (“ero un ribelle questa è la mia fine”), le forche, i ganci da macellaio che straziavano le carni dei condannati. E gli atti di sadismo per nulla diversi dalle torture propinate dalle bande aguzzine proclamatesi polizie e protette - più che dalle Brigate Nere, dalle SS - le uniche che potevano garantire un parziale controllo del territorio. Bisogna tener presente tutto questo per capire il furore seguente che si ritorce contro i vinti anche per i mesi successivi alla Liberazione.
Sentite il dialogo fra il fenogliano Milton de “Una questione privata” e un contadino langarolo: “Verrà quel giorno, disse il vecchio guardando Milton con troppa intensità. – Certo che verrà – rispose Milton e richiuse la bocca. Ma il vecchio insisteva a fissarlo con un’avidità insoddisfatta, forse praticamente insaziabile. – Certo che verrà, - ripeté Milton. – E allora, - disse il vecchio, - non ne perdonerete nemmeno uno, voglio sperare. – Tutti, tutti li dovete ammazzare, perché non uno di essi merita di meno. La morte, dico io, è la pena più mite per il meno cattivo di loro“. Eppure quando Carlo Levi giunge a Milano liberata dopo aver attraversato la pianura del Po vede che “Grandi fuochi di gioia si levavano da tutti i villaggi; il tuono allegro dei mortaretti giungeva da ogni parte dell’orizzonte, sopra il canto sereno dei grilli, nella campagna […] l’automobile correva sulle strade della pianura, condotta da un partigiano entusiasta a folle velocità. Incontrava contadini sui carri, partigiani armati, con grandi barbe e lunghi capelli sulle spalle, preti in bicicletta con le sottane rialzate: tutti ci salutavano, e scambiavano occhiate fuggevoli di amicizia”.
L’occupazione nazista è stata feroce ovunque seminando morte e sentimenti astiosi e di rivalsa verso chi ha collaborato in tutt’Europa. Les tondues sono le donne francesi che si sono accompagnate ai nazisti, subiscono il taglio forzato dei capelli e altre violenze che un uomo sensibile eppure rigoroso nelle sue scelte ideologica come il poeta Eluard cerca di preservare scrivendo versi come “Comprende qui voudra”. Ma in Francia quando cessarono gli spari lo Stato fece uno sforzo di giustizia perseguendo, non solo a parole, criminali di guerra e comminò coi Tribunali Civili 750 condanne a morte eseguite, cui s’aggiunsero quelle dei Tribunali Militari. In Italia non fu affatto così e tale latitanza della giustizia istituzionale aumentò la sfiducia che si trasformò in “fai da te”. I dati di fonte poliziesca parlano di 8.197 uccisioni e 1.167 scomparse nei mesi successivi al 25 aprile. Sono dati non certissimi per mancanza di riscontri assoluti, ma a detta di illustri storici che hanno svolto ricerche incrociate fra vari archivi s’avvicinano al vero.
Non è comunque il caso di parlare di guerra civile perché – come ribadisce Revelli – i fascisti per noi erano stranieri come e forse più dei tedeschi. E ancora “… superano i tedeschi questi goffi italiani, canaglie specializzate per incendiare, ricattare, impiccare sporchi nell’animo e nelle divise con quel nero sul grigioverde come se portassero indosso il lutto e il terrore“. Contro queste figure scattò quella vendetta antifascista covata sia negli infausti mesi della Rsi sia nel ventennio di regime e che produsse esecuzioni negli stessi luoghi dov’erano stati martirizzati partigiani e civili. Esempio assoluto per la sua simbologia l’esposizione a Piazzale Loreto del cadavere del Duce e dei gerarchi che lo seguivano nel tentativo di fuga in Svizzera, che furono intercettati e giustiziati sul lago di Como. Un altro episodio dai contorni tragici che accadde a Schio - dove ai primi di luglio del ’45 un nucleo partigiano prelevò dalle carceri un cospicuo gruppo di detenuti e ne uccise 53 - ha motivazioni legate alle caratteristiche di costoro collaboratori della Rsi o grassatori di quel governo fantoccio letteralmente odiati dalla popolazione. Testimonia il figlio d’una vittima: “… il giorno in cui passarono le bare non si fermarono neanche le giostre.. “. Egualmente nel trevigiano e nel padovano si passò dal colpire militi salodini per una supremazia sul territorio a una giustizia celebrata da chi aveva rischiato la vita per il ripristino della libertà. A Verona vengono prelevati dal carcere 16 brigatisti neri responsabili di torture e uccisori di 16 antifascisti, la loro fine è una vendetta che percorre quel cammino. E nella disumanizzazione seguita a certi eventi c’è chi dice “bisogna dargli fòco com’han fatto a’ nostri”.
Nell’Emilia rossa e socialista, che in alcune province aveva visto nascere lo squadrismo più becero e assassino al soldo degli agrari, quella resa dei conti durata tre anni ed è direttamente collegata al conflitto del 1920-22. Fra le vittime poteva accadere che finisse qualcuno senza legami col fascismo. Dai rancori e dalle esasperazioni antiche il Pci cavalca e ingloba risentimenti e intransigenze classiste ma fra i tanti che entrano nel partito all’ultim’ora (in alcuni mesi si raggiunse la quota di un milione settecentomila iscritti) si contano anche figure finite nell’organizzazione e nelle file resistenziali per puro calcolo, come i vendicatori de “La paga del sabato” di Fenoglio. Lì vendetta politica e delinquenza si sfiorano e si mescolano e i metodi partigiani vengono camuffati a scopo di rapina.
EDIZIONE ESAMINATA:
Guido Crainz, L’ombra della guerra, Donzelli Editore, Roma 2007
Enrico Campofreda, 20 settembre 2007