Home > Repressione : La ricetta dei nuovi liberali
di Piero Sansonetti
In un clima di generale indifferenza, a Bologna l’altro giorno hanno
arrestato tre studenti. Ieri mattina il giudice ha confermato la
decisione: restano in galera, niente libertà provvisoria. Evidentemente
li considera pericolosi. Sono accusati di avere occupato un’aula
universitaria, cosa che credo quasi tutti i lettori e i redattori di
Liberazione hanno fatto almeno una volta nella loro vita. Vi sembra un
gran reato?
L’allarme non è tanto per gli arresti ma per la reazione
agli arresti: può sempre succedere che un giudice non troppo equilibrato
– o superprotagonista, o reazionario - decida che è giunto il momento di
raddrizzare la schiena ai giovani, e per raddrizzargliela bene non c’è
niente di meglio che un po’ di gattabuia. Si sa, i giudici così non
mancano. E’ curioso però che tutto passi sotto silenzio, che i giornali
quasi sorvolino sull’episodio, che non scatti la protesta dei partiti
politici, dei sindacati, dell’intellettualità, dei garantisti.
Forse nessuno se ne è accorto, ma in Italia, da qualche anno, è in atto
una svolta repressiva. Una stretta che ha pochi precedenti. Sapete
quante persone sono sotto processo per ragioni politiche (cioè per aver
partecipato a vario titolo a forme diverse di lotte sociali)? Novemila
persone. Molte di loro rischiano la galera, o comunque una condanna
penale che li ostacolerà nella vita civile, nel lavoro, nella carriera.
Novemila è una cifra enorme. Per trovare qualcosa di simile bisogna
risalire alla fine degli anni settanta. Quelli erano anni duri, di
scontro feroce, violento.
Oggi, nessuno dei novemila imputati è accusato
di gesti di violenza o di sopraffazione. Sono accusati di disobbedienza
alle leggi, di azioni simboliche, di manifestazioni non autorizzate.
Oppure di reati dai nomi altisonanti, inventati al tempo del fascismo, o
quando Cossiga si scriveva col kappa: "eversione", per esempio. Ai
ragazzi di Bologna gli hanno rifilato proprio questo reato. Hanno detto
che sono "eversori". Cosa vuol dire eversori? Che preparavano la
rivoluzione, un colpo di mano militare, il rovesciamento del governo con
le armi?
Non proprio: si limitavano a protestare contro l’Università e
contro quel modo di fare istruzione, non solo berlusconiano, che si basa
sull’idea che il sapere - come tutto - è merce.
L’aumento della repressione, e il ruolo importantissimo che sta
assumendo nello scontro politico, è un fenomeno non solo italiano.
Riguarda gran parte dell’occidente. E soprattutto l’America e la Gran
Bretagna. In quei paesi c’è stata una vera e propria modifica delle
legislazioni, con l’approvazione di leggi speciali che sospendono, in
alcuni casi, lo stato di diritto.
Come il "Patriot act", un
provvedimento che concede poteri enormi e rischiosissimi alla polizia
degli Stati Uniti, e ai militari, e riduce i diritti dei cittadini,
soprattutto dei cittadini non bianchi, non biondi, non ricchi, fino
quasi ad annullare i diritti degli immigrati.
Come si spiega tutto questo? In parte è una reazione normale
dell’establishment alla rottura della gabbia del pensiero unico, che per
quasi un decennio aveva garantito pace sociale e politica di
compromesso. L’establishment non ha trovato una soluzione più complessa
e moderna alla ripresa delle lotte e della contestazione, al ritorno del
conflitto sociale e sindacale, non ha neppure cercato vie di mediazione
e di rilancio della politica.
Ha scelto la scure, il bastone. La ricetta
è facile: abbassare il livello della libertà, tolleranza zero, uso della
polizia e di pezzi della magistratura. Perché? Forse perché in questi
anni la capacità di fare politica, da parte dei ceti conservatori, si è
molto affievolita. Si è come essiccata. Una volta - pensiamo agli anni
sessanta - la borghesia rispondeva al conflitto con le sofisticate
politiche di Moro, o col kennedismo, o addirittura affidandosi alla
socialdemocrazia, in Germania, in Gran Bretagna, nei paesi scandinavi e
poi anche in Francia.
Questo non vuol dire che non usasse la
repressione: semplicemente non si limitava a questo. Non c’era solo la
risposta armata, c’era anche la ricerca di una soluzione. E quindi i
principi liberali si salvavano. Ora non ce la fa più. Non ha fiato, non
ha la capacità di disegno politico. E così per la prima volta il
liberismo divorzia dal liberalismo. Un tempo si diceva che la differenza
tra destra e sinistra era la differenza tra libertà e uguaglianza: che
la sinistra metteva al primo posto, tra i suoi valori, l’uguaglianza, e
la destra metteva la libertà.
Il liberismo neocons di questo nuovo
secolo non sembra in grado di proseguire su quella strada. Per la prima
volta, nel dopoguerra, in occidente, il diagramma della libertà inverte
la sua curva e piega in basso. La sinistra saprà recuperare quel valore?
A giudicare dal grande silenzio di questi giorni, e di questi mesi, non
sembra troppo bene attrezzata.
Liberazione, venerdì 20/04/05




