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Rifondazione torna tra la gente
Il corsivo di Puck
Volti basiti, facce minacciose, questa è la conseguenza dopo l’esito del Congresso del Prc. Per lo meno dalla parte dei vinti che nell’indignazione assoluta hanno semplificato con l’aggettivo “penoso” questo appuntamento a Chianciano. Chiaramente solo in seguito alla dolorosa sconfitta. Ma se essere e pensare da comunisti significa anche tolleranza allora in questo caso ce n’è stata pochissima. Anzi non si è proprio espressa.
La mozione due di Vendola, decretavano i suoi sostenitori era già una vittoria un mese fa. Invece a conti fatti il risultato si è completamente capovolto, con tutto l’astio che ne è scaturito nei confronti del neo eletto segretario Ferrero. I giornali oggi sono tutti contro il vincente rush finale dell’ex ministro alla solidarietà sociale. Proprio a lui è stato affidato il rilancio del partito, scrivono le maggiori testate, che dentro il Governo Prodi c’era entrato con tutte le scarpe.
Ma c’è un particolare che in questi mesi ha contraddistinto il neo eletto e che tutti, ma proprio tutti sembrano aver dimenticato. E’ stato l’unico ad ammettere pubblicamente le sue colpe, ad ammettere le feroci debolezze che si sono insinuate in questo partito votate dall’incapacità di comprendere una realtà troppo scomoda da digerire. Una scelta consapevole rispetto alla vecchia guardia berttinottiana completamente cieca di fronte al risultato del 13 e 14 aprile, e incapace di battere il pugno sul petto per ammettere un “mea culpa”.
Non se n’è forse accorto neppure l’ex padre di Rifondazione Comunista Fausto Bertinotti che dopo essere salito sul palco ha continuato a decantare una possibile costituente nonostante più voci del partito avessero mostrato l’interesse di ricostruire quello che era andato distrutto.
Altro che gettare il bambino con l’acqua sporca, come ha ribadito il delegato da Cosenza Fausto Bertinotti. Sarebbe stato meglio dire che i panni si lavano in casa propria, almeno prima di aprire le porte ai conoscenti.
Inutile mirare nell’infinita ricerca di comprendere gli errori di un elettorato, che ha drammaticamente segnato la sinistra dal non voto popolare di aprile. Tuttavia nel corso di questo tragico epilogo sarebbe bastato evitare di focalizzare orizzonti troppi distanti e concentrare lo sguardo nei punti più vicini ai propri occhi.
Uno sguardo tanto banale quanto difficile da raggiungere per alcuni, che ha eliminato per sempre la possibilità di ravvedersi su quello che stava succedendo ed è continuato a succedere in questi ultimi due anni. Per lo meno in gran parte delle zone sparse su tutta la penisola, dove i propulsori della base sociale notoriamente rappresentati dai circoli e dalle funzionalità alla partecipazione, spesso sono stati completamente sostituiti da opportunismi di varia natura che hanno lacerato se non addirittura cancellato il confronto all’interno dei collettivi politici.
A dettarne le regole proprio le segreterie locali e nazionali spesso fortemente fedeli al bertinottismo le quali hanno portato al centro le loro individualità nel raggiungimento di obiettivi, a volte meschinamente votati all’autoreferenzialità, blindando le loro carriere politiche per non far spazio a nessun altro. Specialmente se la minaccia era rappresentata da qualche compagno ritenuto incapace solo perché appartenente ad una mozione diversa.
Adesso, invece, sono gli stessi che hanno aiutato a plasmare questo rapporto di forze interne a gridare allo scandalo, intimoriti di aver perso la propria voce come unica melodia tra le molteplici dissonanti voci, che invece di essere accettate come una ricchezza nel pluralismo di idee sono state motivo di divisione.
Anche l’abilità di mettere insieme un congruo numero di voti, spesso clientelari, in grado di mantenere uno stato di cose inalterato eludendo il significato di alternanza come rappresentazione valorizzante è fallito per la mozione dei vendoliani. Ricambi che non devono essere elemento di permanenza nel tempo, come fin’ora è stato, ma temporaneità limitata per accrescere il flusso del rinnovamento politico e della sua rappresentanza.
Su questo bisognerebbe riflettere invece di continuare a sondare marginalmente il nocciolo delle questioni, sotto la spinta viscerale dell’odio profondo, accusando di complotto gli stessi compagni di partito, ma allargando la propria visione di campo con il coraggio e la consapevolezza di ammettere le proprie colpe. Le potenzialità ignorate nei territori, i modi di interfacciarsi con i movimenti e con le problematiche cittadine, l’umiltà di confrontarsi con chi vorrebbe ancora lottare, ma è taciuto , e dei quali nessuno si accorgeva o voleva accorgersi.
L’ex dirigenza dimissionaria del partito avrebbe dovuto lasciare le poltrone dei talk show televisivi per sedersi nelle piazze, nei circoli, tra la gente, per discutere, osservare da vicino, e agire sul piano del buon funzionamento dei territori, diffidando degli interessi di parte, abbandonando l’alibi del io appartengo al sistema politico e tu no.
La distrazione conseguente all’ubriacatura di chi ha raggiunto le alte o le piccole cariche istituzionali ha fatto il resto. E non è stata una fatalità, ma un disegno riconducibile soprattutto al fattore umano dell’ingordigia politica, ingestibile per chi credeva di esserne all’altezza, inaccettabile per chi, da osservatore si era già messo in disparte.
E forse adesso si potrà ricostruire da queste macerie una sinistra che si era allontanata da tutto e da tutti.
dazebao