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Riprendere la parola

Publie le martedì 19 ottobre 2004 par Open-Publishing

di Anna Pizzo

Ecco il testo dell’intervento di Anna Pizzo alla Conferenza plenaria del Forum sociale europeo di Londra dal titolo: "The issue of knowledge: culture, education, intellectual property and media" ["La questione della conoscenza: cultura, educazione, proprietà intellettuale e media"], che fa parte dell’asse "Giustizia sociale e solidarietà".

Alla conferenza, che si terrà all’Alexandra Palace. nella sala West Hall 2. dalle 7 alle 9 di sera, intervengono:
Supinya Klangnarong (Campaign for Popular Media Reform, Thailand); Anne Delbende (sec gen UNEF, France); Anna Pizzo (Carta, Italy); Jose Vidal Beneyto (Spain); John Pilger (journalist and broadcaster, UK); Facilitators - Sophie Zafari (FSU France); Pav Akhtar (NUS National Black Students Officer, UK)

Anna Pizzo

Se non altro, i Forum sociali, europei e mondiali, hanno consentito di vederci chiaro su molte questioni. Il primo Forum sociale mondiale di Porto alegre, ad esempio, ha fatto piazza pulita di tutti i sottili distinguo che anche una certa sinistra europea e mondiale ha tentato a lungo di proporre tra una globalizzazione buona e una cattiva. Come se le parole fossero palline di un flipper impazzito e non pesanti pietre sul destino di ciascuno di noi.
Il primo Forum europeo di Firenze, ecco un altro esempio, ha chiarito molto bene che non erano i cosiddetti "no global" a voler distruggere la città, come andava profetizzando la vestale dell’apocalisse Oriana Fallaci. ma gli amministratori della Regione Toscana, che stanno privatizzando l’acqua.
Il Forum mondiale di Mumbai, terzo e ultimo esempio, ha mostrato oltre ogni ragionevole dubbio non solo che esiste uno sterminato popolo dei globalizzati, ma che questo popolo è in grado di riprendere la parola e di riprendersi il proprio destino, come è risultato evidentissimo dall’irrompere sulla scena sociale, e quindi politica, dei Dalit, non più intoccabili.

Riprendere la parola: ecco un atto politico non solo necessario ma urgente. I Forum servono anche a questo [oltre che a molte altre cose], ma non bastano. Occorrono luoghi, tempi, forme e contenuti che consentano ai movimenti di costruire, forse con lentezza ma certo con determinazione, un’altra possibile comunicazione ,mettendo in campo risorse [soprattutto umane] e competenze, culture e immaginazione. Penso che il vecchio slogan del movimento del ’68, oggi ,dovrebbe suonare così: non più l’immaginazione "al potere" ma un’immaginazione che pervada la società, poiché il potere è una parola difficile da declinare, in questo nuovo secolo, e sono convinta, con John Holloway, che oggi occorra cambiare il mondo senza prendere il potere, anzi, che per cambiare il mondo non bisogna porsi il problema del potere.
Oggi, invece, come sostiene Roberto Savio di Ips, ci troviamo di fronte a un nuovo ordine internazionale dell’informazione, spinto e giudato dal mercato, caratterizzato da concentrazioni crescenti nel settore dei media e delle telecomunicazioni. Un sistema che tende a eliminare i meccanismi di equilibrio e controllo della proprietà dell’informazione, e quindi a omogeneizzare i contenuti.

Se questo è lo scenario, la sola domanda che ragionevolmente dobbiamo porci è la seguente: possiamo fare a meno dell’informazione?
So che potrà apparire velleitario o paradossale a molti, ma a questa domanda la mia risposta è sì.
L’informazione, che ha una data di nascita e che si è determinata in un preciso contesto storico, e che corrisponde a un preciso statuto politico ed economico, può, e penso debba avere, anche una data di morte.
Al suo posto, oggi forse ancora neonata, ma già in grado di proferire parola [e non sempre si tratta di parole che vorremmo ascoltare], si sta da più parti dando vita a forme nuove di comunicazione, che hanno, a mio parere, un paio di ingredienti fondamentali: la condivisione e la conoscenza. La comunicazione, infatti, non può essere più "proprietà" degli addetti ai lavori, non deve più necessariamente essere riservata a luoghi codificati - giornali, televisioni, radio - e anzi si diffonde nelle reti in modo certo disordinato, ma inarrestabile. Ed essendo la coumunicazione un nodo fondamentale della conoscenza, come questa non può essere una merce, è invece un bene comune dell’umanità.
Una conoscenza che nasce come merce, anzi come capitale circolante, come dice lo studioso italiano Marco Revelli, può essere offerta e venduta sotto forma di "consulenza" in un mercato di beni strumentali, che a sua volta serve esclusivamente ad alimentare il mercato delel merci. E’ una conoscenza che nasce già morta, che resta totalmente al di qua del pensiero pensante, nel campo del già esperito e del già detto. E’ una conoscenza economicamente proficua, ma socialmente inutile.
C’è però un’altra conoscenza, quella che Paolo Jedlowski chiama "il sapere dell’esperienza", intendendo con ciò il tipo di conoscenza che si produce quando la soggettività sfida e mette in gioco il senso comune, ponendo domande "strane", dubbi inconsueti e destabilizzanti, capaci di decostruire i dogmi dell’opinione [non più pubblica ma pubblicitaria]. Di far saltare gli stereotipi stabilendo un rapporto altro [che potremmo definire "diretto" o "critico" o, ancora meglio, "attivamente pensoso"] con il mondo. Non accettando le verità provvisorie del potere, anzi rifiutandole come principio di metodo. E ricercando oltre la linea d’ombra delle certezze codificate. E’ una forma di conoscenza che si fa quotidianamente, dentro e contro la quotidianità. E’ quel camminare domandando di cui ci parlano gli zapatisti, perché camminando si sperimentano risposte radicali [che cioè vanno alla radice dei problemi].
Questa forma di conoscenza che ci interessa non nasce in alto. Non è il prodotto di una sorta di sintesi a priori ma sorge e si ramifica in basso. In quello che Jedlowski chiama, appunto, lo spazio dell’esperienza. Tra le pieghe di un sociale messo al lavoro dove sono all’opera infiniti atomi comunicanti. Nasce in un fare che è, nel suo stesso processo genetico, pensiero. E che chiede parole per fare racconto di sé. Nasce lì la conoscenza, dove chi vuole sperimentare un modo nuovo di elaborare le strutture vitali di un altro mondo possibile riflette su se stesso e si racconta.

Se questo è vero, da questo momentro in poi non parlerò più di informazione ma di comunicazione. Che non vive di vita propria, ma cresce o deperisce con il crescere o deperire della società della conoscenza di cui è parte. Cosicché, mentre si diffonde un nuovo modo di pensare l’esercizio della cittadinanza, e mentre si consolidano nuove forme di comunicazione facilitate dalle tecnologie, le spinte della società sono alla continua ricerca di luoghi e forme di espressione adeguate.
Accanto alla società della conoscenza - che noi vogliamo chiamare "conoscenza della società" dal momento che, come dice Bruno Amoroso, a noi non serve una società della conoscenza alla quale, comunque, non apparterremmo, ma una conoscenza della società della quale siamo parte - c’è la Società dell’Informazione. Ho appena detto che non avrei più parlato di informazione ma sono costretta a farlo, perché è questo il titolo del Summit mondiale promosso dall’Onu di cui si è già tenuta una prima "puntata" nel dicembre del 2003 a Ginevra, e che si concluderà a Tunisi, capitale di uno stato dove la libertà di espressione è un miraggio, nel novembre del 2005.

Al centro del Wsis ci sono domande condivisibili, spazi aperti alla riflessione, luoghi che non aspetterebbero altro che di essere riempiti di soggetti in carne e ossa. Invece, e nonostante a Ginevra vi sia stato un coinvolgimento della società civile mai raggiunto in passato, gli esiti sono scontati e al tempo stesso inquietanti.
Obiettivo formale del Summit di Ginevra era individuare le strade attraverso le quali ridurre il divario tra i paesi. L’obiettivo reale era quello di stabilire in modo netto i modi e le forme del processo di privatizzazione dell’informazione già ampiamente in atto e mettere un po’ di ordine in una giungla che può essere popolata di caimani ma anche di scimpanzè.

Prendiamo la metafora della giungla e trasformiamola in cifre: la diffusione di internet nel mondo è pari a 605 milioni di utenti, che rappresentano all’incirca il 9,75 per cento della popolazione mondiale. E’ evidente che, per fare in modo che la Società dell’informazione per tutti sia una opportunità e non una nuova forma di colonialismo, sarebbe necessario coinvolgere direttamente gli attuali esclusi dal digitale. Che prevederebbe, dunque, e immediatamente, una relazione strettissima tra società dell’informazione e società della conoscenza. Ma, per le ragioni di cui parlavo prima, questo non accadra, e i segnali che arrivano dalle grandi centrali del potere mondiale, lo confermano. E’ del 31 luglio scorso, infatti, la notizia che la Wto ha autorizzato [articolo 17] l’apertura dei negoziati per il commercio dei servizi, intendendo con "servizi" anche istruzione, salute, e tutti quelli che prevedono comunque uno scambio economico. Si legge infatti nel documento finale della riunione del 31 luglio: " I membri si sforzeranno di ottenere un innalzamento progressivo dei livelli di liberalizzazione senza che alcun settore dei servizi o forma di fornitura ne siano esclusi a priori". Ecco fatto: bastano poche righe non solo per trasformare in servizio un bene comune dell’umanità come la conoscenza, o un diritto inalienabile come la salute, ma per prevederne la massima liberalizzazione, che in altri termini vuol dire la più ampia mano libera alle privatizzazioni.

Da qui al novembre del 2005 molta strada sarà già stata compiuta, e il Summit della Società dell’informazione rischia di essere il luogo dove tutto questo, altrimenti deciso, verrà solamente ratificato. Ecco perché sarebbe urgente lavorare, da qui all’appuntamento di Tunisi, per dare luogo a una maggiore consapevolezza dell’urgenza di porre mano, democraticamente, al tema della comunicazione, sul quale la politica, le organizzazioni sindacali e anche i parlamenti sono stati, fino ad ora, piuttosto distratti, perché impegnati in questioni più "importanti". Non c’è quasi nulla di più importante, a mio modo di vedere, e di più concreto, della piega che prenderà il mondo e della possibilità di invertire una direzione di marcia. Nulla di più urgente, come scrive Roberto Savio, "di una società della comunicazione che si fondi non solo sul profitto di chi deriva dal mercato la propria legittimità, ma sui principi della democrazia e dell’uguaglianza delle opportunità".

Se tutto questo è vero, è dunque necessario impegnarci per trasformare il Summit di Tunisi in una grande occasione di libera espressione di democrazia comunicativa, dando luogo a sperimentazioni, progettazioni, inedite ideazioni e nuove opportunità. E’ questo il modo concreto per contrastare la concentrazione dei media, fenomeno direttamente proporzionale al restringimento della democrazia, che ha raggiunto in Italia la sua forma più estrema e grottesca in quel Silvio Berlusconi che è al tempo stesso il proprietario [direttamente o indirettamente] di quasi tutti i media e al tempo stesso presidente del consiglio. Se vogliamo evitare che in futuro tutto questo possa ripetersi, se non addirittura peggiorare, non possiamo più affidarci alla buona volontà di "rappresentanti" più o meno sensibili alle domande che vengono dalla società civile. E’ la stessa società che deve domandare e, camminando, tracciare la propria strada, che non può essere un destino ma una scelta consapevole.
Occorre trovare un tempo, un modo e un luogo nel quale far confluire queste domande e cercare, insieme, alcune risposte.
Perché non farlo nella forma a noi "altermondialisti" più consona, che è quella del Forum? Perché non farlo a scala europea, provando a ridisegnare diritti e spazi democratici espulsi dai trattati che si stanno ratificando? Perché non farlo prima del Summit del Wsis di Tunisi, e cioè prima del novembre 2005 per arrivare in quella sede con un bagaglio ben solido di argomenti da contrapporre alla idea netta e perciò terribile del liberismo?
Se a queste domande semplici si può dare una risposta semplice, è ora il momento di darla. Tutti assieme.

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