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Ritratto dell’amico Fausto, ragione e passione politica
Publie le mercoledì 3 maggio 2006 par Open-Publishingdi Rina Gagliardi
Quel giorno del 1980, in un cinema di Torino, il popolo operaio della Fiat piangeva la sconfitta dei trentacinque giorni. L’ho conosciuto così
Chi l’avrebbe mai detto? In quel giorno lontano del 1980, in un cinema di Torino, il popolo operaio della Fiat piangeva la sconfitta dei trentacinque giorni. E quel sindacalista quarantenne - che però pareva un ragazzo, con quella faccia aggraziata, gli occhi chiari, un sorriso accattivante - piangeva più di tutti: come fa chi sa di aver perso, di aver dovuto firmare non un cattivo accordo, ma una sorta di resa “storica”. Fausto Bertinotti, da ieri presidente della Camera, terza carica istituzionale della Repubblica, l’ho conosciuto così: dentro una temperie drammatica della lotta operaia in cui era stato protagonista, ma non vincitore. Dentro una vicenda-spartiacque che avrebbe inaugurato il ventennio del neoliberismo, della rivincita padronale, della ristrutturazione selvaggia, della “mobilità” a senso unico della forza-lavoro. Eppure, a differenza di gran parte della sinistra e della dirigenza nazionale del sindacato, non aveva cercato di edulcorare la batosta, di rivestirla di parole rituali, o addirittura di travestirla da “compromesso avanzato”: aveva capito, prima degli altri, che stava cominciando, qui e altrove, una stagione oscura. La grande gelata degli anni Ottanta.
Ventisei anni dopo, tocca proprio a quel sindacalista anomalo sedersi sullo “scranno” che già fu di Pietro Ingrao e di Nilde Iotti. Un’astuzia della ragione storica, hegelianamente parlando? Un risarcimento simbolico (e non solo) dell’amarezza di quei giorni? La prova, l’ennesima, che la politica procede sempre, sui cicli lunghi, per salti, zigzag, contraddizioni? Chissà. Ventisei anni dopo, nessuno di noi è la stesso. Anche Bertinotti non è più lo stesso - e non solo perché ha qualche capello di meno e qualche ruga in più. In realtà, invece, è proprio la stessa persona che allo “Smeraldo” parlava con la voce incrinata e il cuore a pezzi: in mezzo ci ha messo “soltanto” la capacità di percorrere la strada meno comoda e scontata, quella che tiene insieme ragione e passione politica. Ha scritto in uno dei suoi primi libri-confessione: “...io so, per esempio, che qualunque cosa faccia d’ora in avanti, resterò sempre e comunque un sindacalista” (“Tutti i colori del rosso”, a cura di L. Scheggi Merlini, 1995)
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Quando da Torino si trasferì a Roma, Bertinotti toccava la prima tappa rilevante della sua “carriera”, l’ingresso nella segreteria nazionale della Cgil. Era il 1985, anno terzo dell’era di Bettino Craxi. C’era già stato quasi tutto, il taglio di San Valentino della scala mobile, la lunga battaglia di resistenza culminata nella manifestazione del 24 marzo ‘84, la morte improvvisa di Enrico Berlinguer, ed era alle porte la sconfitta referendaria. Al palazzo aragosta di Corso d’Italia, dunque, arrivava un sindacalista di movimento, per di più di quella “specie” particolare che era cresciuta alla scuola torinese e piemontese, quella di Emilio Pugno, di Pierino Caroli, di Tino Pace - quella per la quale i mostri sacri “romani” non esistevano, si chiamassero anche Sergio Garavini o Bruno Trentin. Ma Bertinotti non. portò soltanto un “vento di sinistra”: inaugurò uno stile, un’antropologia. Del suo trasferimento a Roma, per esempio, aveva discusso molto seriamente con la sua compagna Lella e il figlio allora quattordicenne - un esempio per l’epoca rarissimo di “democrazia familiare” integrale. Arrivato nel palazzo, stupì tutti per il fatto che ogni mattina, entrando, salutava, per primi, i compagni addetti all’ingresso e al centralino, un’abitudine che conserverà fino alla fine del suo mandato - non sembri una sciocchezza, così non si comportava quasi nessun altro dirigente. Infine, e non ultimo, discuteva con tutti, e di tutto: ascoltava e imparava, riascoltava e s’incuriosiva, pur avendo idee basiche e categorie di lettura della realtà sostanzialmente “ferree”. Ecco, Bertinotti sconvolgeva (quasi) tutti gli stereotipi consolidati del sindacalista: militante e combattivo, fino all’ostinatezza e, talora, alla caparbietà, come chi era stato allevato nelle Camere del lavoro del nord operaio, ma al tempo stesso spiritualmente “educato”, come chi è dedito alle buone letture, alla riflessione sui grandi temi della politica e della società, alla ricerca. Si può dirla così: era già allora un ossimoro vivente. Certezze granitiche e dubbio organico, coerenza e apertura, riferimento forte alla tradizione e capacità anche radicale di innovazione, convivevano felicemente nei suoi interventi e lavoro politico. Una peculiarità che spiazzava, affascinava, coinvolgeva qual, che volta divideva. Poi, certo, quando si trattava di prendere decisioni impegnative - magari di rompere equilibri e prassi consolidati - andava fino in fondo. Fu così che maturò il conflitto politico con Bruno Trentin, padre nobile della sinistra e del sindacato italiano: prima con il “documento dei 39”, che poneva il tema della democrazia interna nella Cgil, e poi con la nascita di “Essere Sindacato”, Bertinotti divenne un leader nazionale. Un punto di riferimento, prima, della sinistra sindacale, poi, via via, di un movimento più vasto. Man mano, il suo rapporto con la Cgil - che era stato per più di vent’anni di identificazione totale - diventò sempre più critico: dal congresso di Rimini del 1991, Bertinotti fu, per eccellenza, l’“oppositore”, in un’organizzazione, come la Cgil, storicamente strutturata su componenti politiche e di partito (comunisti, socialisti, poi nuova sinistra), che tendeva a non accettare, più di tanto, il dissenso interno organizzato. Quando si arrivò a firmare i celebri accordi del ’92 e del ’93, che sancivano la politica della concertazione e della compatibilità piena con le logica d’impresa, per lui l’aria si fece quasi irrespirabile. Nel clima segnato dalla vicenda di Tangentopoli, dalla crisi verticale della prima repubblica, cioè dei partiti di massa, dai governi “tecnici” (Ciampi e Amato), Bertinotti uscì dal Pds e si dimise dalla Cgil - lo fece, se così si può dire, senza rete, senza ancora immaginare il suo futuro politico. Come quando qualcosa che pure è stato prezioso ed anzi essenziale, compreso un sistema densissimo di relazioni e rapporti umani, si è lacerato per sempre. Era il marzo del ’93, mi pare. Un altro anno difficile per i movimenti e per la sinistra. Un altro tempo di dura resistenza.
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Sulle modalità che determinarono l’ascesa di Bertinotti alla segreteria nazionale di Rifondazione comunista - sancita dal II congresso nazionale del gennaio 1994 - sono circolate molte leggende, e ricostruzioni contrastanti. Ma forse più di ogni altra cosa valse un incrocio, o un incontro, “oggettivo”: da un lato, c’era un partito, Rifondazione comunista, senza leader (Sergio Garavini si era dimesso, al termine di uno scontro interno molto duro, nell’estate del ’93); dall’altro lato, c’era un dirigente della sinistra, Bertinotti, senza partito. Certo, qualcuno, più d’uno, aveva immaginato che Bertinotti sarebbe stato, in buona sostanza, un segretario “manovrabile”: del resto, nessuno, forse neppure lo stesso Bertinotti, conoscevano le sue qualità di dirigente politiche dentro un partito complicato come il Prc, allora controllato da Armando Cossutta. Un errore di previsione, o un calcolo, davvero grossolani. Ma un errore “comprensibile”: uno che era nato e cresciuto nel sindacato, che aveva spiccate tendenze intellettuali, che non aveva fatto, o quasi, vita di partito, non lasciava presagire, ai più, l’originalità e la stoffa della sua leadership. Per di più, c’era sempre quella sua capacità di spiazzare gli interlocutori. Qualche anno dopo, quando ancora la diarchia del Prc funzionava egregiamente, Armando Cossutta mi raccontò di esser rimasto sinceramente stupefatto dalla totale “assenza di pretese” di Bertinotti, già segretario in pectore del Prc: Cossutta gli aveva chiesto, più o meno, “che cosa vuoi”, quando diventerai segretario, quali condizioni poni, chi pensi di collocare negli organigrammi, e si sentì rispondere, all’incirca, “nulla”. Si tratta forse di un unicum nella storia dei partiti politici. Ma Bertinotti - ieri come oggi - non ha mai avuto il gusto di comporre organigrammi, o di giocare con la dimensione tattica della politica (arte in cui per altro si è poi dimostrato alquanto versato): ha puntato sempre sull’egemonia, sui rapporti che riusciva a stabilire e costruire, sulla dinamica dei processi politici reali. E con il potere il suo rapporto non è mai stato disinvolto, se mai molto imbarazzato, insomma il contrario del cinismo che impera.
Dello stesso genere, credo, è stato il suo rapporto con i media e, segnatamente, con la televisione: una responsabilità, una sfida, un compito nuovo, affrontati con piglio “naturale”, senza sovrapposizioni, senza dover essere. La prima volta in Tv, mi pare di ricordare, fu un “duello” con Mariotto Segni, in una trasmissione condotta da Lilli Gruber - sugli spalti, c’erano le due “squadre” dei duellanti, pronte ad intervenire su richiesta. Allora, Segni era uno dei politici più noti d’Italia - tristemente noti per aver guidato lo schieramento referendario destinato a smantellare la prima repubblica e a introdurre il maggioritario. Bertinotti era appena arrivato al vertice di Rifondazione. Eppure, vinse “alla grande”, stracciò dialetticamente il suo antagonista con nonchalance ed eleganza - con forza politica ma senza durezze. Una sorpresa, questa sì, per tutti, la prima performance tv di Bertinotti. Una sorpresa, come del resto, i suoi primi comizi alle feste di Liberazione, tenuti di fronte ad una folla oceanica. Il primo banco di prova, certo, erano state le elezioni politiche, quello sciagurato ’94 in cui Silvio Berlusconi, “in campo” da tre mesi, aveva battuto la coalizione progressista data per sicura vincente da tutti, book makers di Londra compresi: lì, Bertinotti aveva lanciato il tema della tassazione dei Bot, irritando il vertice diessino e l’opinione moderata (sono passati dodici anni, ma la questione della lotta alla rendita resta attualissima.
O no?). Lì aveva rivelato le sue doti di fantasia e autonomia politica sui quali in pochi avevamo scommessi. Lì, insomma, aveva cominciato ad affermare sul campo una autentica statura di leader davvero popolare - come non ce ne sono oggi in Europa. Perfino dal punto di vista “sociologico”, il feeling con larghe masse di popolo, di giovani, di lavoratori che Bertinotti è riuscito a stabilire negli anni si configura come un fenomeno tutto da studiare - in una fase storica di crisi della politica e della fiducia di massa nella politica. Politicamente parlando, è la figura politica che ha maggiormente contribuito, a cavallo tra i due secoli, al rilancio della rappresentanza: capite perché lo hanno eletto presidente della Camera e nessuno, anche e soprattutto tra i nostri avversari, ha trovato molto da ridire?
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Ma che tipo di uomo è Fausto Bertinotti? E come ha fatto a conquistare un successo, politico e personale, così oramai indiscutibile? Non è facile rispondere a domande, o curiosità, come queste. Che si tratti di una persona di grande spessore intellettuale e culturale, è evidente a chiunque. Che sia curioso, aperto, vocato alle relazioni con il prossimo, è altrettanto evidente. Che sia dotato di un’attitudine del tutto originale all’elaborazione politica, all’“invenzione”, alla mediazione originale, antiburocratica, tra teoria e prassi, è chiaro, non solo per i militanti di Rifondazione comunista. Ma c’è, sicuramente, dell’altro - anche un pizzico di fortuna, certo. A mio modesto parere, Bertinotti anche un uomo “semplice” - semplice nel senso brechtiano del termine, nel senso di quella “sofisticata semplicità” tanto difficile a farsi e a praticarsi. Semplice come sinonimo di autentico - e tra le tante virtù che fanno di un dirigente politico un leader vero l’autenticità, quasi più dell’intelligenza, è una qualità rarissima. Significa che Bertinotti è stato capace, prima da sindacalista, poi nei mari procellosi della segreteria di Rifondazione comunista, tra scissioni, battute d’arresto, ripartenze e rilanci, nei rapporti con il resto della sinistra e con i movimenti, con gli interlocutori più distanti e financo con gli avversari, di essere sempre, “semplicemente”, se stesso - compresi i suoi difetti. Qui, c’è il segreto di un comportamento sempre ispirato da una coerenza rigorosa, per qualcuno maniacale, che si trasforma, ogni volta che è necessario, in fertile duttilità. La capacità di procedere, quando di meglio non si può fare, “per approssimazioni successive”, ed eventualmente anche per errori e correzioni. La voglia di confrontarsi, sempre, con la realtà del mondo “grande e terribile” che ci sta di fronte, nulla a che fare con la banalità del realismo. E quindi la curiosità verso ciò che è diverso da sé, come regola aurea della propria condotta - credo che questa norma valga per il Bertinotti “privato” come per quello “pubblico”. Che, del resto, non ha mai davvero vissuto queste due dimensioni come separate, distanti, o cinicamente contraddittorie: anche in questo la sua “semplicità” fa rima con “integrità” e tensione morale. Non è tanto più semplice, in fondo, essere se stessi piuttosto che inseguire per tutta la vita un modello forzato di sé, o di successo, o di potere?
Infine, la leadership di Bertinotti ha sempre avuto un tratto specifico di fraternità. Il leader, per solito, richiama la figura paterna - ha l’autorità o l’autorevolezza che si conferisce al padre. Bertinotti trasmette - nel privato come nel pubblico - l’immagine di un fratello. Forse di un fratello maggiore, che ti precede sempre nei pensieri, soprattutto quelli grandi, che sa e sa fare di più, che può rappresentarti e anche guidarti - ma da distanza non sacrale, e sempre all’interno di una complicità affettuosa che non ti schiaccia. Anche questa qualità peculiare, ne sono sicura, farà di Bertinotti un presidente della camera straordinario, nel senso letterale del termine. Un amico. Un amico del popolo.
Liberazione