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Roma. Una palestra, il letto per centinaia di richiedenti asilo

Publie le venerdì 3 febbraio 2006 par Open-Publishing

di Valeria Brigida

La chiameremo D.. Un sorriso che trasmette benessere, incorniciato in
due morbide guance. D.ha gli occhi scuri come la pece. La pelle scura.
Il suo foulard rosa ogni tanto scivola indietro e lei, con molta
ironia, riavvicina il lembo superiore alla fronte: "Vanno coperte le mie vergogne!".
Le sue vergogne. Noi, in realtà, scrutiamo solo qualche filo bianco tra
i suoi capelli ricci e neri. Sono segnali di vita vissuta, indizi di 30
anni spesi alla continua ricerca del benessere, della felicità. Un
lungo viaggio, la fuga dal paese "di fuoco", come a D. piace chiamarlo.

E’ l’Etiopia. Sedute accanto a lei, ci lasciamo trasportare nei suoi
racconti, scivoliamo tra le sue parole con la stessa lentezza in cui ci
ha fatto adagiare sul suo giaciglio. Una panca, avvolta con cura in una
coperta marrone di un tessuto grezzo e duro: questo il suo letto. Ai
nostri piedi una cassetta del mercato che con sapiente eleganza D. ha
saputo trasformare in un comodino. Sopra, la sua cristalleria di
plastica con cui serve il tè. 20 centesimi per un bicchiere di tè con
lo zucchero. D. lo vende a tutti coloro che vogliono scaldarsi dalla
miseria che li circonda. Anche noi lo compriamo e, insieme a lei e a
tutti i curiosi che nel frattempo si sono avvicinati, cerchiamo di
capire come sia potuto accadere. Siamo a Roma, in via Greve, nei pressi
della Magliana.

Centinaia di somali, eritrei, etiopi, sudanesi,
dimorano in via temporanea in una palestra di un’ex-scuola, concessa
dal Comune di Roma. Lo stabile è ancora utilizzato una volta a
settimana, come spazio che ospita il laboratorio teatrale del liceo
Montale. Quelli di fronte a noi, però, non sono attori, ma gente vera.
In comune tra loro è la richiesta di status di rifugiato politico. "Se
il vostro paese smettesse di vendere fuoco, regalasse un pò d’acqua ai
nostri paesi, non vi disturberemmo più. Toglieremmo il disturbo dalla
vostra casa e daremmo a voi il permesso di venirci a disturbare tutte
le volte che ne avete voglia".

Invece, D. è qui, perchè il governo
italiano e la sua combriccola internazionale continua a preferire il
traffico d’armi e ad incentivare l’odio e quelle che ancora qualche
ostinato scienziato continua a etichettare "guerre tribali". Su e giù,
di fronte ai nostri occhi, si incrociano come in una danza, uomini e
donne che puliscono senza sosta quegli spazi, che ora ospitano la
nostra presenza. Tutto è mantenuto perfettamente pulito da quelle
stesse comunità. "Scusate se scherzo sempre, ma io sono fatta così".
Se D. non avesse il dono dell’autoironia, forse tutto questo sarebbe
troppo. Ha dei figli, una di loro sta per finire il master in
architettura a Milano.

Continua a studiare, ogni tanto sente la madre.
Non sa che D. vive da 7 giorni, ammassata in una palestra abbandonata.
Lei non sa che quando D. e tutti i suoi compagni di sventura hanno
provato a portare il cibo lì dentro, sono stati arrestati da un secco
"no". No, il Comune di Roma sembrerebbe aver dato precise disposizioni:
si concede una vecchia palestra per dormire e 3 bagni per lavarsi. Ma
non dovrà esserci alcun tipo di mensa. Per il cibo il Comune ha pensato
di indirizzare alla Caritas le centinaia di persone disorientate.
Provvederanno loro a fornire un piatto caldo. Le coperte come quella su
cui siamo sedute? "Beh, anche questa è del volontariato!",
risponde D.. Nella folla di curiosi attorno a noi spunta una figura
alta, magra.

Una cascata di riccioli neri, tra cui si scorge un sorriso
luminoso. Sostiene di avere 18 anni, subito smentiti dalla sua pelle
liscia. Anche lui, partito dal "continente nero", ma appena arrivato a
Roma. Ci trascina nella palestra: un puzzle costellato di coperte e
corpi stanche che cercano riposo sul pavimento. Niente brandine. Lui
sorride. La sua amica tenacia l’ha sostenuto sotto il sole cocente del
deserto. La speranza gli ha sussurrato che oltre la Libia avrebbe
trovato "la penisola felice".

Il coraggio lo ha condotto su una
carretta del mare. Il lungo viaggio in mare. Il triste sbarco a
Lampedusa. Ce l’aveva fatta. Eppure, giovane, troppo giovane per
passare 5 giorni nella Guantanamo italiana. Un nuovo paese chiamato
Crotone. Poi, la fuga verso Roma. Ora, qui, appena arrivato, i suoi
occhi non hanno cessato di brillare all’idea di una nuova vita. La
scintilla, ormai morta negli occhi di D., in lui è ancora troppo viva. "Lì non possiamo vivere, qui neanche. Come si fa? Penso che anche un verme ha il diritto di vivere e di non essere schiacciato".

Lo so bene, D.. Anche "loro" sanno. Eppure, sembrano ignorare e ad
aiutarli nella loro follia, lo sguardo cieco di buona parte del quarto
potere.

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