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Romeni e purosangue

Publie le venerdì 9 novembre 2007 par Open-Publishing

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> su Il Manifesto del 06/11/2007
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> Nella sua autobiografia, Black Boy, Richard Wright ricorda la paura con
> cui cresceva un ragazzo nero nel Sud razzista degli Stati uniti: ogni
> volta che succedeva qualche cosa, scrive, «non era un crimine commesso da
> un nero, ma dai neri». Tutti i neri erano colpevoli, qualunque nero andava
> punito, e la forma della punizione era il linciaggio. Ai linciaggi ci
> siamo arrivati. Il delitto di Tor di Quinto non è stato commesso da un
> rumeno, ma dai rumeni. E dieci cittadini italiani purosangue, con coltelli
> e bastoni, e incappucciati come il Ku Klux Klan, fanno giustizia a Tor
> Bella Monaca. Ed è inutile condannare queste cose a posteriori, bisogna
> pensarci prima alle conseguenze di certi discorsi. Ma è ben avviato sulla
> strada della punizione collettiva, a colpevoli e innocenti
> indiscriminatamente, anche lo sbaraccamento del campo di Tor di Quinto; è
> una punizione collettiva e preventiva il «trasferimento» dei rom oltre il
> raccordo anulare, spostare il problema un po’ più in là, come la polvere
> sotto il tappeto. Perché è vero che il problema esiste, non nascondiamoci
> dietro un dito.
> L’associazione che gestisce un campo sportivo accanto al terreno di Tor di
> Quinto da anni denunciava furti continui, scriveva al sindaco e non
> riceveva risposta. La Romania (ma non era l’Albania, fino a qualche mese
> fa?) europea e democratica liberatasi dal comunismo non ci ha mandato
> soltanto il meglio di sé, come d’altronde l’Italia dell’emigrazione non ha
> mandato e non manda soltanto il meglio di sé in America o in Germania. Le
> migrazioni sono fiumi che si portano appresso anche un sacco di detriti, e
> non c’è diga che tenga. Ed è vero che la sicurezza è un requisito
> importante della vita civile, un diritto democratico: di che altro
> parlavano le donne che, almeno trent’anni fa, prima che ci fossero
> albanesi o rumeni a Roma, manifestavano con lo slogan «riprendiamoci la
> notte»? Ha detto il segretario del Partito Democratico che la sicurezza
> non è né di destra né di sinistra. Giusto. Però sono di destra o di
> sinistra le definizioni che ne diamo, e le risposte che proponiamo. Tutte
> e tutti abbiamo il diritto di uscire da una stazione di sera senza avere
> paura; ma tutte e tutti abbiamo anche il diritto di non essere ammazzati
> in carcere a Perugia o a Ferrara, di manifestare senza finire torturati a
> Bolzaneto. Certo, per le persone ordinarie il rischio di strada è più
> immediato e concreto del rischio in carcere o in piazza; ma c’è uno
> scivolamento pericoloso, quando lo stato che chiamiamo a garantirci la
> sicurezza dai crimini dei marginali si considera al di sopra delle leggi e
> delle inchieste. Tanto che uno esita prima di dire che, in certi luoghi e
> in certi tempi, prima che i delitti avvengano, ci vorrebbe più polizia
> (polizia, dico: non vigilantes privati). Io non so se sarebbe stato di
> destra o di sinistra illuminare meglio quella strada e quella stazione
> (quelle stazioni: io e la mia famiglia frequentavamo quella successiva, a
> Grottarossa, e avevamo paura di scendere la sera, anche se non c’erano
> ancora rumeni nei dintorni).
> Fra l’altro, sono convinto che l’abbandono è anche conseguenza (di destra
> o di sinistra?) della rinuncia a fare delle ferrovie urbane una seria
> alternativa al feticcio automobile, ma questa è anche un’altra storia. E
> non so se sarebbe di destra o di sinistra accorgersi prima che sia troppo
> tardi delle condizioni criminogene in cui vivono migliaia di nostri
> concittadini europei, e fare qualcosa per i diritti umani di quella
> maggioranza di loro che non è venuta qui per delinquere. Anche loro hanno
> diritto alla sicurezza. Dopo il linciaggio di Tor Bella Monaca, il
> ministro degli interni Amato dice, «è quello che temevo»; il prefetto di
> Roma, Mosca, dice, «era quello che temevamo». Bene: che cosa avete fatto
> per prevenirlo?
> E poi, ovviamente, la punizione ci vuole: personale e col dovuto processo
> di legge, non collettiva e vendicativa; ma ci vuole. Stavolta, anche
> grazie all’aiuto di una donna del campo, il colpevole è già in prigione e
> sconterà la giusta pena, con la dovuta certezza. Ma gridare al «pugno
> duro» è infantile e strumentale. Sappiamo benissimo, e se ne stanno
> accorgendo persino gli Stati uniti, che nemmeno la pena di morte fa
> veramente da deterrente alla criminalità. Inseguire la destra sul piano
> della repressione è come la corsa di Achille e la tartaruga: loro stanno
> sempre un po’ più in là, un po’ oltre. Più parliamo il loro linguaggio,
> più facciamo propaganda alle loro idee, più gli prepariamo la rivincita.
> Se non vogliamo ritrovarci, come da più parti già si annuncia, con Fini
> sindaco di Roma, proviamo a fare nostre le sagge e preoccupate parole di
> Stefano Rodotà: «Serve davvero, con ’necessità e urgenza’, un’altra forma
> di tolleranza zero. Quella contro chi parla di ’bestie’ o invoca metodi
> nazisti. Non è questione di norme. Bisogna chiudere la ’fabbrica della
> paura’. È il compito di una politica degna di questo nome, di una cultura
> civile di cui è sempre più arduo ritrovare le tracce».