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SECONDA CONFERENZA NAZIONALE DI SINISTRA CRITICA. Relazione Cannavò.
Publie le domenica 8 novembre 2009 par Open-PublishingSECONDA CONFERENZA NAZIONALE DI SINISTRA CRITICA. CONTRO LA CRISI UNA NUOVA SINISTRA
E’ cominciata oggi la Conferenza nazionale. Dopo l’insediamento della Presidenza e l’elezione delle commissioni, nel pomeriggio, con la stragrande maggioranza dei delegati già arrivati e arrivate (circa 200) si è tenuta la relazione introdutiva, a nome del Coordinamento uscente, di Salvatore Cannavò. Che pubblichiamo qui integralmente.
Relazione introduttiva
Questa Conferenza nazionale di Sinistra Critica è stata lunga, cominciata quasi un anno fa, in parte difficile così sovrapposta a un’agenda fitta. Ma certamente è stata utile, ci è servita e ci servirà.
Non era scontato che giungessimo qui, che resistessimo allo sfibramento della sinistra italiana, ai suoi errori e alle sue colpe. Non era scontato riuscire a organizzare circa 50 conferenze locali, tenere il filo di un’organizzazione indipendente, critica e attiva in una fase in cui le forze della sinistra non convincono anche perché divise e incapaci a lavorare insieme. Non era scontato che mettessimo all’ordine del giorno la cura per questo nostro progetto politico, la sua tenuta e il suo rilancio. Esserci riusciti è già un primo risultato del quale essere soddisfatti, nonostante una conferenza in parte costretta a un dibattito rivolto all’indietro, con una posizione di minoranza che, di fatto, ci chiedeva di sconfessare quanto realizzato finora e ritornare all’ovile di un’unità politica della sinistra assai astratta e pericolosamente subalterna.
Che la fase sia difficile non ce lo neghiamo e che anche questo nostro dibattito ruoti intorno a una difficile tenuta è del tutto evidente. Ma Qui Siamo e da qui cerchiamo di produrre un’iniziativa politica e una serie di idee per resistere alla crisi e progettare una nuova sinistra in questo paese. Una sinistra anticapitalista adeguata alla natura e all’intensità della crisi stessa.
La crisi infatti non è finita a dispetto delle vere e proprie menzogne che vengono veicolate dagli Uffici studi, dagli organismi internazionali o dalle istituzioni finanziarie. La crisi in realtà, dispiega ora i suoi effetti drammatici e ora inizia a produrre i suoi effetti sociali. E’ stato il Banco alimentare, qualche giorno fa, a denunciare il fatto che circa tre milioni di italiani vivono al di sotto della soglia di sussistenza alimentare, espressione tecnica per dire che sono alla fame. E la moltiplicazione del ricorso alla Cassa integrazione - cresciuta del 400% - , gli oltre 600mila posti di lavoro persi in un anno, la resistenza furibonda a rinnovi contrattuali decenti, quel licenziamento di massa compiuto nella scuola pubblica con il mancato rinnovo dei contratti a tempo determinato per gli insegnanti precari sono solo alcuni dei segnali di questo deterioramento.
Pochi giorni fa si è gridato al miracolo perché il Pil degli Usa è cresciuto del 3,5% nel terzo trimestre. Pochi però hanno sottolineato che tale crescita, spalmata su un anno è pari solo a un +0,2% e che comunque il saldo complessivo della crescita economica - ammesso che la crisi si possa misurare solo con questi dati - è ancora negativo. E infatti negli Stati Uniti la disoccupazione arriva già al 10% e tutti pensano che debba solo salire. Così come in pochi fanno caso a quanto ha scritto due settimane fa Il Sole 24 Ore, osservando che «la situazione finanziaria delle imprese Usa non è mai stata così florida in tempi di recessione». E’ probabile, dunque, che nel breve periodo si possa assistere a qualche rimbalzo e a una breve ripresa dettata dall’immissione massiccia di risorse operata dai governi di tutto il mondo: se la General Motors, del resto, ha deciso di rinunciare alla vendita di Opel o la Ford ha potuto annunciare un miliardo di dollari di utile nel terzo trimestre lo si deve anche a un deficit Usa che è arrivato al 10% del Pil.
Ma la crisi persisterà, anche perché, come si vede, quelle risorse sono andate a rimpinguare i profitti e approfondirà gravi diseguaglianze, ripartizione del reddito al contrario spostando risorse dal lavoro e dai servizi sociali alle grandi imprese e banche. Perché in realtà stiamo parlando di una crisi strutturale tale da mettere in discussione i livelli di accumulazione complessiva del capitale e i suoi livelli di margine. E’ una crisi di sovrapproduzione che ha bisogno di distruzione di capitale e quindi ristrutturazioni radicali, ri-gerarchizzazioni a livello internazionale, nuovi equilibri. Si muove in forme diverse lungo il pianeta ma assume caratteristiche analoghe. E generalizza una instabilità generale, una lunga fase di transizione in cui crisi economica, crisi ambientale, crisi democratica si sommano e segnano la fase in cui viviamo.
a) Gli Usa sono alle prese con un sovraindebitamento pubblico e privato senza precedenti che si somma a una perdurante crisi di egemonia sul piano internazionale, costretti a confrontarsi con nuove potenze emergenti, la Cina ma anche Brasile, Russia, India. L’elezione di Obama è servita a recuperare leadership e a ridare maggiore solidità alla "Nazione". Ma oltre alle aspettative dell’establishment nordamericano Obama deve anche rispondere a quelle della popolazione, in particolare la popolazione nera, che ha aderito emotivamente ed entusiasticamente alla sua vittoria. Alcune delusioni iniziano già a mostrarsi: sulla riforma sanitaria, sul ritiro delle truppe, sulla politica in America latina.
E lo stesso multilateralismo, che costituisce la cifra della nuova politica obamiana, in realtà, come era già accaduto con Clinton, non modifica la propensione imperiale in Iraq, Afghanistan o America Latina, come mostra il caso dell’Honduras. Obama, inoltre, sta producendo un peggioramento del conflitto israeolo-palestinese - con un serrato appoggio dell’Amministrazione Usa all’oltranzismo israeliano. La nuova presidenza misurerà il proprio successo sulla capacità di uscire alla dura recessione. Ma non potrà non fare i conti con i risultati della riforma sanitaria e con la politica militare. La fase di crisi ne caratterizzerà dunque la presidenza con esiti inquietanti.
Il Sud America è toccato marginalmente dalla crisi finanziaria, ma rischia di dover affrontare una forte crisi di realizzazione dovuta alla caduta dei prezzi delle materie prime. L’America latina, inoltre, è destinata a reagire in forme diverse alla crisi vista l’importante diversificazione al suo interno tra governi di destra e/o reazionari - Messico, Colombia, Peru - governi social-liberisti spesso dall’ampio consenso popolare - Brasile, Cile, Nicaragua, Uruguay (al voto in questo momento) e governi in conflitto con l’imperialismo e legati a istanze e bisogni popolari come Ecuador, Venezuela e Bolivia (pur con differenze tra essi stessi). Governi che vanno sostenuti, sia pure criticamente, come Cuba del resto, soprattutto nel loro sforzo di sperimentazione e di dibattito attorno al Socialismo del XXI secolo. Sono i paesi, del resto, in cui la crisi potrà rafforzare la necessità di radicalizzare risposte in senso socialista e in cui, proprio per questa dinamica, si possono produrre dibattiti, ma anche scontri, di grande rilevanza e importanza.
In Asia la prima cosa ad essere entrata in crisi è il rapporto privilegiato con gli USA. La necessità di stimolare la domanda interna è evidente tanto in Cina quanto in India. Tuttavia la Cina sembra essere l’unica in grado a livello mondiale a poter promuovere politiche di stampo keynesiano contro la crisi utilizzando un sistema perverso fatto di continue aperture al mercato ma gestito da un rigido e autoritario governo centrale. Nel ventesimo anniversario del massacro di Tienanmen, sottolineare questo aspetto del regime cinese ci pare importante: ci schierammo allora con gli studenti e ancora oggi saluteremmo con favore una mobilitazione popolare contro il governo di Pechino.
In ogni caso i primi piani di rilancio sembrano indirizzati nella direzione di un più ampio intervento governativo con un forte aumento degli investimenti pubblici (+ 38,7%). Tuttavia il sostegno della domanda interna è ovviamente cosa molto complessa, soprattutto per un paese che ha fatto del basso costo della propria forza lavoro un elemento strategico nella competizione economica internazionale.
L’Europa, infine, è di fronte ad una crisi complessiva, non soltanto economica ma politica e di prospettiva. Grazie a concessioni e forzature il Trattato di Lisbona è stato approvato ed entrerà in vigore il 1 dicembre. Ma questo non significa che l’Europa abbia quella spinta propulsiva che pure ha avuto nel corso degli anni 89 e 90. Il colpo infertole dai referendum negativi in Francia e Olanda si fa ancora sentire e le contraddizioni al suo interno potrebbero portare a rotture dell’intero processo. Perché è chiaro che c’è un’oggettiva difficoltà a trovare risposte unitarie alla crisi e il modello che si afferma al momento vede ogni paese agire in autonomia dagli altri. Tutto questo è in realtà facilmente spiegabile: la crisi sta colpendo in modo molto diverso i vari paesi che quindi hanno la necessità di rispondere in modo diverso; si pensi alla diversità dei debiti tra Danimarca e Italia o alla propensione all’esportazione della Germania o ancora ai diversi livelli salariali o di welfare nonché ai diversi gradi di imposizione fiscale. C’è inoltre una differenza macroscopica tra l’Europa Occidentale e quella Orientale, dove la crisi torna dopo vent’anni di capitalismo sfrenato provocando fenomeni di nostalgia per i passati regimi o, peggio, processi di radicalizzazione politica a vantaggio della destra più estrema.
In realtà, spazzando via le teorie dell’"Impero", la crisi ha ricordato a tutti la valenza e la centralità che ancora hanno gli stati nazionali che, pur erosi in molte delle loro funzioni e prerogative, restano il luogo in cui governare i processi, gestire i capitalismi nazionali, distribuire le risorse, regolare il conflitto di classe. Questa evidenza è l’elemento che più indebolisce il processo unitario europeo. Altra dimensione e proiezione, non a caso, hanno invece paesi come Cina e Usa che costituiscono i perni di una possibile polarizzazione del mondo.
Una piattaforma radicale
Uno scenario di crisi, dunque, e le vie di uscita possono essere rappresentate anche da smottamenti democratici, derive populiste, in alcuni casi fascistoidi. Anche perché alla crisi del capitalismo fa da contraltare una corrispettiva crisi del movimento operaio in cui la componente socialdemocratica si è resa complice da tempo della governabilità del sistema, quella classicamente comunista vive una lunga fase di declino e le forze della sinistra anticapitalista o rivoluzionaria non riescono ancora a rappresentare un’alternativa, tranne alcune significative eccezioni.
Non è un caso, dunque, che non si veda nessuna via di uscita di stampo neokeynesiano, a eccezione della Cina. E questo per un motivo evidente: tali politiche hanno funzionato in realtà in un periodo di espansione economica e non di recessione e oggi senza una forte distruzione di capitale non si può reinventare una domanda che in molti paesi (fatta eccezione per la Cina) è satura. Da qui i rischi di un peggioramento ulteriore della situazione. Certamente, la quantità di risorse inalata nel sistema negli ultimi due anni produrrà una mini-ripresa e un possibile rimbalzo. Ma questo non sarà risolutivo e la previsione più probabile è quella di una prolungata stagnazione.
Le risposte dovranno dunque essere adeguate. Proprio perché strutturale e virulenta non bastano misure di pallida riforma, non basta un neo-keynesismo morbido improntato a una semplice piattaforma antiliberista (chi pensa che oggi possa bastare la Tobin Tax?).
Ci sono, certamente, obiettivi immediati che possono giocare un ruolo positivo, risposte di stampo neo-keynesiano che possono costituire uno scenario alternativo - il ricorso alla spesa sociale e agli investimenti pubblici, gli ammortizzatori sociali, un intervento pubblico regolatore - ma per dare a queste risposte una solidità, una durata e una capacità di mobilitazione - che resta l’elemento decisivo - serve un orizzonte più coerente, un riferimento anticapitalistico, una capacità di sovvertire i modelli egemoni e prospettare un’alternativa di sistema. Proprio perché la crisi è grave, proprio perché il capitalismo mostra intere le sue debolezze occorre un surplus di immaginazione sul piano degli obiettivi di fondo, mostrare che si può produrre e vivere capovolgendo le priorità e le gerarchie: le nostre vite contro i loro profitti, per dirla con uno slogan felice.
Ecco perché dobbiamo approfondire i temi di una possibile piattaforma di lotta, da confrontare con altri soggetti ma apportando le nostre proposte.
E al primo punto di questa piattaforma noi mettiamo, senza dubbio, la difesa dei posti di lavoro, la moratoria sui licenziamenti, la salvaguardia e l’estensione degli ammortizzatori sociali. Se Tremonti scopre propagandisticamente il "posto fisso" noi lo difendiamo da sempre. Sapendo che per difendere il lavoro occorre affondare il colpo: se non si ripristina una vecchia parola d’ordine del movimento operaio come la Riduzione dell’orario di lavoro, a 32 o a 30 ore, non solo non si migliorano le condizioni di vita ma non si dà vita nemmeno a una battaglia di resistenza.
Che se vuole essere tale deve attivare tutti i suoi strumenti. Di fronte alla chiusura di fabbriche e aziende in crisi serve immediatamente un Coordinamento delle lotte e delle fabbriche in crisi, per scambiare esperienze, organizzare un fronte unitario, raccordare gli obiettivi. Ma anche qui, di fronte alla chiusura delle aziende o al fallimento delle banche, spesso l’unica risposta che resta agli operai, ai lavoratori e alle lavoratrici in lotta è la socializzazione dell’azienda, la nazionalizzazione e anche l’autogestione. Se un insegnamento rimane della vertenza Innse - oltre al grado di maturità di quel collettivo operaio - è proprio la vicenda dell’autogestione, la prova di un assemblea di lavoratori in grado di requisire al padrone i mezzi di produzione e mandare avanti la fabbrica lo stesso. La nazionalizzazione delle fabbriche in crisi e la socializzazione delle aziende a rischio chiusura e che non garantiscono i posti di lavoro, costituiscono misure di legittima difesa e come tali vanno rivendicate.
Di fronte alla crisi serve poi una difesa e un allargamento dei diritti rispettando la conformazione di un proletariato che non è più solo bianco, non è più solo maschile, non è più tante cose data la complessità e la molteplicità dei piani in cui oggi si forma la coscienza di sé.
Senza un’integrazione effettiva delle diverse componenti del moderno proletariato in una battaglia unitaria non si sconfiggerà, ad esempio, il razzismo crescente anche perché questo è alimentato non solo da una società indebolita, impaurita e incattivita ma direttamente da un livello istituzionale che agita nuove forme di xenofobia per dividere la classe, alimentare una guerra tra poveri e quindi mantenersi in sella. I dati sono di due giorni fa: i, le migranti costituiscono l’8,3% del proletariato e le loro paghe sono mediamente del 22,8% più basse degli italiani! E quindi va bene la solidarietà, va bene l’antirazzismo etico ma di fronte a questa realtà noi dobbiamo rivendicare Unità dei diritti, unità delle lotte, a prescindere dal colore della pelle, dalle convinzioni religiose, dal genere o dalle preferenze sessuali. E’ un punto dirimente per qualsiasi impostazione radicalmente anticapitalista.
Continuiamo a ritenere importante la legge per l’istituzione di un salario minimo intercategoriale. Quella legge giace inascoltata al Senato - e dovremo riprendere l’iniziativa per porla in agenda - mentre l’istituzione di un salario minimo per legge, di un salario sociale per disoccupati e il contestuale adeguamento dei minimi pensionistici costituirebbe l’unico modo per frenare la naturale tendenza delle ristrutturazioni a intaccare il salario a vantaggio dei profitti.
Quella proposta costituirebbe un evidente vantaggio la difesa dei contratti di categoria. Ora, avanza anche la proposta di un Contratto unico con il solo scopo di allineare tutti i contratti al livello peggiore, cioè quello dei lavoratori precari. E invece noi vogliamo finirla con la precarietà, parametrare i contratti verso l’alto e chiedere, per tutti e tutte, l’applicazione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
Occorre rivendicare la salvaguardia e l’aumento della spesa sociale per riqualificarla in direzione dei bisogni sociali. Un piano d’urgenza sociale all’insegna dello slogan "Le nostre vite valgono più dei loro profitti" perché salute, trasporti, scuola, acqua, energia, comunicazione, cultura, siano riportate nel perimetro dei beni comuni e non in quello dei bilanci aziendali.
Una prospettiva ecologista è oggi indispensabile sia per fronteggiare i rischi che corre il pianeta sia per cogliere il legame tra crisi economica e crisi ecologica che conferisce alla crisi attuale, i tratti di una vera e propria "crisi di civiltà". Tutti gli studi scientifici convergono sulla necessità di ridurre i gas a effetto serra tra il 50 e l’80% da qui al 2050 per non oltrepassare la soglia di non ritorno del pianeta. Lo stesso schema 3X20 dell’Unione europea - cioè riduzione del 20% di Co2, del 20% di efficienza energetica e aumento del 20% di energie rinnovabili - è al di sotto delle necessità. Il "Capitalismo verde" lanciato da Obama maschera la necessità di far pagare la crisi alla "tassazione ecologica" a carico delle classi popolari - vedi il caso francese - con il proposito di aprire nuovi segmenti di mercato per un’economia in sovrapproduzione. Quello che a noi appare chiaro è che una soluzione ecologista non si accorda con il massimo profitto e che il capitalismo è l’ostacolo più evidente e corposo al conseguimento di risultati ambientali soddisfacenti che necessiterebbero, per cominciare, di interventi democraticamente concordati che non si conciliano con la logica del mercato.
Una prospettiva ecologista ha dunque bisogno di una riduzione dei consumi di energia con la riconversione di tutta una serie di industrie, del rilancio delle energie rinnovabili, la salvaguardia dei territori e il loro consolidamento geologico in prevenzione dei disastri vari, l’opposizione netta al ritorno al nucleare. Ma soprattutto, ha bisogno di un nuovo sistema sociale in cui una pianificazione democratica e coordinata costituiscano gli strumenti di base per agire con efficacia.
Tutto questo presuppone un campo di azione ampio, una prospettiva di insieme, che noi definiamo anticapitalista, e che provi a forzare il quadro delle compatibilità. Una piattaforma minimamente efficace non emerge se non si dà l’obiettivo di intaccare il profitto, se non prevede di rimettere in discussione la proprietà, se non riflette sulle coordinate di un “piano” democratico e partecipato.
Senza ribaltare l’accumulo di ricchezze prodottosi negli ultimi venti anni, effetto di un preciso grado dei rapporti di forza tra le classi non ci sarà nessuna risorsa aggiuntiva e nessuna possibilità di ricostruire forza del salario e forza dei diritti sociali. Questo intervento deve avvenire recuperando risorse reali, intervenendo con la forza della contrattazione - e quindi della lotta di classe - ma agendo contestualmente con la leva fiscale non sulla tassazione dei dipendenti ma a partire da una vera Patrimoniale e dalla revisione, verso l’alto, della tassazione delle Rendite.
Crisi sociale, crisi democratica
Una politica alternativa lo è anche nel senso della riduzione drastica delle spese militari, della riconversione dell’industria bellica e dell’uscita dalle guerre, da tutte le guerre imperialistiche e quindi dalla politica delle missioni che l’Italia persegue da oltre venti anni. Afghanistan e Libano, per intenderci. Sentiamo dire spesso, ora, che aveva ragione Turigliatto e torto il gruppo dirigente del Prc: bene, meglio tardi che mai anche se forse è davvero troppo tardi, visto il discredito che il sostegno alle missioni militari ha determinato per l’intera sinistra. Ma allora occorre lavorare più seriamente per recuperare l’iniziativa di quel grande movimento contro la guerra cui le vicende del governo Prodi hanno messo il silenziatore.
Ma la crisi impatta direttamente anche sulla convivenza democratica e la degrada. Lo spostamento dei poteri di decisione verso l’alto è una caratteristica internazionale e la consumazione dei diritti la segue di pari passo. C’è un processo costante, nel mondo occidentale, di rafforzamento degli esecutivi o, peggio, di svuotamento del potere dei governi verso organismi sovranazionali a-democratici. Ed esiste un’emergenza democratica che in Italia vede sotto attacco le conquiste legate alla Resistenza e alla Costituzione italiana nello stesso momento in cui si accentua la campagna xenofoba aizzata dalle istituzioni, l’offensiva clericale contro le libertà individuali, l’ossessione e ormai l’odio per i diversi modi di intendere la sessualità. Razzismo, omofobia, svuotamento delle istituzioni rappresentative e, di pari passi, limitazione e restringimento del diritto alla comunicazione, alla libera stampa - quella libera davvero non quella legata ai grandi gruppi industriali - si collegano l’uno all’altro. Si collegano anche a quella misoginia latente che attraversa il mondo della politica, della comunicazione, della vita quotidiana e di cui le vicende sessuali di Berlusconi, o su un altro versante, di Marrazzo, hanno mostrato un volto. A noi non interessa una polemica sui gusti sessuali o sui comportamenti individuali - anche se ciascuno dovrebbe fare ciò che può liberamente e pubblicamente rivendicare - ma una critica serrata alla logica di dominio sul corpo delle donne Sì. Di questo si sarebbe dovuto parlare nel caso delle "Escort" e non delle dieci domande al premier!
Una battaglia democratica, quindi, è importante e ci vede convintamente in campo. Ma a condizione, pena la sua sconfitta, di non separarla dalla battaglia per i diritti sociali in luogo di un generico frontismo democratico e antiberlusconiano che nulla ha prodotto negli ultimi quindici anni.
Una particolare sottolineatura, infine, va messa su un aspetto solo apparentemente settoriale, quello legato alla repressione e al nuovo autoritarismo che caratterizza le forze dell’ordine. C’è un filo nero che lega i fatti di Genova, l’impunità garantita a quei vertici di polizia e le aggressioni contro detenuti che hanno portato alla morte di Cucchi, Aldovrandi, Branzino e tanti altri. Anche su questo versante serve oggi una mobilitazione unitaria contro la repressione, l’autoritarismo e anche contro il nuovo fascismo che vede scatenare aggressioni non solo contro i militanti della sinistra ma anche contro studenti, attivisti o semplicemente persone omosessuali. Una mobilitazione democratica, capillare, radicata e di massa.
Un Patto contro la crisi
Quelle qui accennate sono solo alcune delle indicazioni di questa fase. Altre potremo elaborarne.
Ma oltre ai contenuti su cui innervare una battaglia, un vero e proprio Movimento contro la crisi, noi continuiamo a proporre alla sinistra sociale, politica e sindacale - è dallo scorso luglio che avanziamo questa proposta! - di costruire una relazione stabile: un Patto, una Rete, un coordinamento, contro la crisi stessa. Sulla base di una piattaforma e con l’obiettivo di costruire un movimento all’insegna dell’unità e della radicalità.
I primi successi di mobilitazione - i precari della scuola, la Fiom e soprattutto la grande manifestazione antirazzista del 17 ottobre - dimostrano che c’è una disponibilità ad agire ma che questa non trova una sponda in una opposizione radicale, unitaria, in grado di favorire la partecipazione, - ad esempio attraverso comitati locali. In particolare dopo la manifestazione del 17, acquista credibilità l’ipotesi di una Campagna nazionale unitaria contro la crisi e il razzismo che darebbe alla mobilitazione contro Berlusconi un carattere dirimente e efficace.
Insomma, si tratta di ricreare fiducia, forza, costruire luoghi unitari e utili al conflitto, impostare un percorso di mobilitazione indipendente dal quadro politico e dal dibattito sulle scadenze elettorali.
Gli interlocutori cui ci siamo riferiti hanno dato per lo più una risposta positiva ma senza particolare entusiasmo, quasi come aderissero a una ritualità. Ce ne dispiace, perché la drammaticità della situazione ha tutto meno che i caratteri della ritualità. Va detto anche che scelte, come quella di Rifondazione, o della Federazione, di indire una manifestazione nazionale insieme all’Idv di Di Pietro, senza nessuna interlocuzione con il resto della sinistra, non favorisce questo tipo di iniziativa ma sposta il dibattito su un terreno del tutto ininfluente alla realizzazione di un Movimento - plurale, democratico, partecipato - contro la crisi sociale e il razzismo.
La politica italiana
E veniamo ai nodi che presenta oggi la politica italiana.
Che ruota tutta intera attorno al berlusconismo e alle sue vicissittudini contradditorie.
Come sinistra in generale marchiamo un ritardo di elaborazione sul berlusconismo. La rivista ERRE ha avviato un dibattito ma in generale, nella pubblicistica italiana, non si va oltre il berlusconismo inteso come rigurgito sotto altre forme del fascismo o movimento politico che si nutre della forza mediatica. Definizioni in parte corrette ma finora poco utilizzabili sul piano politico o per lo meno utilizzabili solo in chiave di un moderno frontismo. Crediamo che la capacità di utilizzare lo svuotamento degli istituti democratici da parte di Berlusconi aiuti a svelarne la natura di stampo plebiscitario che esso incarna e il rapporto diretto con le masse che egli immagina per l’esecutivo o, meglio, il leader. Eppure c’è un berlusconismo "sociale", un insediamento in vasti strati popolari che non si spiega alla maniera in cui si spiegava il radicamento popolare della Dc frutto dell’Italia cattolica e, in parte, della Resistenza. C’è un Berlusconismo dei ceti proletari che è espressione diretta della disfatta della sinistra, delle sue colpevoli complicità con il sistema e che data almeno dalla fine degli anni 80 o - se consideriamo anche il Psi di Craxi - dalla fine degli anni 70. Dal tempo di una sconfitta sociale che è stata metabolizzata politicamente lungo tutto un decennio e che poi, all’inizio degli anni 90 ha visto la formazione di un centrosinistra speculare al nascente centrodestra, tutto interno alle dinamiche di sistema, perfettamente compatibile e violentemente attore di una gigantesca disillusione di massa. Nell’Italia del bipolarismo, destra e sinistra hanno finito per fare la stessa politica ma mentre la prima si tiene grazie alla coesione di interessi materiali concreti e percepibili - lo Scudo fiscale, l’avallo agli evasori, l’anticomunismo viscerale, una certa antipolitica contro il "teatrino" - la seconda, difendendo solo gli interessi del grande capitale - si pensi al cuneo fiscale di Prodi - e offrendo come collante al proprio elettorato popolare solo una tensione morale e politica, con il venir meno di quest’ultima ha permesso alla destra di erigersi a forza egemone. Se un’egemonia della destra esiste - e personalmente credo che questa affermazione vada indagata con maggiore cura e maggiore criticità - essa poggia anche nell’assenza di pensiero critico, nella “mucillagine” complessiva che caratterizza un movimento operaio che in passato è stato tra i più forti d’Europa. Nella disfatta della sinistra risiede, insomma, la principale forza della destra che "surfa" sulla frammentazione sociale, sulla mancanza di prospettive, sulla desolazione culturale offrendo soluzioni pret à porter, facili da dire e ancora più facili da consumare.
Ma proprio perché priva di una forza intrinseca, priva di un messaggio trainante - a eccezione del razzismo anche se con contraddizioni (Fini) - anche questa destra è in crisi. Berlusconi perde forza di attrazione, ha un rapporto complesso con Confindustria - che ovviamente cerca di prendere tutto quello che può per gestire la ristrutturazione - si avviluppa nelle sue contraddizioni e lo schieramento che gli sta dietro sbanda pericolosamente e si prepara confusamente alla sua successione: Fini contro Bossi, Tremonti contro Letta, Brunetta contro Tremonti. In questa crisi, però, Berlusconi riesce a generare un doppio effetto: accentuare la propria pericolosità e allo stesso tempo smistare la propria difficoltà sul resto del quadro politico creando un clima da emergenza civile. La crisi di Berlusconi alimenta un antiberlusconismo emergenziale che vede vicina l’ora della "liberazione nazionale" senza accorgersi che in questa dinamica si nasconde la morte della politica intesa come rappresentazione di interessi e valori divergenti.
Liberarsi di Berlusconi è un dovere ma per realizzarlo non occorre gridare per l’ennesima volta al pericolo democratico - che pure esiste - quanto connettere questo alla crisi sociale. La proposta di un Movimento contro la Crisi è utile anche a creare un quadro più avanzato, a cacciare Berlusconi e il suo governo, quindi a sconfiggerlo e, quindi, a ricreare condizioni favorevoli al rafforzamento di una sinistra di classe. Serve a discutere dell’alternativa politica necessaria, a maturare idee e convinzioni più avanzate.
Prenderla sul lato istituzionale ed elettorale è il miglior favore che invece si può fare a Berlusconi e al centrodestra.
Il "nuovo" Pd
Da questo punto di vista, nel centrosinistra nulla è cambiato.
La vittoria di Bersani alle primarie del Pd - che ormai rappresentano, efficacemente va detto, la forma matura di quella formazione politica, ma solo di quella - non fa che ripristinare un quadro consueto.
I contenuti della nuova segreteria si possono invece sintetizzare in quattro passaggi: un partito più tradizionale e meno mediatico; un linguaggio e un profilo che sintetizza la tradizione della sinistra italiana nelle sue deformazioni social-liberiste e quella del cosiddetto cattolicesimo democratico in una prospettiva concertativa; una strategia, quindi, legata all’ipotesi del "patto tra i produttori" e quindi a un compromesso ancora più coeso tra borghesia produttiva e lavoratori intesi nelle loro rappresentanze sindacali, innanzitutto Cgil; una politica delle alleanze che ripropone quella che fu l’ispirazione dalemiana del 1995, la "coalizione democratica" che portò all’Ulivo di Prodi e che oggi ambisce a un patto "per l’alternativa" dalla sinistra "radicale" all’Udc passando per Di Pietro. Un equilibrio che è lontano dal nostro progetto e in larga parte alternativo a esso.
Bersani ripropone un’opposizione a Berlusconi giocata sui temi sociali e economici più che su quelli etico-morali - ma con una disponibilità a discutere e "concertare" temi come la giustizia o il federalismo - e, contestualmente, una prospettiva di cambiamento del tutto affidata al gioco politico-istituzionale senza prefigurare "spallate" provocate da mobilitazioni sociali ad ampio raggio.
Per il solo fatto di sembrare "più di sinistra" della precedente gestione Veltroni-Franceschini, Bersani calamita e ipnotizza le principali forze della sinistra radicale. Come se il caso Bnl-Unipol non avesse insegnato nulla...
Sinistra e Libertà, come è naturale, attendeva con ansia una apertura che la legittimasse come forza complementare del centrosinistra a sinistra del Pd, e quindi gli entusiasmi che hanno caratterizzato le dichiarazioni dei suoi dirigenti erano ampiamente attesi.
Ma anche dalla Federazione della Sinistra è venuta una nuova disponibilità. Certo, escludendo un’alleanza di governo e la riedizione dell’Unione ma comunque impostando una collaborazione che si tradurrà in un’alleanza elettorale alle prossime politiche con l’obiettivo di cambiare la legge elettorale e altre misure - quindi un mini-programma di governo! Si rimette così al centro la “mossa” politica - «un governo di scopo per una breve legislatura anche con l’Udc» - che fa tornare dalla finestra quella politica della manovra e del suicidio della sinistra che ha già prodotto tanti danni. E’ una posizione che, purtroppo, rafforza il nostro giudizio sulla Federazione della sinistra che si propone in piena continuità con la storia recente di Rifondazione comunista e del Pdci, vincolata a logiche di apparato e di sbocco istituzionale, incapace di realizzare un approfondito bilancio su quanto avvenuto negli ultimi anni e quindi di elaborare una nuova politica. La prova è la già annunciata intenzione di realizzare il maggior numero di accordi con il Pd alle prossime elezioni regionali.
Anche i Verdi cambiano gruppo dirigente con una prospettiva di riavvicinamento al Pd.
Insomma, le principali forze di sinistra tornano a costellare il Pd rinunciando a un’iniziativa autonoma. E quando se la danno, come la già citata manifestazione indetta dal Prc e da Di Pietro, sembrano darsela solo per aumentare il proprio potere contrattuale in relazione allo stesso Pd, rinunciando a innescare una dinamica sociale. Con questo mostrando la loro inefficacia e il perdurare della propria crisi.
Su questa crisi non vogliamo spendere ancora troppe parole. Molte ne abbiamo utilizzate nel documento per la Conferenza e negli anni trascorsi. E’ venuto però il momento di chiudere un dibattito retrospettivo, di "elaborare un lutto" e di guardare avanti, di considerare le forze della sinistra per quello che sono oggi, per la politica che producono, l’efficacia che generano, l’utilità sociale che determinano, le convergenze che realizzano. E per le divergenze, importanti, che da esse ci separano.
La nostra idea di autonomia e indipendenza dal Pd non significa ovviamente che non dobbiamo porci il problema di un rapporto con quel partito o con la Cgil, importante ai fini di un’iniziativa di massa che metta in crisi il governo Berlusconi. Ma le unità si fanno sui contenuti e a partire dalle mobilitazioni sociali: noi proponiamo un "Movimento contro la crisi e il razzismo". E’ disponibile il Pd a questa impresa? Se lo fosse non potremmo che rallegrarcene. Ma ci pare evidente che non è così vista la sua immobilità di fronte all’impasse del centrodestra e alle convulsioni del governo e visti i suoi legami con il mondo delle industrie e delle banche. Immobilità che riguarda anche la Cgil che, nonostante la mancata firma dell’accordo con il governo, continua a perseguire un’unità di fondo con Cisl e Uil, auspicando un ripristino della concertazione e rinunciando a una sera iniziativa di massa. L’unica che oggi potrebbe sbloccare la situazione.
In questo senso, guardiamo con attenzione al delinearsi di una dialettica reale nella Cgil in cui - non ci sfugge! - è in ballo anche una contesa di apparati ma nel quale, specialmente se si rafforzerà l’esperienza della Rete28Aprile, nella quale ci sentiamo impegnati a fondo, potrà emergere una più forte sinistra sindacale, svincolata da partiti e partitini e capace di condurre una battaglia, anche conflittuale e di rottura delle compatibilità e degli accordi quadro, dentro il più grande sindacato italiano.
Allo stesso tempo, ci sembra importante il progetto di ricomposizione del sindacalismo di base che muove dalle Rdb, dal Sdl e da una parte della Cub. Ci sembra un segnale utile a costruire condizioni positive per i lavoratori e le lavoratrici, a rafforzare le linee di resistenza e a provare a strappare qualche conquista.
Due passaggi, questi del movimento sindacale, che segneranno la prossima fase politica e il cui esito è importante ai fini della costruzione di un movimento unitario, contro la crisi e contro il governo Berlusconi.
Le elezioni
E’ dunque dentro questa prospettiva che affrontiamo anche i passaggi elettorali. Abbiamo detto chiaramente nel nostro documento congressuale che le elezioni non costituiscono per Sinistra Critica un dogma: né nel senso della automatica presentazione né in quello di una loro aprioristica esclusione. Ci presenteremo alle elezioni quando se ne daranno le condizioni, nelle forme più adeguate, utili ed efficaci. Si potranno presentare liste di Sinistra Critica - lo abbiamo fatto con buoni risultati anche in città importanti - liste di sinistra coalizzate, liste civiche o di movimenti reali. A condizione che si tratti di liste autonome dal centrodestra, svincolate da logiche di apparato e/o istituzionali, aperte al contributo di movimenti e personalità indipendenti.
E’ con questo approccio che proponiamo, per le prossime regionali, liste anticapitaliste, ecologiste, di coalizione o di movimento, che racchiudano forze diverse in alternativa al centrodestra e al centrosinistra. Al di là delle denominazioni, quello che conta è una reale discontinuità con il governismo degli ultimi anni, posizione che abbiamo già tenuto in occasione delle elezioni europee. Rivolgiamo questa proposta a tutta la sinistra radicale a condizione di una coerenza e omogeneità di comportamento nazionale. Non saremo disposti a geometrie variabili né a furbizie elettoralistiche.
Una Sinistra anticapitalista
Veniamo al secondo passaggio della nostra conferenza. Sinistra Critica nasce e muove i suoi passi con in testa la prospettiva della ricostruzione di una più ampia e coesa sinistra di classe. Per questo non ci siamo proclamati "partito" non perché abbiamo dubbi sulla necessità di costruire un nuovo, forte, democratico partito della sinistra anticapitalista - processo niente affatto semplice e che richiede una forte riflessione sulle esperienze passate - ma perché quel progetto non può essere semplicemente declamato.
Ricostruire una adeguata Sinistra Anticapitalista, oggi, richiede alcune condizioni basilari:
– una capacità di ricostruire presenza e conflitto sociali con ipotesi di radicamento che necessitano di tempo e pazienza - «la lenta impazienza», per citare Daniel Bensaid;
– una riflessione accurata sulle vicende della sinistra passata e recente;
– la condivisione di una prospettiva politica più solida di quella che invece ha dato vita, e poi ha consentito di infrangere, l’esperienza del Prc.
Una coesione politica che non significa assoluta omogeneità ideologica. Per quanto non rinunciamo per noi, per Sinistra Critica, a proseguire una ricerca e un’elaborazione collettiva che precisi meglio la nostra strategia politica.
Lo abbiamo fatto con il Manifesto Programmatico - che va utilizzato ancora dentro e fuori l’organizzazione - e perseguiamo questo obiettivo quando ribadiamo un orizzonte socialista, che attraverso la rimessa in discussione dei rapporti di produzione e della grande proprietà privata affermi il principio della proprietà collettiva, basata su forme diverse, autogestioni, cooperazione, comparti pubblici democraticamente controllati. Quando pensiamo che il superamento del capitalismo si può produrre efficacemente solo tramite una rottura, un salto rivoluzionario che inauguri una reale fase transitoria e che poggi su obiettivi di lotta adatti a quello scopo; quando assumiamo il principio "dell’emancipazione dei lavoratori come opera dei lavoratori stessi" o valorizziamo l’esortazione di Rosa Luxemburg a "prendere il potere senza farsi prendere dal potere". Infine, quando inseriamo una prospettiva internazionalista tra i nostri compiti di costruzione. Abbiamo riferimenti programmatici di fondo e continueremo a coltivarli, ad approfondirli e ampliarli.
Ma oggi, sul metodo di costruzione di una nuova sinistra continuiamo a mantenere un approccio diverso rispetto ad altri gruppi della sinistra che insistono sull’autoproclamazione o su un’astratta identità comunista, perché pensiamo che la fase di ricostruzione del movimento operaio - interna e internazionale, necessitata dalla sconfitta del Novecento - richieda una fase di “accumulazione originaria” delle forze che rimetta al centro il conflitto di classe, l’efficacia sociale e la costruzione di soggetti politici ampi basati su alcune discrimanti di fondo che permettano loro di non rompersi alla prima difficoltà. Per farci capire indichiamo alcune di queste discriminanti:
1) l’autonomia e l’indipendenza dall’imperialismo e dalla sua logica di guerra;
2) l’autonomia e l’indipendenza dalla borghesia, dal capitalismo e dai suoi governi, compresa la socialdemocrazia e il Pd italiano, collocandosi conseguentemente, e strategicamente, all’opposizione;
3) l’autonomia nella conduzione della lotta di classe demarcandosi dalle burocrazie sindacali e dalle politiche concertative, "compromettendosi" soltanto con gli interessi dei lavoratori e delle lavoratrici;
4) l’autonomia dei soggetti sociali che devono vedersi garantito un processo di autorganizzazione in funzione della loro «autoemancipazione» ;
5) la qualità della democrazia interna del soggetto che vogliamo costruire, rivoluzionando pratiche e riti di una vecchia sinistra improntata al leaderismo e alla delega.
Questo significa per noi oggi “anticapitalista”: una sinistra non solubile nel quadro e nelle compatibilità del capitalismo - quindi chiaramente alternativo a esso - che si batta per una trasformazione sociale e quindi, in questa prospettiva, si dia tempo e libertà per una discussione sulle modalità di quella rottura e sulle caratteristiche di una società alternativa.
Il punto politico fondamentale è esattamente l’autonomia e l’indipendenza di classe anche rispetto a una socialdemocrazia classica che non c’è più, sostituita da un social-liberismo che è una variante del governo del sistema. Questo nodo irrisolto è stato lo scoglio su cui si è infranto il progetto della rifondazione, su cui rischia la Linke tedesca, da cui si tiene alla larga il Bloco portoghese e che costituisce il discrimine principale nel dibattito della sinistra francese dove matura la possibilità di un’alleanza a sinistra ma a condizione dell’indipendenza dal Partito socialista. Una sinistra anticapitalista, larga con influenza di massa, si può rideterminare da questa semplice discriminante senza furbizie.
Su queste ipotesi di lavoro pensiamo di poter sviluppare quella Grande discussione pubblica di cui parliamo nel documento, anche se, onestamente, non ci facciamo particolari illusioni visto il quadro che oggi ci si presenta.
La Federazione della Sinistra alternativa, infatti, inizia una marcia di avvicinamento al centrosinistra; Sinistra e Libertà lavora, legittimamente, ai fianchi il Pd escludendo una strada di alternatività a esso; la riguadagnata autonomia dei Verdi avviene in contrasto con una collocazione di “sinistra”; il Pcl prosegue nella linea della propria autosufficienza esponendosi ai rischi, paradossalmente, di un partito elettoralista. Lo stesso quadro delineato dalla nostra proposta di "Costituente Anticapitalista" è oggi disgregato con le forze che si erano disposte al confronto ognuna intenta a intraprendere un proprio autonomo percorso. Ma le cose possono cambiare e noi siamo pronti a valutare le possibili novità.
Quello su cui possiamo investire direttamente è invece la nostra esistenza, la nostra forza, Sinistra Critica.
Non si tratta di chiudersi ma di continuare a tenere aperta l’ipotesi di fondo - una nuova sinistra anticapitalista - confidando nel contributo che noi possiamo apportare consolidando il nostro progetto e collocando il baricentro della nostra iniziativa non tanto e non solo nelle relazioni con altri soggetti politici ma all’interno della “società”, nei suoi movimenti, nel conflitto, nelle nuove domande di partecipazione e nelle prove di resistenza che oggi si danno. E’ da questa ottica che giudicheremo le dinamiche e le eventuali novità che potranno giungere dal resto della sinistra, non certo dal tasso di comunismo sbandierato. Perché siamo ormai decisamente nel tempo della Ricostruzione, sociale, politica, culturale, di una soggettività della trasformazione - questo è il dato analitico di fondo che anima la nostra proposta politica - ed è con il metro della ricostruzione che potremo misurare anche fenomeni, più o meno parziali, di ricomposizione politica.
Un baricentro sociale e un profilo politico più forte. Questo è l’asse di lavoro che emerge da questo nostro dibattito congressuale.
In questo senso puntiamo il nostro sguardo su ciò che accade, ad esempio, nel mondo della formazione, degli studenti, degli insegnanti precari, dei ricercatori, dove Sinistra Critica svolge un ruolo attivo che deve crescere.
Sulle dinamiche interessanti del movimento sindacale, alla nuova unità del sindacalismo di base e alla nuova dialettica in Cgil con l’ipotesi del rafforzamento della sua sinistra; dinamiche nelle quali vogliamo giocare un ruolo attivo e offrire un contributo positivo. Contributo che ruota in particolare nello sforzo di unire, raccordare, integrare le lotte del mondo del lavoro con quello studentesco e delle nuove generazioni.
Sul movimento antirazzista che ha dato il 17 ottobre una prova importante di sé ma che va consolidato nella capacità di sviluppare iniziativa quotidiana, tramite comitati territoriali e, auspicabilmente, una campagna permanente contro il razzismo e contro la crisi.
Sul variegato arcipelago ambientalista e di difesa ecologica dei territori che vede comitati di lotta in ogni angolo del paese, spesso accartocciati sulla semplice difesa del proprio territorio ma spesso anche disponibili a una battaglia più generale che attende, da troppo tempo, forze vive in grado di favorire coordinamenti, confronti ad ampio raggio, unificazione delle vertenze diverse, specialmente in prossimità della grande partita del nucleare.
Sulla vitalità del movimento Lgbt, la sua domanda di nuova partecipazione e protagonismo che si esprime nonostante la fissità dei suoi vertici organizzati.
Siamo da sempre inseriti nelle potenzialità di un movimento contro la guerra che deve provare a ritessere il filo di una ampia unità nel momento in cui l’opzione della guerra mostra i suoi fallimenti in tutto il mondo.
Esiste una battaglia per l’informazione libera e la comunicazione sociale a cui possiamo dare un utile contributo.
E vogliamo provare a dare un contributo al risveglio di un protagonismo femminista del tutto maturo nella situazione italiana, non a caso invocato da più voci, e che forse ha bisogno di alcune idee-forza su cui innervarsi e, soprattutto, dell’irruzione di una nuova generazione di donne.
La costruzione di Sinistra Critica
Un baricentro sociale, dunque, per un’organizzazione più forte. Qui sta il terzo passaggio della nostra conferenza, quello più delicato e importante perché dipende esclusivamente da noi: la costruzione e il rafforzamento del nostro soggetto politico autonomo e organizzato, orientato al conflitto sociale.
Su questo punto è bene non fare retorica: nell’attuale fase di crisi e sconfitte accumulate non è facile tenere il punto di una organizzazione che non si misura in decine di migliaia di aderenti; non è facile contrapporsi allo stato di rassegnazione e demoralizzazione e non è facile nemmeno agire in condizioni di ristrettezze economiche e basandosi solo sul lavoro volontario dei propri militanti e dei propri dirigenti. E’ una condizione che non va sottaciuta, pena il ricorso alla demagogia. E’ una condizione che richiede dedizione e convinzione e la cui alternativa è l’andata a casa o la resa alle formazioni apparentemente più significative alle prese con una crisi forse maggiore.
Ma nulla - nulla! - di quanto accaduto negli ultimi due anni ha smentito le premesse che hanno dato vita a Sinistra Critica.
Continuiamo a credere che la capacità di mantenere in vita un orientamento anticapitalista coerente costituisca una delle poche sponde che possono avere le nuove generazioni intenzionate a cimentarsi con la battaglia politica. Non è un caso se Sinistra critica ha proprio nella presenza giovanile un suo punto di forza.
La crisi della sinistra italiana, del resto, sarà risolta solo dall’irruzione di una nuova generazione politica - non necessariamente anagrafica - di cui i giovani costituiscono la componente essenziale. Ma per questa irruzione sarà determinante il livello di condizioni che noi saremo in grado di creare.
Per favorire questa nuova partecipazione occorre predisporre gli strumenti adeguati. E Sinistra Critica oggi è uno di questi.
Se, come collettivo, abbiamo sempre saputo padroneggiare la costruzione di movimenti, di iniziative unitarie, certamente non abbiamo finora dedicato la stessa attenzione a un consolidamento organizzativo e alla visibilità di una proposta politica finalizzata non alla cristallizzazione di noi stessi ma alla rimessa in moto di un processo aggregativo in particolare con le nuove generazioni.
Un consolidamento che passa per la definizione più precisa di organismi e responsabilità, di campagne e di progetti di lavoro. Dobbiamo rimettere a punto le nostre Campagne; occorre definire con più precisione gli ambiti di interventi; definire il profilo di un’organizzazione che non può essere pensata come un Prc in sedicesimo ma che deve avere altri ritmi, altre priorità, una diversa agilità.
Una organizzazione che inizi a inverare meglio il proprio nome dando alla dimensione "Ecologista" e "Femminista" una maggiore robustezza di pensiero e di azione.
Un’organizzazione che abbia nell’intervento giovanile, e studentesco, una evidente priorità ma che sappia articolare un’ipotesi di lavoro in campo sindacale.
Un’organizzazione fondata sul lavoro volontario dei suoi quadri e su un minimo di risorse finanziarie auto-prodotte.
Un’organizzazione con una visione internazionale e pienamente inserita nella Sinistra anticapitalista europea l’unica finora ad aver fatto tesoro dell’esperienza italiana e del modo in cui la sottovalutazione dei rapporti di forza e la compromissione con le forze di governo hanno prodotto la disfatta della sinistra di classe. Questa dimensione della politica, del resto, è ineludibile per chi voglia dare sostanza a una visione internazionalista intesa come costruzione di un movimento internazionale anticapitalista e antimperialista e non limitato alla sola, anche se necessaria, solidarietà internazionale. Per questo abbiamo proposto a questo dibattito di definire il rapporto tra Sinistra Critica e la Quarta Internazionale nei termini di una relazione di solidarietà politica in cui viene esaltata la condivisione di un nuovo progetto, che punta alla costruzione di una nuova Sinistra anticapitalista europea e internazionale, piuttosto che l’adesione a una vecchia identità consolidata.
Un’organizzazione in grado di conferire rilevanza al lavoro culturale e alla comunicazione in generale.
Un’organizzazione democratica ed efficace allo stesso tempo, con diritti riconosciuti e doveri meglio precisati.
Un’organizzazione che si radichi direttamente nei luoghi del conflitto e interagisca con essi.
Un’organizzazione che contribuisca generosamente a innescare vertenze, settoriali e/o territoriali, di quartiere.
Un’organizzazione che riscopra la propaganda intelligente, anche tramite le nuove forme di comunicazione, e che su questo imposti una Campagna nazionale centralizzata e articolata allo stesso tempo.
Un’organizzazione che dia il giusto peso e il giusto ruolo al lavoro di formazione e di produzione intellettuale, valorizzando il Centro Studi, sfruttando la Casa editrice e la rivista.
Un’organizzazione che sia anche luogo di incontro, di relazioni, utilizzando intelligentemente le proprie sedi, attivando la nuova associazione culturale e costruendo un marchio specializzato in questa attività.
Un’organizzazione.
Piccola, consapevole delle sue forze ma in grado di definire un progetto di lavoro, verificarne l’esito, renderlo efficace e influente a livello sociale e politico.
In questa visione si collocano le iniziative che possiamo mettere in agenda e che potranno costituire il centro delle nostre conclusioni:
a) Costruire nelle forme che indicheremo e sulla base della piattaforma che definiremo nella mozione conclusiva, una Campagna nazionale "Contro la crisi, per una nuova sinistra" che declini in termini sociali e politici l’anticapitalismo oggi necessario;
b) Partecipare alla Campagna delle Euromarce per la riduzione generalizzata dell’orario di lavoro e contro la disoccupazione e la precarietà in vista del prossimo Forum sociale europeo a Instanbul;
c) Ripristinare, dentro questa campagna, la battaglia sulla legge di iniziativa popolare per lo Smic che giace al Senato;
d) Organizzare una presenza politicamente significativa al Controvertice di Copenaghen sul riscaldamento climatico;
e) Verificare le condizioni per una presenza alle prossime elezioni regionali tramite la formazione di liste ampie anticapitaliste e ecologiste alternative al centrodestra e al centrosinistra;
f) Realizzare, come primo momento di bilancio della Campagna nazionale, un Convegno sulla crisi e le sue conseguenze, attorno al mese di marzo;
g) Costruire insieme alle forze della sinistra anticapitalista europea una o più iniziative internazionali che realizzino una reale convergenza tra militanti e non solo una relazione tra gruppi dirigenti;
h) Organizzare il Campo dei Giovani rivoluzionari-e, previsto per la fine di luglio in Italia;
i) Inaugurare una Scuola di formazione politica, affidata al Centro Studi Livio Maitan, con una sessione nazionale e con sessioni locali organizzate dai circoli in funzione delle loro necessità.
l) Dare vita all’Associazione culturale e ricreativa che valorizzi in termini sociali le nostre sedi, costruisca iniziative di aggregazione anche in collaborazione con la casa editrice o con altri organismi culturali;
l) Completare il tesseramento del 2009 entro Natale di quest’anno, con feste, cene, incontri e assemblee. E’ un risultato che va perseguito utilizzando al massimo lo slancio che ci è dato da questa Conferenza. Superare il tesseramento dello scorso anno è possibile se l’obiettivo viene adeguatamente programmato e organizzato. Ma quello che è più importante è costruire un meccanismo adeguato di autofinanziamento.
Chiudiamo la sottoscrizione a questa conferenza e i delegati e le delegate sono pregate e pregati di indicare il proprio obiettivo esattamente come abbiamo fatto lo scorso anno, sempre qui a Bellaria.
E’ un punto qualificante perché solo in questo modo noi possiamo davvero parlare e praticare una politica diversa. Una politica fatta per la politica e non per vivere di politica, perché sulla dipendenza dagli apparati istituzionali la sinistra di classe ha suicidato sé stessa più volte nel corso della sua storia.
Attenzione, non si tratta solo di fare appelli generici all’autofinanziamento ma anche di iniziare a praticare un’altra idea di organizzazione.
Sinistra Critica lo ha già cominciato a fare al momento della sua nascita: rotazione degli incarichi, volontariato attivo, incarichi retribuiti solo ai livelli dei salari operai e impiegatizi, valorizzazione del collettivo. Un’organizzazione che si riconosca per il suo Logo e non per il suo leader, che non a caso decidiamo di non avere. In questo senso procederemo al termine della Conferenza all’elezione, in sede di nuovo Coordinamento, dei nostri tre portavoce.
Tutto questo fa parte del nostro programma di base, della nostra identità e costituirà sempre una chiave di volta per la sinistra, più ampia e forte, che vogliamo costruire.
Qualcuno, un po’ di tempo fa, amava citare il Paolo di Tarso che diceva: «Siamo in questo mondo ma non di questo mondo». Al contrario noi siamo e restiamo di questo mondo, non prefiguriamo isole felici o comportamenti eticamente astratti. Prefiguriamo modalità del nostro vivere la militanza e la politica - difficilissime nella crisi in cui ci troviamo - che siano perfettamente coerenti con gli ideali che difendiamo e gli obiettivi che ci proponiamo, predisponendo gli antidoti necessari a non farci risucchiare da questo mondo e a provare a cambiarlo.
Costruiamo la nostra organizzazione e contemporaneamente lavoriamo, in modo precario, o addirittura siamo disoccupati. Ma è normale, deve tornare a essere normale, deve finire il tempo di elites separate e comodamente assise su privilegi da difendere, poi, a ogni costo. L’obiettivo di cambiare il mondo è difficile, costa fatica, non fa vivere comodi. Ma è giusto.
E resta, nonostante tutto, il nostro obiettivo.