Home > Salario variabile indipendente? Qualche riflessione teorica e politica
Salario variabile indipendente? Qualche riflessione teorica e politica
Publie le domenica 25 aprile 2004 par Open-PublishingNel gran rimescolio politico-teorico di questi ultimi anni si è delineata una tendenza a riferirsi 
a concezioni e strategie, che, ben lungi dall’essere nuove e originali, costituiscono una 
rivalutazione di formulazioni del passato. Rivalutazioni del genere non vanno rifiutate in linea di 
principio: dopo tutto, alcuni dei principali scritti di Lenin sono un esplicito ritorno a Marx ed Engels 
a confutazione della vulgata socialdemocratica, si ispirasse a Bernstein o meno. Tutto sta nel 
verificare la validità intrinseca delle rivalutazioni prospettate.
Non ritorniamo qui sul riemergere di concezioni premarxiste proprie del socialismo idealistico o 
utopistico su cui siamo già intervenuti. Suggeriamo qualche riflessione su una tesi emersa nel dopo 
’68, ma sposata per qualche tempo dal principale dirigente della CGIL, Luciano Lama, non 
sospettabile di infatuazioni rivoluzionarie: la tesi secondo cui il salario doveva essere assunto come una 
variabile indipendente.
Una tale tesi comporta in realtà, lo si voglia o no,un rigetto dell’analisi e della critica 
marxiana al capitalismo. Con i tempi che corrono non forse inutile richiamare, sia pur schematicamente, 
i tratti essenziali di una società capitalistica:
1)i produttori sono separati dai mezzi di produzione che sono monopolizzati da una classe ben 
definita, la moderna borghesia;
2)la produzione è fondamentalmente produzione di merci;
3) la forza-lavoro è essa pure una merce con relativo mercato: la sua specificità risiede nel 
fatto che solo una parte del valore che produce va al soddisfacimento dei bisogni di sopravvivenza dei 
lavoratori e delle loro famiglie, mentre dell’altra si appropriano i proprietari dei mezzi di 
produzione sotto forma di profitti. E’ significativo che questa suddivisione sia esplicitamente 
affermata in un contratto di lavoro dell’industria tessile di Liegi già nel remoto 1634. In realtà, una 
parte può aumentare solo a condizione che l’altra diminuisca, in termini assoluti o in termini 
relativi. Ecco il contenuto della lotta di classe in regime capitalista: i capitalisti cercano di 
ridurre il salario al minimo vitale fisiologico, mentre i lavoratori cercano di inserirvi il 
soddisfacimento di nuovi bisogni. In questo quadro, Il salario non è né può essere una variabile 
indipendente, come non lo è neppure il profitto.
Mezzo secolo di vicende economiche
Ricordiamo che, approssimativamente nell’ultimo mezzo secolo, si sono alternati periodi di 
crescita e periodi di contrazione dei profitti e,nei momenti di maggiore ascesa, grazie alle lotte 
operaie, cioè grazie a rapporti di forza socio-politici, aumentavano pure i salari. Grosso modo, alla 
metà degli anni ’70 la tendenza si invertiva: erano colpiti duramente i salari, ma neppure i 
profitti restavano indenni (in molti settori si contraevano, in altri addirittura scomparivano).Circa 
vent’anni dopo questa nuova dinamica si sarebbe ulteriormente rafforzata perché il ristagno economico 
si prolungava e le lotte, anche imponenti, che ci sono state, erano segnate da sconfitte con gravi 
responsabilità delle direzioni sindacali. Non va dimenticato, infine, il condizionamento 
internazionale. Quando, nonostante tutte le distorsioni, l’economia sovietica continuava a crescere 
registrando successi clamorosi come le prime conquiste spaziali, la borghesia, soprattutto dei paesi 
dell’Europa occidentale, non poteva non tenerne conto nella definizione degli orientamenti sociali. 
Questo condizionamento via via si riduceva nel corso degli anni ’80 per venir meno con la caduta del 
muro di Berlino e lo scioglimento dell’Unione sovietica.
Nell’era della cosiddetta globalizzazione, cioè della massima centralizzazione e 
internazionalizzazione del capitale, i tratti essenziali del capitalismo si sono accentuati all’estremo: quello che 
avviene in aree prima si margini dei processi economici, oggi influisce sempre più direttamente su 
quello che avviene, in particolare in materia di salari e di occupazione,negli stessi paesi 
capitalisti più sviluppati: salari e profitti sono meno che mai variabili indipendenti. Per parte 
nostra, siamo d’altronde convinti che anche sul dibattito sul salario variabile indipendente incide una 
diffusa sottovalutazione del carattere ciclico dell’economia che, certo, viene preso in 
considerazione analiticamente, ma non colto nel suo carattere essenziale e nella sua centralità per il 
funzionamento del sistema.
Partire dai salari e dal salario sociale
Tutte le considerazioni che abbiamo fatto non ci inducono affatto a ignorare che una formulazione 
errata teoricamente può avere una sua utilità propagandistica ed essere presentata come un 
obiettivo di lotta. Oggi è assolutamente giusto partire dall’esigenza primaria della rivalutazione dei 
salari, falcidiati da molti anni a questa parte.Ed è egualmente giusto mettere l’accento 
sull’obiettivo del salario sociale. Ma senza mai perdere di vista che perché il salario non sia più una 
variabile dipendente, cioè cessi di essere una merce, è necessario che non vigano più i rapporti di 
produzione capitalistici. Analogamente, è giusto avanzare obiettivi democratici nel quadro di una 
Unione europea costruita senza  la partecipazione democratica dei popoli, ma va dimenticato che una 
Europa veramente "altra" presuppone nuovi rapporti di produzione nel quadro di istituzioni 
politiche qualitativamente nuove, diremmo di natura consiliare.
 In conclusione, ci urtiamo a quella che resta la contraddizione cruciale di questa 
fase:trasformazioni rivoluzionarie appaiono sempre più indispensabili e urgenti per uscire da un contesto 
devastante di ristagno economico prolungato, se non di crisi tout court, di un succedersi di guerre 
senza fine e di galoppante distruzione dell’ambiente, ma non si sono ancora stabiliti rapporti di 
forza e raggiunti a livello di grandi masse livelli di coscienza necessari per queste trasformazioni. 
Aggiungiamo che non si contribuisce affatto a far evolvere favorevolmente la situazione 
semplicemente con il negare i problemi, pretendendo che non si pongano più, come fanno teorici come Holloway 
e, in certe prese di posizione,sia pure in misura e forme diverse, anche gli zapatisti. Per noi la 
scelta è assolutamente senza ambiguità:partecipazione attiva alla costruzione dei nuovi movimenti,  
senza cedere a nessuna tentazione manipolatoria, tenendo fermi punti di riferimento teorici e 
strategici, in ultima analisi, non meno ma più validi che in passato (il che esige ovvi 
aggiornamenti).
Roma, 23 aprile 2004




