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Sciopero: dal fascismo all’Italia di Berlusconi, un diritto in bilico

Publie le domenica 1 marzo 2009 par Open-Publishing

Sciopero: dal fascismo all’Italia di Berlusconi, un diritto in bilico

di Fulvio Lo Cicero

La Costituzione lo prevede come manifestazione di libertà ma l’attuale maggioranza lo vuole trasformare in un diritto fortemente limitato. Eppure l’esperienza storica mostra come sia uno dei cardini delle moderne democrazie post-industriali.

ROMA – Il diritto di sciopero nasce, come scrive il giurista Khan Freund, con il sorgere del conflitto industriale, in quel periodo immediatamente successivo alla seconda rivoluzione industriale (metà del XIX secolo) nel quale più forte si manifesta la contrapposizione fra lavoratori e datori di lavoro, in un contesto di scarse o nulle tutele della prestazione lavorativa. Lo sciopero emerge come l’unica arma in mano ai lavoratori per creare un rischio oggettivo ai proprietari dei mezzi di produzione, soprattutto in ordine ad una sostenibile retribuzione o ad orari di lavoro meno usuranti.

Il “reato” di sciopero

Nel 1889 fu definitivamente abrogato il delitto di sciopero. Fino a quella data una norma contenuta nel codice penale sardo, che subito dopo l’unificazione del 1861 era stato esteso a tutti i territori annessi al Regno sabaudo, ad eccezione dell’ex Granducato di Toscana, sanzionava “tutte le intese degli operai allo scopo di sospendere, ostacolare e far rincarare il lavoro senza ragionevole causa”.

Il codice penale Zanardelli del 1889 eliminò l’incriminazione penale per lo sciopero se attuato senza violenza e minaccia, anche se l’astensione del lavoratore continuava ad essere un illecito civile, cioè il datore di lavoro poteva chiedere un risarcimento per la mancata prestazione o risolvere il contratto licenziando il lavoratore.

Nel 1926, con l’introduzione dell’ordinamento corporativo fascista, si ritornò alla repressione penale e vennero delineate una serie di figure criminose che furono considerate quali delitti contro l’economia nazionale: sciopero e serrata per fini contrattuali, sciopero politico, di solidarietà, di boicottaggio, di occupazione d’azienda e, infine, di sabotaggio. Tutte queste figure furono inserite nel codice penale del 1931, agli articoli 502-508. Lo sciopero nei servizi pubblici fu invece previsto come delitto dagli articoli 330 e 333 dello stesso codice, nel quadro dei reati contro la pubblica amministrazione. Soltanto con la legge n. 146 del 1990 questi ultimi due articoli del codice penale Rocco sarebbero stati definitivamente eliminati.

L’articolo 40 della Costituzione

Nell’occuparsi del diritto di sciopero, l’Assemblea costituente decise di essere molto avara di parole. L’articolo 40, infatti, è un capolavoro di sintesi, per quanto densa di significati: “Lo sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano”. Da un lato, si riaffermava il diritto di sciopero, dall’altro, proprio per contemperarlo con le esigenze della collettività, lo si ancorava alla necessità di una riserva di legge, cioè di norme regolatrici in grado di non sminuirne la portata e, al tempo stesso, di attutire i possibili effetti negativi che lo stesso può produrre sui cittadini in alcuni settori, come quello dei trasporti e dei servizi pubblici essenziali.

I cultori del diritto del lavoro e sindacale hanno precisato, in effetti, che si tratta di un “diritto di libertà”, nel senso che non si può emanare alcun provvedimento legislativo, amministrativo o giurisdizionale che contrasti con il diritto di sciopero (questo sosteneva, fra gli altri, Piero Calamandrei). Secondo altri, si tratterebbe di un “diritto assoluto della persona” (Luigi Mengoni) e ciò consente di ammettere la legittimità di varie forme di astensione dal lavoro (ad esempio, lo sciopero economico-politico), ovvero di un “diritto individuale ad esercizio collettivo (Gino Giugni, Ghezzi-Romagnoli, Tiziano Treu)

D’altra parte, la stessa Corte Costituzionale, in numerose sentenze, ha dichiarato la immediata “precettività” di questo diritto, a prescindere dalla mancata attuazione di una legge generale di regolamentazione.

La legge del 1990

I partiti di sinistra e i sindacati, almeno fino al 1990, si sono mostrati restii ad approvare una legge generale di regolamentazione dello sciopero, così come è avvenuto per quella di riconoscimento giuridico dei sindacati, imposta dall’articolo 39 della Costituzione, anch’essa mai emanata. Perché? Le ragioni sono molteplici e quasi tutte da ricondurre alla pericolosità di norme che possano, anche potenzialmente, intaccare o impedire del tutto l’unica arma che il lavoratore ha nei confronti del datore di lavoro: l’utilizzo delle sue braccia. Ciò però non significa che norme in materia di sciopero non esistano nel nostro ordinamento, anche se non incidono in materia diretta, almeno fino al 1990, sull’organizzazione dello sciopero. Si possono citare, fra le altre, le norme contenute nella legge n. 604 del 1966 in materia di licenziamenti individuali e quelle dello Statuto dei lavoratori (n. 300 del 1970), tutte intese a rendere effettivo il diritto di cui alla norma della Costituzione.

Nel 1990 viene approvata la prima legge di regolamentazione, anch’essa, però, parziale, in quanto destinata a disciplinare le modalità dello sciopero in alcuni servizi pubblici essenziali, che sono individuati dall’aricolo 1 e sono “quelli volti a garantire il godimento dei diritti della persona, costituzionalmente tutelati, alla vita, alla salute, alla libertà e alla sicurezza, alla libertà di circolazione, all’assistenza e alla previdenza sociale, all’istruzione e alla libertà di comunicazione”. Se associamo alle norme di questa legge quelle dei codici di autoregolamentazione, possiamo in effetti asserire che esiste nel nostro ordinamento un corpo di regole scritte sullo sciopero, con le quali si pongono dei limiti alla sua effettuazione, per meglio contemperarlo con le esigenze della collettività.

Il disegno di legge governativo

I cinque articoli del disegno di legge governativo si inseriscono in questo contesto e praticamente rendono lo sciopero quasi impossibile nel settore dei trasporti e, genericamente, in altri settori considerati essenziali per la collettività (ma non specificati nel dettaglio). Si tratta di una limitazione del diritto di sciopero che confligge con il dato costituzionale e, soprattutto, con la libertà sindacale. Secondo Luciano Gallino, sociologo del lavoro, le norme che il Governo vuole introdurre prendono a pretesto i disagi ai quali va incontro la collettività a seguito di alcuni scioperi nei trasporti “per ridurre gli spazi di libertà, di protesta, di manifestazione di gran parte del mondo del lavoro”.