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Sette milioni di poveri
di Sara Farolfi
La grave crisi economica si legge anche nella vita quotidiana: sono sempre di più le persone che stanno male, e addirittura più di sette milioni di italiani vivono con un reddito «da poveri». A registrarlo è l’Istat, ma l’area del disagio sociale, nel nostro paese come in Europa, è più vasta e abbraccia la cosiddetta «classe media»: i precari, tanti impiegati, gli operai Istat. Il 12,8% della popolazione italiana è sotto il reddito limite. La fotografia di un paese immobile
Povero e immobile. Allarma la fotografia del paese che ci consegna l’Istat, a maggior ragione se inserita all’interno del quadro recessivo sul quale ci affacciamo e che, c’è da presumere, non sarà breve. Dice l’Istat, nell’indagine diffusa ieri, che in Italia ci sono 7,5 milioni di persone «relativamente» povere, il 12,8% dell’intera popolazione. Lo stesso numero di un anno fa - con una variazione positiva minima che rispecchia l’aumento dei prezzi del paniere preso a riferimento - che restituisce l’immagine di un paese sostanzialmente immobile, dove chi vive nei pressi o al di sotto della soglia di povertà non ha alcuna speranza di un miglioramento delle proprie condizioni. Tutt’altro. Con la crisi che impazza e la cassa integrazione che dilaga è fondato il timore di un netto peggioramento.
Anche perchè, e questa è la premessa d’obbligo, i dati di cui parla l’istituto nazionale di statistica sono quelli calcolati sulla basel della «soglia di povertà relativa», che l’Istat ha quantificato, per il 2007, in 986 euro (il dato equivale alla spesa media mensile per persona): i nuclei familiari di due persone che ogni mese hanno una spesa pari o inferiore a questo valore sono considerati «relativamente poveri». Ben diversa è la stima della «povertà assoluta» - che l’Istat ha sospeso qualche anno fa per rivederne il metodo di calcolo e che dovrebbe ritornare l’anno prossimo - dove la soglia è definita con un paniere di beni e servizi «indispensabili». Questo significa che i dati sulla povertà «relativa» parlano dei ’meno poveri’ tra i poveri, le cui fila si ingrossano, donne e uomini che lavorano, faticano a campare e non hanno speranza alcuna di miglioramento. Una condanna all’immobilità sociale - quando non al peggioramento - di cui parla anche l’Onda di proteste di questi giorni.
E immobile (ma con un andamento che tende progressivamente ad aggravarsi) è anche la forbice che c’è tra il nord e il sud del paese, dove l’incidenza della povertà relativa è di ben quattro volte superiore a quella osservata nel resto del paese. Nel Mezzogiorno è povero il 22,5% delle famiglie, e si tratta di un livello di povertà più grave, o più «intensa» per usare il linguaggio statistico: la spesa media (per un nucleo di due persone) è pari infatti a 784 euro al mese (contro i 950 euro di media nazionale). In testa alla drammatica classifica sono la Basilicata (dove sono povere il 26,3% delle famiglie) e la Sicilia (il 27,6%). Sul versante opposto, guida le regioni con più bassa incidenza di povertà il Veneto, seguito da Toscana, Lombardia, e Trentino Alto Adige.
E arriviamo al dato qualitativo. Più è largo il nucleo familiare, e più figli si hanno, più si alza il tasso di povertà. Le famiglie numerose sono più diffuse al sud, ma se si parla di nuclei di anziani (o di nuclei con almeno un ultrasessantaquattrenne) o di monogenitorialità, allora il tasso di povertà si alza a mano a mano che si sale nella cartina geografica del paese, e arriva a superare le percentuali del mezzogiorno. In entrambi i casi si parla soprattutto di donne: il 48% e il 23% delle famiglie povere con a capo una donna sono anziane sole e monogenitori. Scontato è (o dovrebbe essere) il legame tra povertà e livello di istruzione e di partecipazione al mercato del lavoro. In generale, osserva l’Istat, «si tratta di una povertà legata alla difficoltà di accedere al mercato del lavoro, in cui la presenza di redditi da lavoro o da pensione non è sufficiente a eliminare il forte disagio dovuto alla presenza di numerosi componenti a carico». Il 13,9% dei nuclei familiari con a capo un operaio è povero (ma a sud si sale al 27%), con un’incidenza doppia rispetto a quella osservata tra le famiglie con a capo un lavoratore autonomo, e quasi quadrupla per quelle di liberi professionisti.
Un quadro drammatico insomma, a cui il governo non intende dare risposta alcuna. Sia nell’immediato (è pronto il decreto per mettere in sicurezza banche e imprese, e nulla è previsto per sostenere redditi e pensioni, figuriamoci i precari), che nel futuro. Il modello a cui anche la riforma del welfare si ispirerà (è teorizzato nel libro verde di Sacconi che a giugno sarà legge) è quello della social card per i più bisognosi, 40 euro al mese per fare la spesa, qualcosa di meno persino di un’elemosina.
Su questa situazione socialmente esplosiva precipita oggi la crisi. Il partito democratico chiede «8 miliardi di euro, subito, per l’economia reale, a favore di salari, pensioni e piccole imprese». La Cgil presenta oggi, all’assemblea nazionale dei quadri e dei delegati, le sue proposte anti-crisi.