Home > Sinistra, i danni dell’arcobalenismo e il riformismo che non c’è

Sinistra, i danni dell’arcobalenismo e il riformismo che non c’è

Publie le sabato 14 giugno 2008 par Open-Publishing

Rifondazione: VII congresso

Sinistra, i danni dell’arcobalenismo e il riformismo che non c’è

di Giorgio Cremaschi

su Liberazione del 12/06/2008

A due mesi dalla sconfitta elettorale del centrosinistra se ne può misurare la portata nel successo pieno della destra, della sua agenda politica, dei suoi sentimenti profondi. E’ chiaro oramai che quello di aprile non è stato un semplice cambio di maggioranza, ma la sconfitta strategica del progetto e delle forze che da 15 anni hanno contrastato la riorganizzazione della destra attorno a Berlusconi. Una sconfitta che ha fatto sì che quello italiano sia il solo parlamento d’Europa senza forze esplicitamente socialiste e comuniste, e che va intitolata sia alle forze più moderate che a quelle più radicali del centro sinistra. Sono due sconfitte contemporanee, che proprio per questo fanno sì che oggi Berlusconi si trovi di fronte ben poco sul piano politico e istituzionale, mentre dilagano spinte xenofobe, intolleranti, autoritarie ed il padronato sogna e rivendica, con vasto consenso, praticamente tutto.

L’inesistenza di una forte opposizione politica è il frutto finale e più velenoso della politica di questi 15 anni. Ed è per questo che, per ricostruire l’opposizione, bisogna riconoscere le ragioni della sconfitta. E così anche risalire alle responsabilità soggettive, che in politica ci sono sempre.

Contrariamente a quello che viene sostenuto dai grandi giornali d’opinione, che dopo aver per anni fatto proprio un centrosinistra liberale oggi si prostrano di fronte a Berlusconi, la prima sconfitta è quella del riformismo politico italiano. Il riformismo è oggi una ideologia politica che pensa di governare la globalizzazione attraverso il pieno dispiegamento del mercato, di cui si vorrebbero frenare solo le tendenze monopoliste, e la riduzione dello Stato e delle garanzie sociali, concertata con i sindacati. In Europa il riferimento principale di questa ideologia è stato il leader laburista Blair: oggi il suo partito si sta sfaldando e si annuncia il ritorno al governo dei conservatori.

In Italia però il riformismo politico ha assunto una particolare caratteristica, che lo ha reso particolarmente fragile se misurato con quello assunto da altre sinistre europee che reggono di più, come in Spagna. Se è vero che in tutta Europa, di fronte alla globalizzazione, la politica liberista e del meno peggio adottata dalle socialdemocrazie sta portando a una tendenza a destra che è opposta a ciò che accade in tutto il mondo, è vero che in Italia il riformismo politico ha fatto più danni. Questo perché esso è figlio della crisi e della distruzione dei tre grandi partiti storici del nostro paese, la Democrazia cristiana, il Partito comunista, il Partito socialista. In Italia il riformismo politico è figlio dell’istinto di sopravvivenza del ceto politico di quei partiti. Per dirla brutalmente, è diventato una variante del trasformismo. Il lungo confronto tra questo riformismo e Berlusconi si è concluso con la vittoria di quest’ultimo che ne ha occupato saldamente il campo, come appare evidente non appena il confronto politico tocca temi concreti.

In questo contesto la sinistra radicale ha avuto una funzione anch’essa negativa in quanto, con i modi e i contenuti della presenza al governo ha alimentato solo sconcerto, riflusso, rabbia e rassegnazione. In particolare in quelle forze, in quei movimenti, che più costituivano un antidoto alla subalternità del riformismo italiano. In una situazione delicatissima, con una fragilità oggi chiara di equilibri sociali e culturali, ciò ha prodotto un effetto valanga su difficoltà e crisi già vive.

Il governo Prodi ha cominciato a distruggere il blocco sociale e i legami con chi l’aveva sostenuto, un attimo dopo essersi insediato nelle sue funzioni. E’ bene ricordare infatti che se è vero che il vantaggio alla Camera del centrosinistra era di soli 25mila voti, nel mese di giugno, nel referendum contro il federalismo e la riforma costituzionale di Berlusconi, il consenso fu del 60%. Era quindi possibile allargare la risicata maggioranza elettorale trasformandola in una vera maggioranza popolare alternativa alla destra. Invece già con la finanziaria del 2006-2007 cominciò l’alacre opera di distruzione dei legami e delle speranze nei movimenti e nel mondo del lavoro. Il 7 dicembre del 2006 gli operai di Mirafiori travolgevano di fischi i segretari generali di Cgil, Cisl, Uil e la loro politica di consenso verso le scelte del governo.

Qui la crisi politica si intrecciava con quella sindacale, in particolare della Cgil, che più di tutti agli occhi de lavoratori era identificata con il governo, anche perché nulla faceva per dimostrare il contrario. Il patrimonio di credibilità accumulato nella lotta in difesa dell’articolo 18 veniva dilapidato nell’assenza di iniziativa di fronte al crollo del potere d’acquisto dei salari e ai danni della politica dei due tempi adottata dal governo. La Cisl riprendeva così la guida delle scelte confederali, mentre la questione sindacale spariva dall’ agenda sinistra radicale, che anche qui rinunciava ad una sua istanza fondamentale. Così ci si è opposti solo all’ultimo minuto al protocollo del 23 luglio 2007, dopo che si è lavorato insieme a Cgil, Cisl e Uil passo passo per costruirlo, salvo poi scartare quando improvvisamente si veniva scartati dal tavolo di negoziazione.

D’altra parte era chiaro che tutta l’analisi che accompagnava l’alleanza con Prodi era sbagliata. Sopravvalutati i movimenti, sottovalutata la spinta conservatrice dell’Ulivo, non compresa la crisi della globalizzazione, con il ritorno delle politiche statali, magari gestite dalla destra, con la paura diffusa tra i tanti che stanno peggio, paura che il riformismo semplicemente ignora. Ma tutto questo è forse meno grave dell’atteggiamento di arrogante chiusura che si è avuto nei confronti di chi obiettava, di chi dissentiva. Fino allo scandalo della sommaria espulsione da Rifondazione comunista di Franco Turigliatto, che dissentiva su pace e guerra, mentre il governo dava il via libera alla base di Vicenza. Inutile e persino fastidioso l’appello ai movimenti, alle lotte, se ogni volta che c’era un’iniziativa, una mobilitazione, la reazione era quella impaurita di chi non sapeva bene cosa fare e comunque doveva subito premettere che non poteva essere messo in crisi il governo.

Non ci si può stupire poi se chi avrebbe dovuto lottare, nelle fabbriche, nel lavoro precario, nei territori e nei quartieri, abbia oscillato continuamente tra rabbia e rassegnazione. Tutti i gruppi dirigenti della sinistra radicale per due anni hanno solo comunicato impotenza. Né mi si venga a dire che sto sopravvalutando la forza reale di Rifondazione comunista e degli altri partiti, e che più di tanto non poteva fare. Non è così. Nel 2001, a Genova, si erano poste le basi per l’aggregazione di un popolo di sinistra altrettanto forte, diffuso e determinato, da potersi misurare con quello che si stava organizzando a destra. Pochi anni dopo al referendum sull’articolo 18, nonostante la contrarietà del 90% dello schieramento politico, dell’informazione e delle organizzazioni sociali, ben 11 milioni di persone avevano scelto una posizione di difesa avanzata dei diritti del lavoro. C’era un popolo di sinistra che poteva costruire legami e progetti, invece è stato da un lato inutilmente esaltato, dall’altro debilitato dalla gestione concreta dell’esperienza di governo.

Si potrebbe andare avanti a lungo nel sottolineare come, di fronte all’evidente subalternità alla destra del riformismo politico, il fallimento specifico della sinistra radicale e di Rifondazione comunista sia stato proprio nel non avere esercitato alcuna controtendenza e non aver costruito alcuna alternativa. So bene che a questo punto l’obiezione è: ma allora bisognava fare come il ‘98? In Germania Oscar Lafontaine ci mise un mese, quando era al governo con Schroeder, per capire che la politica economica liberista della sinistra non poteva essere né sostenuta né mitigata. Qui le ragioni del ’98, forse anche un certo pentimento per esso, sono state semplicemente rimosse, a favore di un patto tra gruppi dirigenti che si pensava avrebbe garantito da ogni difficoltà. E invece questa volta il ’98 l’hanno fatto gli elettori, abbandonando il centrosinistra e, in particolare, la sua sinistra.

La riflessione sul perché siamo arrivati sin qui potrebbe essere meno necessaria e pedante, se vivessimo in un clima di autocritica , modestia, cambiamento di obiettivi e soprattutto pratiche. Invece il Partito democratico continua imperterrito come se avesse vinto le elezioni e le sue posizioni sono subalterne o ininfluenti rispetto a Berlusconi fino alla caricatura. La sinistra radicale a sua volta si è frantumata, ma vedo che in essa è ancora presente la tentazione di saltare l’analisi di questi due anni catastrofici e di riproporre formule aggregative, unioni di ceto politico, come soluzione della crisi. Riformismo politico e arcobalenismo continuano a far danni.

Intanto l’offensiva della destra e della Confindustria prosegue e si rafforza. Sono all’ordine del giorno la liquidazione del contratto nazionale, quel federalismo non solidale che solo due anni fa era stato respinto dalla maggioranza del paese, l’esaltazione del sacro egoismo del lavoratore, dell’impresa, del territorio, naturalmente temprati dalla minaccia dell’intervento dell’esercito, se poi non si va nella direzione voluta.
La ricostruzione delle sinistre parte dalla capacità di fermare questa deriva e la rottura con il riformismo politico italiano è la premessa necessaria per l’opposizione. Ciò non significa la rinuncia a ogni forma di gradualismo e di articolazione. Ma il riformismo ideologico, travolto e assorbito da Berlusconi, non è un interlocutore per chi voglia ricostruire in Italia la sinistra e il conflitto sociale: quando si ricomincerà a lottare, allora emergeranno altri interlocutori, altri riferimenti anche in quello che è oggi lo schieramento riformista.

Bisogna definire un programma d’azione. Bisogna dire no a questa Europa delle banche e del patto di stabilità. Bisogna ricostruire il conflitto sociale contro la concertazione. Bisogna ricostruire il potere dei cittadini contro amministrazioni comunali, di destra e di sinistra, ostaggi dei poteri forti dell’economia e dell’informazione. Bisogna combattere il neofascismo e contrastare la deriva sicuritaria e intollerante, affrontando il disagio sociale che viene usato per alimentarla.

Questa è la discussione politica di oggi e qui occorrono scelte nette, che saranno credibili solo se partono dalla rottura con l’esperienza degli ultimi anni. Per questo mi auguro che Rifondazione consideri concluso e non riproponibile l’impianto politico e di gestione che ha portato al disastro attuale. E’ una condizione necessaria, anche se non sufficiente. Infatti, dopo il disastro, è illusorio pensare che si possa semplicemente restaurare la situazione precedente. Con molta modestia tutti coloro che vogliono ricostruire opposizione ed antagonismo dovranno trovare obiettivi e sedi comuni, partendo dalle forze reali che sono rimaste. Si ricomincia stando dalla parte di chi nel dicembre 2006 fischiava.