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In un paese normale non dovrebbe stupire la richiesta di condannare Gianni De Gennaro per le falsità dette e per quelle che ordinò di dire ai suoi sottoposti sulla razzia poliziesca del 20 luglio 2001 alla scuola Diaz di Genova. Invece qui da noi rischia di essere considerato un caso esemplare. Per la rilevanza e la storia di chi è alla sbarra, ma anche per il rigore con cui è stata condotta un’inchiesta che proprio lo stesso imputato ha cercato in tutti i modi di svuotare, utilizzando il proprio potere.
Del resto è anche vero che qui da noi di normale non c’è nulla, dalla macelleria genovese di nove anni fa ai tentativi di ricondurre la magistratura a una dependance dell’esecutivo e degli apparati di cui si circonda.
Gianni De Gennaro - capo della polizia nel 2001, poi promosso a capo Gabinetto del Viminale, infine tra i massimi dirigenti dei servizi segreti - è uno degli uomini più potenti d’Italia. La sua carriera ha attraversato governi di colore diverso, la sua scalata ai vertici dello Stato non ha conosciuto freni. Certamente possiede una grande professionalità, sicuramente conosce tutto di tutti quelli che contano, senza dubbio sa usare le informazioni in suo possesso e muoversi bene nelle stanze del potere. Insomma, non è l’ultimo arrivato, anzi.
Eppure nel tentativo di depistaggio del processo che ne metteva in discussione l’agire durante il G8 di Genova e sotto accusa i suoi più stretti collaboratori, si è mosso come un elefante in un negozio di porcellane. Come se avesse da difendere ben di più che se stesso o l’onorabilità propria e del Corpo.
Da capo dei poliziotti ha ordinato ad altri poliziotti di mentire per evitare che emergessero le sue responsabilità «politiche» nella mattanza della Diaz. Che non fu solo un atto di violenza gratuita o una «lezione» da impartire a una generazione per convincerla - con le cattive - a non occuparsi più dei destini propri e del mondo, a starsene a casa. Ma che fu pure la pratica di un obiettivo prodomo di un progetto: la messa a regime dell’indipendenza delle forze dell’ordine rispetto all’organismo che - invece - dovrebbe lui sì essere indipendente, la magistratura. Vale la pena di ricordare come l’irruzione notturna alla scuola Diaz fu un atto criminale anche perché fatto al di fuori delle minime regole del diritto: nessun magistrato era stato avvisato, la polizia agì autonomamente, appropriandosi del potere d’arresto e di persecuzione penale. Cosa che il nostro ordinamento non prevede, cosa che rovescia i dettami costituzionali, come se un regime presidenziale prendesse il posto di uno parlamentare.
Fu una sovversione di stato. Che poi De Gennaro - con la copertura di tutti i governi che ne hanno scandito l’irresistibile carriera - cercò di coprire con l’eversione istituzionale della menzogna come ordine di servizio.
Sono passati quasi nove anni. Durante i quali la democrazia è dovuta arretrare lasciando spazio al populismo e all’autoritarismo. Le debolezze della sinistra, le sue subalternità, ne portano parte delle responsabilità; l’ascesa e la crisi del liberismo hanno avuto un ruolo. Ma le pratiche dispotiche che sono riuscite a diventare egemonia nella società italiana hanno trovato negli apparati dello stato delle sponde straordinarie. Ora - alla vigilia di un nuovo G8, mentre l’accumulo di potere in poche mani assume caratteristiche da fine impero - la richiesta di condanna per uno dei protagonisti di quella deriva autoritaria può aprire due strade diverse e opposte tra loro: ristabilire un punto di diritto, se l’imputato sarà trattato come un «comune cittadino»; sprofondare nel verminaio delle lotte di potere, se la sua eversione istituzionale troverà il conforto di una «considerazione speciale».