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Staccata la spina: morto Welby - I radicali:

Publie le giovedì 21 dicembre 2006 par Open-Publishing
7 commenti

Staccata la spina: morto Welby

I radicali: "È disobbedienza civile"

di Orlando Sacchelli

Roma - È morto Piergiorgio Welby. Un medico gli ha staccato la spina praticando l’eutanasia. ll decesso è avvenuto alle 23.59 di mercoledi. L’annuncio è stato dato da Marco Pannella dai microfoni di Radio Radicale. I particolari sono stati rivelati nel corso di una conferenza stampa indetta dall’Associazione Luca Coscioni, di cui Welby era co-presidente. "Welby ha accettato la sedazione per via venosa - rivela Mario Riccio - medico anestesista dell’ospedale maggiore di Cremona e membro della Consulta di Bioetica di Milano -. Così gli abbiamo somministrato un cocktail di medicinali. L’operazione è durata quaranta minuti. Contemporaneamente abbiamo staccato il respiratore. Tengo a precisare che le due operazioni sono avvenute simultaneamente". Negli ultimi istanti della sua vita nella stanza di Welby erano presenti familiari e amici: la moglie Mina, la sorella Carla, il segretario dei Radicali italiani Rita Bernardini, Marco Pannella e Marco Cappato.

Sessanta anni, Welby, malato da lungo tempo, lo scorso settembre Welby si era rivolto al Presidente della Repubblica chiedendo il riconoscimento del diritto all’eutanasia. Giorgio Napolitano aveva risposto dicendo di auspicare un confronto politico sull’argomento. Due mesi dopo, però, le condizioni del malato si erano notevolmente aggravate. Il 16 dicembre 2006 il tribunale di Roma aveva respinto la richiesta dei legali di Welby di porre fine all’accanimento terapeutico, dichiarandola "inammissibile", per via del vuoto legislativo su questa materia. Secondo il giudice esiste il diritto di chiedere l’interruzione della respirazione assistita, previa sommministrazione della sedazione terminale, ma è un "diritto non concretamente tutelato dall’ordinamento".

Nelle ultime settimane si era acceso il dibattito sull’eutanasia, dividendo le coscienze dei cittadini e dei politici. E’ di ieri il parere del Consiglio Superiore della Sanità.

www.ilgiornale.it

Messaggi

  • Ciao Welby. E grazie

    di Nero Wolfe

    Quest’uomo ha finito di soffrire. Ma la sua battaglia per una morte giusta deve continuare

    Questa notte Piergiorgio Welby ha finito di soffrire. La morte lo ha liberato, in tutti i sensi: gli ha consentito di lasciare la prigione del suo corpo immobilizzato dalla distrofia, e gli ha permesso di evadere, per sempre, da un mondo di ipocrisia e di ottusità istituzionale spaventose.

    Oggi non dobbiamo compatire la sua sorte, ma essere contenti perché, finalmente, quest’uomo eccezionale non soffre più ed è andato in un mondo certamente migliore.

    Da cristiano ritengo che la sua battaglia per morire fosse giusta e perfettamente legittima, anche se la posizione della Chiesa cattolica è diversa. Da cittadino penso che lo Stato debba regolare, in qualche modo, quella zona grigia che sta tra la vita e la morte, tra l’agonia e l’accanimento terapeutico, tra la volontà di continuare a vivere soffrendo e quella di morire e trovare pace, tra la dignità umana e la devastazione del corpo.

    Ho paura che con la morte di Welby tutto ritornerà nel silenzio, come prima. Si tornerà a dare la morte pietosa di nascosto, come afferma Luca Cappato, segretario dell’associazione a cui Welby apparteneva. Si praticherà un’eutanasia clandestina, come una volta si faceva con gli aborti.

    Piergiorgio sarebbe potuto morire così, e nessuno se ne sarebbe accorto: ma la grandezza di quest’uomo è stata anche nel fatto che ha scelto di fare di sé un simbolo, nella speranza che lo Stato intervenisse con delle norme apposite.

    Questo non è avvenuto. Ancora ieri ci si accapigliava in sede giurisdizionale sulla legittimità di voler morire o meno, e persino sulle reali condizioni di Piergiorgio.

    Qualcuno, durante l’interminabile agonia di Welby, ha detto che bisogna lottare e vivere, anche soffrendo. L’ha detto anche un altro signore malatissimo. Ma è una questione mal posta. Quello che deve essere sancito, in uno Stato laico, è il diritto di una persona a scegliere cosa fare di sé stesso in un caso di sofferenza estrema e irreversibile. Chi vorrà continuare a vivere, lo faccia. Ma chi vorrà morire dignitosamente deve essere messo in condizioni di farlo.

    Non solo bisogna regolare la situazione dell’accanimento terapeutico ma, in realtà, bisognerebbe anche varare finalmente una legge sull’eutanasia. Vivere a tutti i costi e comunque, senza potersi muovere, parlare, mangiare, e infine anche respirare, che senso ha? Che vita è?

    Addio, Piergiorgio: che la terra ti sia lieve.

    Nero Wolfe

    www.massimocoppa.ilcannocchiale.it

    • Morire anche se la Chiesa non vuole

      Le luci del Natale accompagnano il tormento di un uomo che vuol morire ma non può morire. Chiede di morire con la dignità di una persona non confusa dal dolore. Non sopporta lo spegnersi di un corpo ormai nemico al quale le macchine allungano lo strazio senza speranza. Si dice accanimento, ma è qualcosa di più ipocrita, forse perverso.

      L’agonia è il momento privato al quale impossibile sfuggire. Ci aspetta chissà dove, dubbi e illusioni raccolte sull’ultimo guanciale nel silenzio dei pensieri. In questi giorni non è semplice capire come mai le ore segrete siano diventate una specie di reality show, minuto per minuto, sentenza per sentenza rivoltate nelle prime serate Tv da signori in buona salute o giovanotti che della polemica ne hanno fatto professione. Paladini della pelle degli altri per eccesso di solidarietà. Oppure? Le ipotesi possono essere diverse.
      Prevale l’ultima generosità di chi attraversa la sofferenza e decide di affrontare una disperata battaglia civile per impedire che la stessa pena strazi altre persone nella disattenzione di leggi superficialmente interessate a chi non ce la fa. Non importa se l’angoscia é atroce. Per i codici la vita deve continuare nel rispetto delle carte scarsamente frequentate. Ecco l’altruismo di Welby: far capire l’impossibilità di una sopportazione disumana richiamando i legislatori al dovere non gradevole, ma necessario, dell’ impedire che il tormento si ripeta.

      E’ già possibile impedirlo se si fosse affidato alle pratiche legali e non furtive che ogni giorno in ogni ospedale ogni medico esercita per placare il dolore. Morfine più pesanti che addormentano fino al respiro finale. Senza clamori, lontano dai battage che accendono confronti troppo illuminati. Anche la dottrina della Chiesa rifiuta le vite tagliate e le rifiutano i politici che del cattolicesimo ne fanno pubblico teatro. Rovesciano i registri morali delle loro comodità mortali per ribadire la speranza di una fede che non si arrende. Ma il confronto non può esaurirsi nello spettacolo di immagini e parole, interviste che rinfacciano ipotesi inconciliabili: il dramma deve essere affrontato con una prudenza libera da ipocrisie per concretizzare la tutela dell’estremo diritto umano.
      Tralasciare il pudore per raccontare la propria sofferenza a chi decide e a chi deve scoprire come può finire la vita, quindi pretendere chiarezza nei codici, é la testimonianza della generosità di Welby: morire in pubblico per far capire.
      Resta il dubbio per la politica se ne é impadronita con eccessivo fervore. Cavalcare la ribalta non spiace a chi lo fa di mestiere.
      Anche la Chiesa potrebbe illuminare il dialogo con una comprensione che non tradisca i dogmi ma si avvicini alla fragilità dell’uomo. A volte la Chiesa si apre a comprensioni insospettate.

      Anni Settanta, Irlanda del Nord. sciopero della fame fino alla morte nel carcere speciale di Maze: cinque ragazzi, guerriglieri dell’Ira, chiedono di indossare i vestiti di casa e non le tute operaie che il regolamento impone. Gli abiti proibiti sono un po’ speciali: basco nero, calzoni militari. Insomma, divisa dei giorni di fuoco. Durante le ore d’aria marciano nel cortile imbracciando pezzi di legno come fossero fucili. Uno di loro fa il comandante e dà ordini. Di corsa, dietro front, a terra. Addestramento di un plotone. Quando Londra proibisce marce e divise, comincia lo sciopero della fame. Vogliono essere considerati prigionieri politici, non terroristi.
      Bobby Sands è il primo a morire dopo settimane di un’agonia accompagnata dalle preghiere di ogni comunità cattolica dell’Irlanda del Nord. Le guidano i sacerdoti. "Signore aiutali ad ottenere giustizia". Nessuno prega perché smettano di morire. "Preghiamo per aiutarli ad avere coraggio fino in fondo. La loro fine cambierà le leggi di questo paese." Bernadette Devlin stava per diventare deputato europeo della comunità cattolica di Belfast. Faccia bionda da contadina, prima che un bomba protestante le scoppiasse addosso. Cammina zoppicando, guance segnate da piccole cicatrici. "Si può morire per una divisa?" "Non si tratta di camicie e pantaloni. E’ il principio di un’identità che gli inglesi vogliono umiliare". Si può morire per un’identità? "Allora per cosa vivere se viene rubata?"

      Il dolore che oggi strazia Welby, ne minaccia l’identità ? In quel Settanta Bobby Sands muore suicida ma non per la Chiesa e per il vescovo cattolico di Belfast. Nella cerimonia solenne d’addio ripete: "i carcerieri lo hanno costretto." Un altro dei ragazzi che non mangia e non beve entra in agonia. Frank Hugher, 24 anni. Andiamo in macchina a Bellughy, paesino vicino a Derry, dove vive la famiglia di Frank. Ha organizzato una veglia di preghiera. Oliver, il fratello racconta di essersi candidato alle elezioni amministrative di Derry. Partito cattolico. Il dramma di Frank gli regala una certa popolarità. E’ convinto di poter essere eletto. Nel cucinone un sacerdote dalla faccia scavata ha cominciato a pregare. Davanti alla foto di Frank sono accese due candele. "E’ triste," dice il prete sulla porta di casa quando il rosario è finito: "Preghiamo per aiutare un ragazzo a resistere fino in fondo nel suo proposito. Sarà giusto oppure sbagliato ? Il Signore lo sa." La madre sta versando da bere. Vestita a festa, parla come un’automa. "Sono gli altri che lo uccidono. Frankie non ha scelta." Scappa nell’altra stanza, vuol piangere da sola. Il marito abbassa gli occhi. "Dobbiamo rispettare la volontà del ragazzo." Ma lei è cattolico. La Chiesa condanna il suicidio...:Oliver si arrabbia: "Non è suicidio. Siamo in guerra. Quando un soldato va all’attacco sa bene che le probabilità di arrivare dall’altra parte sono poche. Allora ogni soldato deve essere considerato un suicida?"

      E Welby, alle corde per il dolore, oggi vuole avvicinare l’ultimo battito: può essere definito peccatore? Frankie muore il giorno dopo, alle sei del mattino. Cerimonia sempre solenne. Due vescovi e tanti sacerdoti. Lo seppelliscono nell’angolo che il cimitero ha riservato "agli eroi." Quando il corteo infinito passa davanti alle postazioni inglesi, le donne aprono l’ombrello anche se splende il sole. Non vogliono che le telecamere dei servizi segreti guardino in faccia chi segue la bara. Aprono l’ombrello per proteggere anche la fila dei sacerdoti. Ma davvero sono tutti preti?
      Questa la Chiesa irlandese, anni settanta, Paolo VI in Vaticano. Echi romani sbiaditi, nessuna voce condanna o prova a capire. I padri spirituali di Casini, Mastella, Giovanardi, eccetera, non avevano tempo da perdere con certe sciocchezze. Adesso la folgorazione: tempo ritrovato. Morire per fame, eccesso di morfina o per una mano che stacca la macchina, quale soprassalto morale può scatenare negli onorevoli legislatori dalla fede prète a porter?

      Maurizio Chierici

      da:
      http://www.arcoiris.tv/modules.php?name=Lettere&op=esteso&id=1586

  • LA MORTE DI PIERGIORGIO WELBY E LA SITUAZIONE DEI MALATI TERMINALI NEL LAZIO

    articolo scritto grazie a Luigi Misuraca il cui blog è:

    http://www.eugualemcalquadrato.ilcannocchiale.it/

    Oggi è senza dubbio il giorno di Piergiorgio Welby ed è giusto che si parli della sua morte e della sua precedente determinata volontà di farsi "staccare la spina".
    I Pm dicevano: "è un diritto non curarsi".
    Sarebbe anche giusto che da questa vicenda si sviluppasse una discussione su quali siano le possibilità di cura per i malati terminali e di supporto per i loro congiunti nelle fatiche quotidiane dell’assistenza.
    Ad esempio, poco si discute della decisione dell’Assessorato alla Sanità della Regione Lazio di tagliare i posti letto e accorpare i reparti non produttivi.
    A mio avviso, i tagli dei posti letto negli ospedali, per le modalità prospettate, sono iniqui, perché già oggi ammalati colpiti da patologie oncologiche sono costretti a curarsi a casa ove si resta attaccati a mini-computer che iniettano nell’organismo, ad intervalli regolari, i medicinali specifici tra i quali il platino, ecc.. con effetti collaterali di certa rilevanza e preoccupazione sui pazienti.
    Talvolta, purtroppo, per carenza di attrezzature d’asporto si è rinviati, seppur già in fila per la cura (ciclica con scadenze predeterminate all’avvio della stessa), ad altra data, mentre la malattia, come è noto, non aspetta e non rinvia i suoi effetti di sofferenza sugli ammalati.
    Chi pratica il Polo Oncologico dell’I.F.O. - I.R.E. ( Irccs d’eccellenza) di Roma può convenire sulla decisione di mettere mano a sacche d’inefficienza ma non a percentuali di riduzione tout-court, così come sta avvenendo nella citata struttura, punto di riferimento e faro della speranza per ammalati residenti nella Regione Lazio e per quasi tutto il Centro-Sud del Paese.
    Alle ore 7.00 di ogni mattina, in tutto il Polo Oncologico, c’è una gran quantità di persone, arrivate anche da ogni parte del Centro-Sud d’Italia.
    Davanti alla porta di ingresso di uno dei Reparti, che verrà sacrificato per l’accorpamento con altri similari, staziona un certo numero di pazienti in attesa del ricovero.
    Ammalati "specialissimi", così come tutti coloro che si devono avvalere delle cure in questione - già scadenzati sulla limitata ricettività oggi esistente - che si devono sottoporre ad interventi per l’asporto di parti ammalate in organi del proprio corpo.
    Credo quindi che si debba valutare preventivamente l’impatto di certe decisioni importanti ed esaminare prima quali siano le potenzialità sul territorio dei cosiddetti moduli abitativi medicalizzati (hospice) e quale sia la potenzialità offerta dal servizio di ospedalizzazione domiciliare.

    Domenico Ciardulli

    www.ciardullidomenico.it

  • continuiamo a rispettare Piergiorgio, rispettando l’intimità di coloro che lo hanno amato. E se qualcuno vuole dire qualcosa spediamolo negli ospedali a fare bidè a lungodegenti, visto che ci tengono tanto a tutelare la vita

  • Esplode la polemica politica

    di Redazione

    Roma - Immediate le reazioni dei politici dopo la morte per eutanasia di Piergiorgio Welby (nella foto la sorella Anna con Emma Bonino). Il leader dei Radicali Marco Pannella ha commentato così la notizia: "Grazie a Welby non c’è solo un giudice, ma anche un dottore in Italia. Certo, cercheranno di fargliela pagare, ma l’avere costruito in questi 88 giorni, rispondendo a interrogativi e urgenze ogni giorno diverse, la praticabilità di un percorso che il giudice non ritiene ancora percorribile. Nel salutarlo gli ho detto: Visto, ti pareva stessimo scherzando?”.

    Durissimi i commenti del centrodestra. Luca Volonté (Udc) chiede l’arresto dei "colpevoli di questo omicidio". Parla invece di "barbara strumentalizzazione" da parte dei radicali Ignazio La Russa (An). L’ex sottosegretario dell’Interno, Alfredo Mantovano (An), punta il dito contro i “criminali” che “uccidono per propaganda politica allo scopo di invocare una legge che generalizzi la morte”. Enrico La Loggia (Fi) afferma perentorio: “L’atto compiuto è illecito". Gianfranco Rotondi, segretario Democrazia cristiana per le autonomie, ribadisce che “nessuno può decidere di porre fine a una vita data da Dio, per chi crede in Dio, e dalla natura per chi non è credente”.

    Fuori dal coro, rispetto al resto della Cdl, la dichiarazione che Alessandra Mussolini (Alternativa sociale) ha scritto in un telegramma scritto alla famiglia Welby: “È stata fatta la volontà di Dio”. La maggioranza vive momenti di forte imbarazzo, soprattutto per la difficile convivenza, al proprio interno, dell’anima laica e di quella cattolica della Margherita. Il presidente della Camera Fausto Bertinotti ha sottolineato come “l’uomo Welby ha vissuto il suo dolore in modo pubblico cercando di contribuire al dibattito nella società su questo argomento delicato”

  • "Quello che più da fastidio in tutta questa vicenda è la vergognosa e fanatica ipocrisia dei catto-fascisti, che si affannano, com’è nel loro costume, a lanciare strali a destra e a sinistra conto chi vorrebbe legalizzare pratiche di buona morte, che sono ormai, più o meno clandestinamente ,adottate in tutte le strutture sanitarie non pubbliche. In Italia a pagamento tutto è lecito e consentito,solo i poveracci, che non possono permetterselo, devono penosamente aspettare la morte tra atroci sofferenze e spasmi indicibili. Il signor Berluska, facendosi allegramente beffa delle italiche strutture sanitarie, ha creduto bene andare a farsi curare negli States, dove, se eventualmente ce ne fosse stato bisogno, nessuno gli avrebbe negato un pietosa iniezione!!!"
    MaxVinella

  • Il medico che l’ha aiutato a morire «Sono sereno, era la cosa giusta»

    Capelli grigi in testa e tante quotidiane battaglie in sala rianimazione sulle spalle, Mario Riccio, anestesista nell’ospedale di Cremona, in genere i malati cerca di salvarli. Ora invece, dopo aver accompagnato dolcemente Piergiorgio Welby dall’altra parte, rischia 15 anni per omicidio di consenziente. Lui però è sereno: «Sono calmo e tranquillo, a posto sia con la mia coscienza che con la legge».

    Però la Digos l’ha interrogata a lungo...

    «Secondo me da questo punto di vista non ci sono pericoli. Un’incriminazione? Sarebbe come il Processo di Kafka. Spero che giuridicamente non accada nulla perché era doveroso intervenire».

    Doveroso?

    «Sì. Bisognava interrompere subito la violenza contro il corpo di Welby, come del resto chiedevano lui stesso e i suoi parenti».

    Così lei ha staccato la spina.

    «Ripeto, non abbiamo fatto nulla di illegale. Innanzitutto precisiamo che non si è trattato di un’eutanasia, perché non ho iniettato nel malato nessuna sostanza letale. Ho solo interrotto la terapia ventilatoria, d’accordo con lui».

    Ne parla come se fosse una pratica normale.

    «E purtroppo lo è. È una situazione che io vedo e vivo continuamente nel mio reparto di terapia intensiva, dove capita spessissimo di fare queste scelte, quando medici e parenti concordano di rinunciare all’accanimento terapeutico. Certo, se lei adesso mi chiede se è stata una cosa facile, io le rispondo di no, che non è mai una cosa facile. Ma la morte fa parte delle cose che succedono e bisogna saperlo. E occorre pure sapersi fermare al punto giusto. Che senso ha far soffrire ancora chi si trova in certe condizioni?».

    Stavolta è stato diverso dal solito?

    «Non è mai una passeggiata, non sono operazioni che si compiono a cuor leggero. Questa poi era una situazione molto particolare, con tutta la pressione mediatica e politica che c’era sopra».

    Come mai è toccato a lei accompagnare Welby alla morte?

    «Non mi è toccato, mi sono offerto. Nelle settimane scorse, visto il mio impegno nella bioetica, sono entrato in contatto con l’associazione Luca Coscioni per approfondire alcuni aspetti tecnici e medici. Mi hanno chiesto se ero disponibile a realizzare il desiderio di Piergiorgio, io ho risposto di sì, ho detto che non vedevo ostacoli, ritenendolo un diritto riconosciuto e ampiamente praticato. Con Cappato avevamo preparato tutto, cercando di evitare pressioni e condizionamenti su di me e sui familiari. Eravamo pronti a partire appena Welby ce l’avesse chiesto».

    Quando lo ha conosciuto?

    «Avevo già letto il suo libro. Lunedì sono venuto a Roma. L’ho incontrato, abbiamo avuto un lungo colloquio. Lui mi ha confermato ampiamente la sua ferma volontà di interrompere la terapia di ventilazione assistita e che ciò avvenisse in corso di sedazione».

    Welby non ha avuto dubbi finali, esitazioni?

    «No. Lui aveva riflettuto a lungo sulla lettera del professor Marino che gli chiedeva di soprassedere e aveva saputo del pronunciamento del tribunale. Mercoledì sera gli ho domandato se per caso il ricorso della Procura modificava qualcosa. Lui mi ha risposto che non cambiava nulla e che voleva andare avanti».

    Così siete andati fino in fondo...

    «Sì. Lui voleva che io prima interrompessi la terapia ventilatoria e che solo dopo lo sedassi. Gli ho spiegato che questo deontologicamente non si poteva fare, che semmai doveva essere il contrario. Voleva essere sedato per bocca, però nemmeno questo era possibile. Non potevo farlo soffrire. Alla fine si è convinto. Alle 23,40 Piergiorgio è morto per arresto cardiocircolatorio».

    E lei dottore adesso come si sente?

    «Mi sento tranquillo, sia dal punto giudiziario, che da quello medico e deontologico. Sono convinto di aver fatto la cosa giusta».