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Stare al governo non vuol dire fare silenzio

Publie le venerdì 16 giugno 2006 par Open-Publishing

di Piero Sansonetti

Nella maggioranza di governo la tensione è abbastanza alta per vari motivi. Essenzialmente - riassumendo - perché ci sono vari dissensi su tre temi: la politica estera (e in particolare il destino della nostra partecipazione all’occupazione dell’Afghanistan); la politica economica (e in particolare l’orientamento che deve prendere la manovra, se cioè deve soccorrere i salari e i redditi bassi o invece deve essere un aiuto all’impresa, perché solo l’impresa - dice Confindustria - può rimettere in moto lo sviluppo e dunque creare nuove ricchezze); la politica dei diritti civili, della ricerca scientifica, dei diritti delle donne (e in particolare la questione della legge 40, difesa dai cattolici, odiata dai laici).

Ci sono molti osservatori politici i quali credono che questo stato di cose sia una tragedia, che mini la possibilità di tenuta della maggioranza, e che quindi vada rapidamente corretto. In che modo? Dando più potere a Prodi, o comunque ai partiti più forti dell’alleanza, e cioè i Ds e la Margherita, assegnando a loro il compito di trovare una mediazione al proprio interno e di pretendere poi che questa mediazione valga per tutti.

In sostanza, qual è l’idea di questi politologi? Quella di spingere la maggioranza di centrosinistra a rimodellarsi sulla base dell’esperienza del centrodestra. Anche il centrodestra, quando era al governo, aveva al suo interno posizioni assai diverse su molti degli argomenti che angustiano oggi la maggioranza-Prodi. Come risolse il problema? Con la forza del suo leader.

Però tra il centrodestra e il centrosinistra c’è una differenza di fondo. Il centrodestra è stata una alleanza politica fondata, costruita, modellata, finanziata e legittimata da Berlusconi. I due più importanti partiti alleati di Forza Italia (An e Lega) erano partiti che prima dell’arrivo del cavaliere non avevano neppure legittimità democratica nel paese, nell’opinione pubblica, nei mass media. Il centrodestra era una alleanza di tipo padronale, che poteva anche al suo interno avere forti dissensi, ma aveva anche una fonte di autorità indiscutibile. Non si basava sul volontario patto di solidarietà tra eguali, ma su una raccolta di forze realizzata da un capo.

Non è un modello che piace a sinistra. La sinistra italiana, di istinto, è più democratica. Ma anche se le piacesse, sarebbe un modello impraticabile: perché l’Unione è nata da un patto tra forze diverse per consistenza elettorale ma uguali per dignità politica e capacità di produrre idee.

La forza dell’Unione potrà venire solo da una discussione aperta, pubblica, che coinvolga i partiti che la compongono e coinvolga i movimenti, la gente, gli elettori, la società. Questo non vuol dire che poi non dovranno pesare anche i rapporti di forza al suo interno. E’ logico: peseranno. Però l’illusione della “democrazia di mandato” e del “pensiero unico” (che fu la forza dell’Ulivo anni ’90) è finita: fortunatamente è finita. Questa è l’epoca delle differenze, del diritto all’identità, alla elaborazione politica, alla discussione. “Unione” non significa che siamo tutti uguali, che ci assomigliamo come gemelli, che ci rutellizzeremo tutti. Significa che siamo dentro una alleanza di governo, e in questa alleanza ognuno cerca di ottenere il più possibile: in questa alleanza si vince e si perde ma non si è mai ridotti al silenzio.

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