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Studenti, una lezione anche per la sinistra

Publie le mercoledì 12 novembre 2008 par Open-Publishing

Studenti, una lezione anche per la sinistra

di Enzo Scandurra, docente della Facoltà di Ingegneria della sapienza

Mi trovo a coordinare un Comitato di docenti e studenti che si è formato nella Facoltà di Ingegneria contro la legge 133 sui tagli al funzionamento ordinario dell’università. Da questo particolare osservatorio deduco alcune considerazioni.

E’ sorprendente come gli studenti mostrino una tale (grande) maturità politica senza alcuna appartenenza ai partiti tradizionali. Ciò che lascia sorprese persone della mia età e dei miei trascorsi politici è la loro totale assenza di ideologia e pur tuttavia (o forse meglio sarebbe dire: proprio per questo) la loro grande capacità di affrontare in modo radicale i problemi. Chi li accusa di fare il "gioco dei baroni" dice sciocchezze prive di senso e minimizza invece la loro maturità e consapevolezza della posta in gioco.

Ricordo, qualche anno prima del Sessantotto, che gli studenti universitari erano, da tutti, trattati con grande rispetto. C’era implicito il riconoscimento sociale che essi sarebbero diventati la futura classe dirigente del paese. Era una università di élite, certo, ma fuori ogni dubbio era il fatto che il futuro del paese molto sarebbe dipeso dal funzionamento di quelle università e dalla preparazione di quegli studenti. Nessun rimpianto, per carità! Era quello un modello di università classista, gerarchico ed è bene che sia stato contestato e abbattuto.
Da allora una riflessione politica su cosa significa università di massa non c’è mai stata; una università di massa non è mai stata veramente realizzata. L’attuale modello sembra più democratico: è accessibile a tutti (o quasi) ma sembra che ciò sia stato reso possibile abbassando il livello dei servizi e declassando il valore della laurea anziché progettandone uno nuovo e adeguato ai tempi. L’allineamento ai modelli europei (il tre più due, il sistema dei crediti, ecc.) ha sperperato quel patrimonio illustre di metodi ed esperienze che hanno reso i nostri ricercatori tra i più preparati al mondo (altro che sciocchezze sui fannulloni). Un sistema è stato scardinato senza che uno nuovo venisse a sostituirlo. Il modello humboldtiano di università, modello che lega insieme tradizione e innovazione, è stato nel tempo sostituito da un modello tutto proteso ad adeguarsi al cosiddetto "mercato" del lavoro. Tanto che, in questa università, qualcuno chiama gli studenti "clienti"; clienti di una ipotetica azienda produttrice di titoli che nessuna impresa riconosce e tanto meno valorizza. Diceva il fisico Amaldi che l’università non può essere vista come una spesa, semmai come un investimento che il paese fa nei riguardi del futuro.

Ora siamo al traguardo finale. Abbandonata a se stessa (e in questo gli episodi veri di malcostume e di scandali in seno alla comunità accademica non aiutano certo) non resterebbe altro che la sua trasformazione (una vera e propria mutazione degli statuti originari) in una fondazione privata con le conseguenze nefaste che ciascuno può facilmente prevedere, come la fine della ricerca di base, bancarotta delle facoltà umanistiche, morte della produzione di una conoscenza critica disinteressata e non subordinata all’ideologia dominante del mercato. Dimostrata la sua presunta "inefficienza", tagliati i fondi, impedito l’accesso alle nuove leve, questa università ha così il destino segnato (ma di quale riforma si parla in queste condizioni?). In questo la cialtroneria e l’insipienza del governo e della classe dirigente fanno rimanere sgomenti e ammutoliti. Gli studenti hanno capito bene quale sarebbe il loro destino e lottano per cambiarlo. Chi li accusa di essere facinorosi, fannulloni, facili prede di ambigue trame dei "baroni", mente, oppure non li ha mai frequentati davvero. Da loro viene una lezione "politica" che bisognerebbe amministrare: sanno di essere stati espropriati di una conoscenza critica e di essere destinati ad alimentare la massa indistinta di precariato globale. Non cercano facili appoggi, guardano con sospetto chi si dichiara, ora, dalla loro parte, fiutano a distanza il pericolo, non si fanno abbindolare dalla falsa e vecchia politica.

Quanto ai "baroni", chiamiamoli per favore col loro nome. Si tratta di docenti la gran maggioranza dei quali si dedica alla didattica e alla ricerca con passione e con generosità, spesso ben oltre il loro dovere. Semmai sono essi vittime di quella complicità esistente tra alcuni loro furbi colleghi (i furbetti accademici) e i vari politici di turno. Quante nuovi sedi universitarie, ministra Gelmini, sono state aperte, per non dire imposte, dai politici avidi e corrotti per accontentare esigenze campanilistiche, come ai tempi delle autostrade che passavano sempre vicine ai comuni dei loro padrini politici? Quante distorsioni, concorsi, finanziamenti, ecc., si sono prodotte nel sistema per esigenze puramente politiche? Che poi questo malcostume della politica abbia trovato nelle università compiacenze e complicità non giustifica la campagna indiscriminata di criminalizzazione in atto contro tutti i docenti. E comunque, si è mai visto un governo che taglia i finanziamenti alla scuola e all’università del proprio paese magari per passarli a qualche banca in odore di fallimento? Diciamoci la verità fino in fondo. Marcio è questo governo e questa classe dirigente che vende i gioielli della nonna al primo banco dei pegni.