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Tempo di guerra

Publie le sabato 9 luglio 2005 par Open-Publishing

Tempo di guerra

di GABRIELE POLO

Viviamo in guerra. Non sappiamo bene quando è iniziata, se nel 1991 in Iraq o in Jugoslavia, nel 2001 a New York o in Afghanistan, oppure nel 2004 a Madrid. Sappiamo che ha trasformato tutto il mondo in un unico fronte, che ha la sua prima linea, lunghissima come mai prima nella storia, dall’Europa all’India; che ha ragioni economiche ma anche profonde matrici identitarie; che costruisce le sue ideologie, benedette persino da un papa; che è combattuta da militari in divisa e da guerrieri nell’ombra; che chi la dirige - da una parte e dall’altra - cerca legittimità soprattutto nell’avversario, al punto da esserne il necessario corrispettivo. Non siamo in grado di dire chi la sta vincendo, ma sappiamo bene chi la sta perdendo: le vittime in carne e ossa, ma anche la civiltà politica di cui ci vantiamo essere culla. Sarà bene chiamarla col suo nome: guerra. Smetterla di pensare che esista una sua versione legale da cui ricavarne una illegale chiamata terrorismo. Che differenza c’è tra chi muore nella metropolitana di una grande città occidentale mentre va al lavoro e chi nella capanna di un piccolo villaggio mentre prepara il pane? Il distinguo semantico, basato sulla diversità tra le sue forme belliche, serve solo a rinsaldare i campi d’appartenenza da quando il diritto internazionale è stato liquidato, da quando la politica si è trasformata in esercizio della forza, da quando c’è chi bombarda in nome di democrazia e libertà e chi assassina in nome di religione ed emancipazione. E sarà bene affermare che in questa guerra globale democrazia e fede sono diventate parole vuote, schermi che celano volontà di dominio, che servono ai G8 per blindare il proprio potere, ai tanti bin laden per i rispettivi affari di famiglia.

Gli attentati di Londra, dopo quelli di New York, di Madrid (ma anche di Bali o di Nairobi) dimostrano che questa guerra non si vince né con la repressione, né con i controlli di polizia: si può pretendere di chiudere a chiave una città - occidentale, africana, orientale - di monitorare minuto per minuto la vita dei suoi abitanti? Non si può. I tanti morti in Iraq, Afghanistan, Palestina, ci dicono che nessuna liberazione può arrivare dal tritolo: si può pretendere di terrorizzare un esercito occupante dotato di tecnologie inarrivabili? Non si può. Alla fine - da una parte e dall’altra - la guerra serve solo a riprodurre se stessa e a dimostrare un’efficienza bellica che si annulla reciprocamente: è produzione di morte per mezzo di morte.

Questa guerra non la vincerà nessuno: chi lo promette - qualunque lingua parli - fa solo propaganda, pure scadente. Gioca sulla paura, sull’affidarsi delle potenziali vittime. Imbroglia, senza sapere dove lo porterà l’avvitamento della spirale che ha messo in moto, perché tutte le guerre sono iniziate per essere brevi e vittoriose, ma sono diventate lunghe e devastanti, anche per i «vincitori».

Chiamiamolo col suo nome questo nostro tempo che può sembrare un viaggio nel lontano passato delle bande mercenarie, quelle che terrorizzavano molto gli inermi, poco le schiere nemiche. Diciamolo pure che siamo in guerra, ma non per arrenderci a una rassegnata paura, arruolandoci tra i propagandisti dell’occidente ferito o tra i vendicatori del sud martoriato. Ammettiamo la realtà di un’era storica terribile, così diversa dalla contemporaneità in cui siamo nati e cresciuti, ma per praticare il più coraggioso dei gesti, la diserzione di fronte al nemico.

http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/08-Luglio-2005/art4.html