Home > Terre americane, poco conosciute
di MARINELLA CORREGGIA
Nel suo piccolo, Elliott Coleman del Maine ha fatto lo scudo umano; non in Iraq ma vicino a casa, interponendosi fra un elicottero che irrorava pesticidi e un’area coltivata a fragole. Il fatto è che l’elicottero, nel suo veloce passaggio, irrorava anche collateralmente le case, gli orti dietro casa e i terreni i cui proprietari avrebbero voluto coltivare biologicamente, impediti dalle somministrazioni aeree forzose. Elliott aveva provato più volte a convincere i suoi colleghi coltivatori che le fragole biologiche hanno un mercato anche migliore. Niente da fare, non si fidavano e così lui si è dato all’azione diretta. Si piazzato nei suoi campi con macchina fotografica e allerta ai giornalisti locali; dopo non molto l’elicottero ha lasciato in pace i terreni «civili». Elliott, che ha raccontato la sua storia in Italia durante l’incontro «Terra madre» (Torino, ottobre), fa parte di quella minoranza di statunitensi che praticano un’altra agricoltura e un’altra alimentazione. Chi ha in mente l’immagine degli Stati uniti come grandi produttori ed esportatori di mais ogm sarà interessato a sapere che in Arizona c’è invece chi coltiva tradizionalmente questo cereale come se praticasse un rito, e riesce a ottenere raccolti su terre dove da sette anni praticamente non piove. Gli indiani Hopi ce la fanno, con un’attenta selezione dei semi - quelli pesanti sono più ricchi di umidità - che piantano molto profondamente, coprendoli di sabbia perché stiano più riparati possibile.
E sempre là, nella patria della monocoltura e della produttività, dove il selvatico sembra confinato ai parchi e alle riserve, prospera la rete dei raccoglitori: che vanno a cercare erbe, piante e frutta selvatiche e commestibili, asportandole con cura per non strappare le radici. Stessa cautela da parte di chi raccoglie cibo dall’acqua: alcune comunità di nativi sulla costa fra Usa e Canada infatti praticano la pesca delle alghe alimentari.
Un’altra storia poco yankee sono gli orti scolastici, come quello della scuola media Martin Luther King a Berkeley, California che propone un modello per trasformare l’educazione, inserendo la coltivazione e la cucina nei programmi scolastici quotidiani: «Curiosità, sviluppo umano, valori umanitari possono sostituire la standardizzazione e l’uniformità sui banchi di scuola. Con il lavoro negli orti, mente e corpo dei ragazzi sono risvegliati ai valori essenziali del nutrirsi, del fare comunità, del contatto con la terra». Questo programma - illustrato nel sito www.edibleschoolyard.org - può partire dalle scuole materne e arrivare all’università. Del resto negli Usa da decenni lavora la rete American Community Gardening Association (Acga) che collega sostenitori e praticanti dell’orticoltura comunitaria tanto nelle città quanto nelle campagne; così si promuovono l’autogestione, lo sviluppo comunitario, la salute, l’alimentazione e l’economia familiare.
Degli Usa si conoscono gli enormi parchi che ospitano animali selvatici, e d’altra parte gli immensi pascoli e gli enormi allevamenti. Molto meno si sa dei «santuari» che accolgono, lascianoli vivere finché il destino decide, animali nient’affatto rari: appunto maiali, polli, vitelli, oche sottratti agli allevamenti intensivi, caduti dai camion durante i trasporti, risparmiati da acquirenti pentiti, riscattati da situazioni abusive ecc. In un paesino del Maryland, in una squallida pianura devastata dalla «monocoltura dei polli», esiste da anni l’Eastern Shore Sanctuary and Education centre (www.bravebirds.org), rifugio di polli broiler (è così chiamata la varietà che viene fatta alla piastra), galline ovaiole, oche, galli addestrati per il combattimento. Due donne, un’insegnante e una scrittrice, accolgono centinaia di «rifugiati» ma anche ad attività di informazione e comunicazione «per una riforma dell’agricoltura e della dieta»; e sono impegnate anche nell’assistenza ai bambini della comunità afroamericana.
http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/16-Novembre-2004/art85.html




