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Toni Negri favorevole al progetto liberista

Publie le martedì 31 maggio 2005 par Open-Publishing

di Salvatore Cannavò

Con il suo "Sì" alla Costituzione europea - annunciato in un’intervista al quotidiano francese Libération - Toni Negri approda a una conclusione politica, a nostro giudizio errata, che applica conseguentemente l’impianto analitico dell’Impero, il libro scritto nel 2001 insieme a Michael Hardt, nel quale è contenuta un’analisi certamente suggestiva, ma che mostra, anche in questa conclusione, le sue inadeguatezze e i suoi limiti.

Il ragionamento di Negri può sembrare pragmatico e concreto, perlomeno così è stato salutato dall’intellighenzia progressista francese che teme la vittoria del No al referendum del prossimo 29 maggio. E del resto, nell’intervista citata, lo stesso Negri si definisce, con un ossimoro audace, un «rivoluzionario realista». Tale realismo è dettato dalla volontà di impedire che, con la bocciatura della Costituzione europea, possano prevalere le ragioni, e gli interessi, dell’Impero, inteso come la «nuova società capitalistica mondializzata». «L’Europa, spiega Negri, può essere un freno contro il pensiero unico dell’unilateralismo economico: capitalista, conservatore, reazionario. Ma l’Europa può anche erigersi in contropotere contro l’unilaterialismo americano, la sua dominazione imperiale, la sua crociata in Iraq per dominare il petrolio». Questo freno, per Negri, non può essere assolutamente quella «merda di Stato-Nazione destinato a scomparire». L’Europa è invece lo spazio politico in cui far sparire lo stato e poco male se la Costituzione oggi non sia portatrice di un modello alternativo di società - Negri questo lo ammette - e in fondo propugni una visione liberale e liberista dell’organizzazione sociale e, in prospettiva, statuale su scala europea. «Non è questo il punto» è la risposta, perché la Costituzione rappresenta uno strumento, «un passaggio» per arrivare a una statualità sovranazionale, «una nuova tappa verso un di più di federalismo, anche se la Costituzione stessa non è abbastanza federalista». Uno strumento, dunque, e non altro: «Bisogna essere degli imbecilli, continua Negri, per credere che si possa costruire l’uguaglianza a partire da una Costituzione». Il punto, spiega, è la dinamica che si mette in moto e se la Francia boccia la Costituzione europea è l’intero edificio che crolla, lasciando allo stato nazionale l’unica funzione di contrastare l’Impero. Se vince il No è il ritorno al medioevo, se vince il Sì è la possibilità di mettere a confronto due modelli: «l’europeo e l’americano».

Chi si batte per il No è quindi rappresentato come un conservatore e un oscurantista, mentre la battaglia per il Sì è rivoluzionaria, anzi «realisticamente rivoluzionaria».

Non c’è dubbio che la vittoria del Sì al referendum francese costituirebbe una spinta innegabile al progetto di unificazione europea per come lo abbiamo conosciuto da Maastricht in avanti, ma anche da prima. Un progetto di edificazione - lento, contraddittorio, per nulla scontato - di una soggettività sovranazionale, strumento più funzionale per navigare nella moderna globalizzazione e quindi, anche per rappresentare un contrappeso politico, economico (militare) allo strapotere degli Usa.

Ma se è così l’analisi dell’Impero non funziona più o perlomeno è difettosa.

L’Impero poggia sull’ipotesi fondamentale che il pianeta sia "governato" da una rete di potere multinazionale indifferente agli spazi istituzionali preesistenti, siano questi lo Stato o l’organizzazione delle Nazioni unite. A dominare il mondo è una struttura sovrana che si serve di nuove istituzioni, il Wto o il Fmi - ma anche di nessuna di queste - e non serve contrapporgli una statualità, la Nazione, in via di superamento. L’unico soggetto che può operare una contrapposizione efficace è la moltitudine, i diversi soggetti politici e sociali capaci di percepirsi come un insieme composito e differenziato in grado di «esodare» dall’Impero, di fuoriuscire dalle sue leggi e dalle sue regole, di disobbedire, e di costruire una società «altra».

Solo che Negri non vedeva le contraddizioni. E’ vero che il mondo è sempre più attraversato da una fitta rete di intrecci economici e finanziari che lo collegano indissolubilmente in un’entità unitaria, ma questa realtà esprime ancora una tendenza, un’ipotesi in corso dentro la quale convivono altre tendenze, spesso di varia natura. La guerra in Iraq, ad esempio, ha dimostrato i limiti di un’analisi che immaginava le strutture di comando del pianeta come unite fra loro e indifferenziate. In questa guerra, gli Usa hanno attivato i tradizionali meccanismi del loro imperialismo: cura degli interessi del proprio capitale; complesso militare al servizio dell’economia; dominio assoluto su un territorio (con tanto di attivazione di una "resistenza" interna); recupero di un apparato ideologico capace di servirsi dello "scontro di civiltà" come collante dell’impresa imperialistica. Questa offensiva ha spiazzato l’Europa, soprattutto il suo asse franco-tedesco, mettendone in evidenza gli interessi divergenti da quelli statunitensi e riproponendo una dinamica di «contraddizioni interimperialistiche» - per quanto spurie e inserite in una tendenza alla globalizzazione che, non a caso, divide la stessa Europa - che un’analisi frettolosa vedeva totalmente superate.

L’analisi di Negri ha tentato di recuperare adottando una nuova categoria, più dubbia della precedente: il «golpe» americano dentro l’Impero. Il ripiegamento di Washington sui propri interessi nazionali come un "colpo di stato" dentro le leggi che regolavano la società capitalistica mondializzata. Un’ipotesi per mantenere in vita l’impianto originario che, però, improvvisamente acquistava una positività inaspettata (e infatti totalmente incompresa dai soggetti di movimento).

In realtà, si trattava di un recupero tardivo e inefficace, tant’è che oggi Negri è costretto a ripiegare ancora puntando su una polarizzazione che sfalda completamente l’assunto iniziale. L’Europa, infatti, che doveva essere una componente dell’Impero diventa oggi un «possibile freno» allo strapotere dell’Impero stesso. Così questo, di fatto, viene ridotto solo agli Stati Uniti relativizzando - «non è questo il punto» - la natura capitalista del progetto di Costituzione europea. In questo modo si rimuove il fatto che, nella realtà attuale, l’approvazione della Costituzione europea certamente creerebbe un contrappeso al potere Usa ma solo perché sancirebbe il successo di un progetto liberista che sta molto a cuore al capitalismo europeista - all’asse franco-tedesco come a quello spagnolo di Zapatero o a quello italiano di Prodi - la cui qualità non è necessariamente migliore (si pensi alla Bolkestein, alla direttiva sull’orario di lavoro, alle politiche sul fronte dei migranti o, anche, alle aspirazioni per un esercito europeo).

Da questa parte si finisce per cadere in una rete già tesa al movimento operaio del novecento, e in cui questo è caduto spesso, quella che porta ad appoggiare il capitalismo più progressista - perché «permette di agire in una dimensione più avanzata» - salvo poi accorgersi, sempre troppo tardi, che nel frattempo le istanze del movimento operaio vengono sacrificate agli interessi del soggetto più forte. Questa è la partita che si sta giocando in Europa e non è affatto vero che per il movimento operaio sia meglio una vittoria del capitalismo europeo contro quello statunitense, perché oggi il movimento operaio, dopo le esperienze del movimento "altermondialista", dei forum sociali, delle reti sovranazionali costruite, sarebbe in grado di rappresentare esso stesso un’alternativa a entrambi anche sul piano internazionale, senza dover immaginare necessariamente un rigurgito nazionalista. La vittoria del No in Francia non rappresenterebbe nessun ritorno a chissà quale medioevo, ma solo la possibilità, l’unica, di riaprire un processo. Un processo al cui fondo ci sia l’affermazione di una statualità sovranazionale ma solidale, pacifica, egualitaria. Se a Negri non piace la parola socialista, la metta pure da parte. Ma non ci rappresenti come dei conservatori, perché alla fine del suo tragitto analitico il più conservatore finisce per essere lui.