Home > Tre mesi di governo. E dopo?

Tre mesi di governo. E dopo?

Publie le venerdì 4 agosto 2006 par Open-Publishing

Politica. Un bilancio dell’attività dell’esecutivo Prodi. L’analisi dei punti più critici e alcuni interrogativi sul futuro

di Angelo Notarnicola

Sono passati tre mesi. Un periodo sufficientemente lungo per trarre un primo bilancio dell’attività del nuovo governo Prodi. Il risultato non è certo lusinghiero. Le cose fatte fino ad ora non sono molte. E tra queste alcune brillano. Altre no.

L’esecutivo parte bene. Il ministro dell’Istruzione pubblica, Giuseppe Fioroni, con un provvedimento ad hoc blocca definitivamente la sperimentazione degli otto licei morattiani(classico, scientifico, delle scienze umane, tecnologico, musicale, artistico, economico, linguistico)che sarebbe dovuta partire a settembre. Un ottimo intervento, apprezzato da tutte le forze della coalizione. E’ un segnale di speranza per il futuro.

Il secondo atto lo compie in sede europea il ministro dell’Università e della Ricerca. Fabio Mussi ritira la firma dalla dichiarazione etica, che l’Italia nella precedente legislatura ha firmato con altri paesi dando forma alla cosiddetta "minoranza di blocco". Questa sostanzialmente impedisce agli stati europei, in cui c’è libertà di ricerca sulle cellule embrionali staminali, di ricevere i finanziamenti necessari dall’Unione. La decisione del leader del Correntone Ds scatena i primi forti dissapori all’interno de L’Ulivo. Molti nella Margherita disapprovano il metodo utilizzato nell’azione politica. Seguono settimane di dibattito in vista del Consiglio europeo di fine luglio, sede in cui si decide sui finanziamenti per questo settore di ricerca nell’ambito del VII programma quadro. Alla fine si raggiunge un compromesso, definito in una mozione che passa a maggioranza in entrambi i rami del Parlamento. Questo accordo resta, ad oggi, la più alta prova di maturità e responsabilità politica offerta dalla coalizione.

Il terzo atto del governo è il pacchetto Bersani sulle liberalizzazioni. Salutato dai sindacati e da prestigiosi economisti, in primis il governatore della Banca d’Italia, come uno strumento di crescita e di sviluppo necessario al Paese, il decreto si scontra prima con la protesta feroce degli autisti di taxi e dopo con quella di tutte le altre corporazioni colpite. Nelle finalità il provvedimento è ottimo. Ma il metodo utilizzato nella formulazione del testo originario è criticabile. Il dialogo con i soggetti coinvolti dal provvedimento si dovrebbe fa prima della stesura del testo. Nessuno è più disponibile ad accettare passivamente diktat dall’alto. Si perde consenso, cedendo successivamente alle richieste delle corporazioni. Il governo dà all’opinione pubblica un’immagine di debolezza. Tanto duro prima, quanto molle dopo. Il ddl Bersani, aldilà del contenuto apprezzabile, rappresenta un passo falso nel metodo.

Il penultimo atto dell’esecutivo è la richiesta di fiducia sul ddl di rifinanziamento delle missioni militari italiane all’estero. Sul testo iniziale si scatena la critica della sinistra radicale, capeggiata da Rifondazione comunista. Il ministro degli Esteri, Massimo D’Alema, e quello della Difesa, Arturo Parisi, accettano il dialogo. Si apre una lunga negoziazione, un’opera di mediazione che porta ad un’effettiva discontinuità con la politica del centrodestra grazie anche alla formulazione di una mozione di indirizzo che impegna l’Italia a intervenire politicamente per promuovere un processo di Pace internazionale. Il protagonismo di Rifondazione comunista nel compromesso raggiunto con le altre forze de L’Unione e con i due dicasteri fa saltare la mosca al naso di Oliviero Diliberto. Il Pdci inizia così l’ostruzionismo. Chiede un’impossibile exit strategy. Ma allo stesso tempo, nel chiuso delle riunioni, i suoi uomini dichiarano che, anche di fronte alla bocciatura di tutti i loro emendamenti, il Pdci voterebbe favorevolmente il ddl. Il comportamento dei Comunisti italiani innesca una deriva inizialmente inimmaginabile. Insorgono le minoranze di Rifondazione. Luigi Malabarba e Claudio Grassi portano L’Unione e il proprio partito fino al limite massimo consentito. Impongono il voto di fiducia. In politica estera, emergono nel centrosinistra fratture culturali profonde. La difficoltà di poter reggere per cinque anni con la stessa maggioranza diventa per la prima volta tangibile.

Infine, l’indulto. Di male in peggio. L’immagine di un ministro della Repubblica, Antonio Di Pietro, che scende in piazza per protestare contro il ddl firmato dal suo collega di governo, Clemente Mastella, è quanto di peggio ci possa essere. L’intera comunicazione pubblica si incentra sullo scontro tra il giustizialista e l’iper-garantista. Nel tritacarne mediatico entra anche Rifondazione comunista che, votando la bocciatura all’emendamento sul voto di scambio mafioso, da alcuni è accostata indebitamente a Forza Italia. Gli italiani oggi - come dimostrano numerosi sondaggi - sono in maggioranza convinti che il voto dei partiti sull’indulto è strumentale a coprire gli interessi di pochi. Definire pessimo il risultato d’immagine pubblica raggiunto non è un azzardo.

Una luce arriva dalla politica estera. In pochi mesi, l’Italia passa da cenerentola dello scacchiere geopolitico internazionale a interlocutore privilegiato delle forze in guerra in Medio Oriente. La politica dell’equidistanza per il momento paga. L’Iran e i palestinesi considerano il nostro Paese affidabile. Allo stesso modo, seppure con più distinguo, otteniamo il rispetto - ma davvero nulla di più - degli Stati Uniti. Massimo D’Alema e Romano Prodi, fino ad oggi, si sono mostrati due abili interpreti della crisi medio orientale. La Conferenza internazionale di Roma, pur non riuscendo a segnare una tregua tra le forze in campo, lo testimonia.

Tra molte ombre e poche luci, il governo Prodi resiste. Anche se c’è già chi scommette sulla sua caduta prima della fine dell’autunno. L’esecutivo soffre costantemente di instabilità, di approssimazione. Perché? I punti di crisi della coalizione sono tanti. Il primo è nell’assenza di una netta distinzione tra affari di partito e di governo. La sovrapposizione delle due dimensioni è foriera di tensioni altissime tra le forze politiche e inficia inevitabilmente la qualità del lavoro svolto dall’esecutivo.

I fronti aperti nella coalizione sono sostanzialmente tre. Il più importante e allo stesso tempo il più pericoloso per la tenuta dell’esecutivo è la lotta tra Ds e Margherita per l’egemonia del futuro Partito democratico. Il motore riformista auspicato si sta lentamente trasformando in una pericolosa centrifuga tritura tutto. Il nodo politico su cui il dibattito si incaglia è l’appartenenza europea del nuovo soggetto. In realtà i Ds temono l’assoggettamento culturale, finanziario e politico. Dietro la Margherita, infatti, si muove una galassia di soggetti imprenditoriali e finanziari pronti a mettere le mani su tutto ciò che i Democratici di sinistra rappresentano. Non solo politicamente. La scalata di Unipol a Bnl serviva probabilmente a mettere un freno a questa possibilità, a creare un polo alternativo. Per proporsi come interlocutori alla pari con i "poteri forti". Fallito quel tentativo, ricacciati indietro dal Capitale, è comprensibile che i Ds temano lo smantellamento in un soggetto che non abbia alcuna radice culturale e politica nell’Internazionale socialista. Per alcuni l’appartenenza al socialismo europeo è un ancoraggio necessario, per altri come la minoranza è una questione di vita o di morte. Romano Prodi, più del testardo Parisi e dell’ambizioso Rutelli, lo dovrebbe comprendere. Tentare di piegare con la forza D’Alema o con il raggiro Fassino è solo controproducente. Le parti si irrigidiscono e il governo inevitabilmente rischia di cadere. A questo punto, per non negare il cammino fatto fino ad oggi, Marini e D’Alema sembrano propendere per una via d’uscita: la Federazione.

Il secondo fronte aperto nella coalizione è tra il Prc e il Pdci. Anche qui si confrontano due culture differenti - contrariamente a quanto lascerebbe pensare l’identico richiamo al comunismo - con molti conti in sospeso ereditati dal recente passato. Oliviero Diliberto è rimasto fuori dal governo pronto ad approfittare di ogni mediazione fatta da Rifondazione per ottemperare al suo impegno di lealtà a Prodi e al governo. Il comportamento del segretario del Pdci apre una campagna elettorale permanente che inevitabilmente coinvolge l’attività dell’esecutivo. Il caso più eclatante si ha in occasione del voto alla missione in Afghanistan. Ma il punto più alto del conflitto si raggiunge con il voto sull’indulto. Gennaro Migliore e il segretario del Pdci hanno in Aula un duro alterco. Alla decisione di astenersi dal voto dei Comunisti italiani, il capogruppo alla Camera del Prc definisce Diliberto "stalinista" e "giustizialista". E quest’ultimo gli risponde provocatoriamente: "Io potrò ancora andare a Locri".

Il terzo fronte - meno preoccupante per le dimensioni dei partiti in lotta, ma più rischioso per la personalità intransigente di uno dei due personaggi coinvolti - è aperto dallo scontro tra Antonio Di Pietro e Clemente Mastella. Il primo rimprovera al secondo il ddl sull’indulto. Quest’ultimo a sua volta gli critica un giustizialismo che ha poco o nulla a che fare con la dimensione della politica in una democrazia. Sull’indulto, Di Pietro si spinge molto avanti. Frasi come "L’Unione ha venduto la propria dignità" lasciano il segno sia in chi le pronuncia, sia in chi ne è il destinatario. In questo momento, mentre scrivo, è in corso un nuovo contrasto tra i due in materia di intercettazioni telefoniche. Il ddl presentato al Cdm dal Guardasigilli è contestato in più punti dall’ex Pm di Mani pulite.

Questi conflitti non fanno che aumentare la complessità dei problemi oggettivi che L’Unione ha, in particolare al Senato dove la maggioranza - escludendo i senatori a vita e Pallaro - è di un solo senatore. Ad oggi, ogni provvedimento è passato con la fiducia. Fino a quando potrà durare? In autunno si vota la Finanziaria. Per tre mesi il Parlamento sarà quasi interamente concentrato sulla discussione, correzione e votazione del testo di legge più importante dell’anno. Le imboscate del centrodestra, soprattutto al Senato, saranno all’ordine del giorno. Come si fa ad uscire da questo empasse senza consentire a Silvio Berlusconi di salire nuovamente a Palazzo Chigi?

http://www.aprileonline.info/articolo.asp?ID=11718&numero=’215’