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Tremonti rassicura, ma "il cavallo non beve" ...
Publie le martedì 21 aprile 2009 par Open-Publishing7 commenti

L’erogazione di prestiti da parte delle maggiori banche americane è scesa ancora più pesantemente di quel che si credeva, nonostante le generose iniezioni di liquidità da parte del Tesoro Usa e della Federal Reserve. Lo rivela un’analisi del Wall Street Journal sui dati dello stesso dipartimento del Tesoro.
I principali istituti di credito che hanno beneficiato di aiuti pubblici, a febbraio hanno concesso il 23% di finanziamenti in meno rispetto a ottobre, il mese in cui il Tesoro avviò gli interventi di sostegno alle banche attraverso il Troubled Asset Relief Program (Tarp).
Questa è la risposta in tempo reale alle rassicurazioni di Tremonti. Secondo l’espressione coniata dallo scomparso Guido Carli quando fu governatore della Banca d’Italia, “il cavallo non beve”. Ammesso che sia davvero alle nostre spalle la fase più acuta dei dissesti bancari, il credito langue perché non c’è domanda di finanziamenti dall’economia reale.
Questo dato americano è la conferma che l’epicentro della crisi si è spostato appunto dal lato della domanda. Finché non cambiano i dati fondamentali sul mercato del lavoro, il potere d’acquisto e i consumi, non ne saremo davvero usciti.
Federico Rampini
http://rampini.blogautore.repubblica.it/2009/04/20/tremonti-rassicura-ma-il-cavallo-non-beve/
20.04.2009
Messaggi
1. Tremonti rassicura, ma "il cavallo non beve" ..., 21 aprile 2009, 09:19, di e = mc2
Illuminante l’immagine contadina, ma occorre spiegarla ai più, nati in città che si intendono di tante novità finanziarie (derivati et similia) ma non delle leggi della natura e dell’economia, condizionate, queste ultime in particolare, dai comportamenti umani, difficilmente indirizzabili verso libagioni non desiderate.
Il contadino fischia rivolto all’asino o al cavallo quando vuol invitarli ad abbeverarsi alla fonte, ma inutilmente se gli animali non hanno sete.
E’ inutile il fischio che scende dai ...monti, il cavallo non può bere finchè... " non cambiano i dati fondamentali sul mercato del lavoro, il potere d’acquisto ..." ecc...
1. Tremonti rassicura, ma "il cavallo non beve" ..., 21 aprile 2009, 15:11
domenica 19 aprile 2009
Quanto durerà la recessione?
Se qualcuno, attratto dal titolo un po’ intrigante, pensasse di trovare in questa e nelle successive puntate del Diario della crisi finanziaria una risposta puntuale all’interrogativo che angoscia governi, banche centrali e parti sociali di tutto il mondo farebbe bene a non proseguire nella lettura, perché su questo, come su tanti altri argomenti, non fornirò altro che valutazioni a partire da quel po’ che so della finanza e dell’economia a livello globale, dalle mie esperienze professionali e dalla mia volontaria esperienza di tenutario del giornale di bordo della flotta del genere umano ampiamente squassata dagli alti marosi di una tempesta perfetta che non accenna a scemare di intensità da quando, il 9 agosto del 2007, ha preso il suo via a causa di un davvero inedito blocco della liquidità sul mercato interbancario.
Accingendomi all’impresa di fornire comunque qualche indicazione temporale, utilizzerò come riferimento metodologico quello che ho capito dell’approccio seguito dal mai troppo compianto John Maynard Keynes, forse l’unico essere senziente ad aver tratto qualche insegnamento da quell’immenso processo di distruzione di ricchezza che fu la Grande Depressione, una fase di durata nettamente superiore ai dieci anni e che venne, al di là di alcune meritorie intuizioni personali di qualche uomo politico, gestita in un modo davvero dissennato e che produsse danni certamente superiori a quelli che le vere cause del crollo borsistico dell’ottobre del 1929 e l’ignoranza quasi assoluta della componente psicologica nell’agire economico avrebbero prodotte senza alcun intervento esterno!
Scusandomi in anticipo per la lunghezza delle premesse metodologiche, mi vedo costretto a chiarire il senso della da me più volte ripetuta affermazione sull’utilizzo come stelle polari nell’orientarmi nella tempesta perfetta di due persone così diverse tra loro per storia, cultura ed esperienze professionali quali Warren Buffett, classico esempio di self made man americano che, a differenza di molti neomiliardari, non ha perso la determinazione, la sagacia e il buon senso iniziali, e George Soros, una persona di assoluto successo nella previsione dei fenomeni economici, ma che la psicologia dell’investitore medio la apprese alla durissima scuola delle persecuzioni razziali in Europa nel suo paese d’origine occupato dai nazisti, una scelta che confermo, anche se la ho allargata di recente ad un gruppo più ampio di persone che attorno a loro si è aggregata in questi mesi e che ha deciso di puntare sul giovane senatore dello Stato dell’Illinois, Barack Obama, come l’uomo in grado di consentire un radicale processo di ristrutturazione dell’economia e della finanza a stelle e strisce, presupposto indispensabile per giungere ad una risposta coordinata dei maggiori paesi industrializzati alle cause profonde che ci hanno portati a questo disastro (un gruppo che ho descritto nelle diverse puntate dedicate a quello che ho definito il patto ‘segreto’ da loro stretto con Obama nella fase più calda delle primarie del partito democratico).
Credo non sfugga ad alcuno di quanti seguono con un sufficiente grado di attenzione l’evoluzione della crisi finanziaria e della dolorosa recessione economica da questa indotta l’assoluta insensatezza delle politiche seguite dai governi dei paesi maggiormente industrializzati, così come dal sistema della riserva federale e dalle altre banche centrali, nel periodo che va dall’avvio della tempesta perfetta a quello spartiacque della stessa rappresentato dalla decisione di lasciare fallire Lehman Brothers a metà del mese di settembre del 2008, una scelta quest’ultima che sarà certamente studiata quando quello che stiamo vivendo sarà finalmente divenuta Storia e che ha determinato una situazione di tale gravità da fare ritenere a persone investite di responsabilità istituzionali a livello sovranazionale che l’intero sistema finanziario globale potesse collassate nel successivo mese di ottobre, ove i governi e le autorità monetarie del G20/G21 non avessero preso le decisioni che vennero poi assunte nel corso del davvero drammatico summit svoltosi in quei giorni.
Non vi è dubbio alcuno che i colossali piani di salvataggio degli interi sistemi finanziari nazionali partorite in quel vertice e confermate successivamente a livello di parte dell’Unione europea, nonché riprodotte nei ripetuti piani del governo giapponese e di quello cinese siano stati fortemente condizionati dalle incaute e in qualche caso folli scelte assunte in precedenza dal trio Bush-Paulson-Bernspan, nonché dalla relativa inerzia dei governi degli altri maggiori paesi avanzati, i quali, a torto o a ragione, ritenevano che gli Stati Uniti d’America avessero la responsabilità di trovare la soluzione del problema, non fosse altro per avere in larghissima misura provocato la tempesta perfetta stessa, un ragionamento che, al netto dell’evidente contenuto di verità, dimostrava una assoluta miopia nei confronti dell’assoluta interconnessione provocata dai concomitanti fenomeni di finanziarizzazione, globalizzazione e deregolamentazione selvaggia ai quali nessuno dei leaders politici europei e asiatici si era realmente opposto!
Come spesso accade, la fretta di trovare una soluzione quale che fosse portò, in quelle davvero drammatiche giornate di ottobre (chissà perché gran parte dei fenomeni destinati a sconvolgere questo pianeta si addensano in questo mese?) dell’anno scorso, pur evitando il rischio del collasso immediato del sistema finanziario globale, hanno da un lato favorito l’acuirsi del contagio della crisi alla cosiddetta economia reale, ma, dall’altro, hanno lasciato scoperti un gran numero di sistemi creditizi e finanziari di numerosi paesi da poco membri dell’Unione europea o candidati a entrarvi, nonché di numerosissimi paesi dell’Asia, della totalità dei paesi africani e di quelli dell’America Centrale e Meridionale, un palmare esempio di coperta corta cui si è cercato di mettere una pezza nei successivi summit con impegni più o meno esigibili e con un maxi finanziamento, in parte effettivo e in maggior misura da realizzare, delle scarse risorse del Fondo Monetario Internazionale, definitivamente assurto al ruolo di prestatore di ultima istanza di quella parte del mondo dichiaratamente incapace di provvedere da sé. Ed è proprio da queste contraddizioni che prenderò le mosse domani per affrontare l’interrogativo riportato nel titolo.
Molto prima dell’ingresso ufficiale del presidente eletto alla Casa Bianca, non voglio giungere a dire prima ancora che Barack Obama venisse eletto, il cosiddetto Dream Team, un gruppo di lobbisti di lusso convinti dell’assoluta necessità di agire in prima persona e non, come è sempre accaduto in passato, per interposta persona, ha sviluppato una sorta di road map che, come spesso accade in questi casi, partiva da un agognato punto di arrivo, la fine, cioè, della tempesta perfetta e l’uscita dalla fase recessiva, per procedere a ritroso con le principali tappe di avvicinamento all’obiettivo precedentemente individuato.
Mettete insieme il meglio dell’imprenditoria in campo informatico, manifatturieri, finanziario e assicurativo, miscelate con quanto di meglio vi è nel campo delle pubbliche relazioni, della comunicazione di massa e del marketing, aggiungete le migliori teste d’uovo in materia di politica interna e internazionale, scuotete un po’ come si fa per preparare un buon cocktail e avrete così un’idea di quel gruppo di volenterosi alquanto disperati dall’allora stato di cose presenti che si è sottoposto al fuoco di fila dei flashes dei fotografi chiamati a immortalare quanto di meglio era in grado di offrire l’America per uscire più o meno brillantemente dal peggior incubo per chi crede nelle magiche e progressive sorti del libero mercato: una recessione di durata indeterminata e tale da minare alle sua basi il modello americano!
Come ho più volte ricordato, le vere cause della tempesta perfetta affondano nel sogno non del tutto inconfessato delle società operanti su base multinazionale, se non del tutto globale, di affrancarsi in via forse definitiva dal giogo degli stati nazionali nei quali le loro sedi legale sono ‘rinchiuse’, un sogno efficacemente descritto in un suo recente libro da Jaques Attali, un uomo che sarà pure stato un disastro come banchiere sopranazionale, ma che è certamente uno dei pochi ad avere avuto il coraggio, se non l’ardire, di descrivere quel mix di potere, arroganza e avidità connaturato a queste entità di dimensioni planetarie operanti in campo finanziario, industriale e mercantile, spesso configurantesi come agglomerati che svolgono indistintamente tutte queste attività, entità che Attali immagina dotate di regole proprie, di una propria polizia privata e di propri sistemi di intelligence, pronte, ove fosse necessario, a dotarsi perfino di un proprio esercito.
Una delle caratteristiche distintive di questo modello di società in terra americana è stato il progressivo processo di autonomizzazione dei vertici aziendali dalla proprietà, un processo largamente favorito dall’affermarsi della cosiddetta public company, a loro volta caratterizzate da un azionariato fortemente diffuso esprimentesi in assemblee pronte ad approvare entusiasticamente i progetti di espansione infinita proposti dai top manager e sistemi di compensation & benefit in favore degli stessi legati, almeno in apparenza, alla costante crescita del valore delle azioni e di un sistema di dividendi predeterminato al punto da farli assomigliare più alle cedole obbligazionarie che alla remunerazione variabile propria del capitale di rischio!
Uno sguardo retrospettivo a quanto è accaduto a partire dalla cosiddetta reaganomics evidenzia gli effetti davvero disastrosi di questo modello sugli equilibri preesistenti di governance aziendale con la delega pressoché totale dei poteri alla quasi sempre coincidente figura del Chairman del Board of Directors con quella del Chief Executive Officier, una sorta di novello ‘deus ex machina’, opportunamente contorniato da un Chief Financial Officer e da un Chief Operating Officer, che divengono addirittura due nella potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs, figure a loro volta strapagatissime, ma mai come il condottiero unico aziendale che, come è emerso nelle infuocate audizioni parlamentari svoltesi al Congresso statunitense, sono giunti in alcuni casi ad accumulare nell’arco di qualche decennio fortune stimate in svariati miliardi di dollari, divenendo, almeno in alcuni casi, azionisti di riferimento delle compagnie da essi guidate, anche se si tratta di una fattispecie non particolarmente seguita, in quanto preferivano unire i loro gruzzoli a quelli di altri loro simili, dando vita a quelle ancor più rapaci creature denominate private equity, organismi che non del tutto a caso si sono meritate il nome significativo di locuste.
Ma molto più che della modificazione del rapporto tra azionisti e top manager, è utile dare uno sguardo alle conseguenze di questo processo aziendale sull’economia nel suo complesso e sullo stesso equilibrio ecologico a livello planetario, impatti entrambi caratterizzati da effetti che è quasi eufemistico definire nefasti e che, sotto il profilo del secondo aspetto, ci hanno portato a superare, mi auguro non del tutto irreversibilmente, quei limiti dello sviluppo profeticamente individuati dal compianto fondatore del Club di Roma, l’ingegnere Aurelio Peccei, persona integra e rara figura di imprenditore illuminato che spese l’ultima parte delle sue vita a mettere in guardia l’umanità rispetto al disastro prossimo venturo!
Ho dedicato troppe puntate del Diario della crisi finanziaria alla variante di questo processo che ha riguardato il mondo dell’investment banking e della finanza più o meno strutturata per tornare sull’argomento, se non per dire che quanto è avvenuto negli ultimi venticinque anni nelle Investment Banks e nelle divisioni di Corporate & Investment Banking delle banche più o meno globali è davvero paradigmatico di quanto è avvenuto nell’economia nel suo complesso e che molte delle evoluzioni del modello precedente di governance societaria hanno avuto in queste entità il loro laboratorio creativo, anche se sarebbe più appropriato il termine distruttivo, non fosse altro che per la maggiore rispondenza agli effetti di tali esperimenti.
Una delle maggiori intuizioni del foltissimo Dream Team obamiano, un gruppo formato dai maggiori conoscitori esistenti dei fenomeni che ho cercato di descrivere di sopra, è stata quella di operare sin da subito per concentrare ‘tutto il male del mondo’ sull’ultimo scorcio del 2008 e sull’intero 2009, operando una drammatizzazione dell’immediato strettamente unita a un messaggio il più possibile rassicurante su una pressoché certa ripresa sin dai primi mesi del 2010, ma di questo parlerò più diffusamente nella puntata di domani.
Non intendo assolutamente tediare i miei lettori sulle diverse tecnicalità seguite in questa vera e propria campagna mediatica che ha visto mobilitate intere legioni di commentatori, analisti ed economisti una volta tanto felici di essere embedded a una operazione mossa dall’intento di dare speranza a chi l’aveva del tutto persa, un’operazione che potrebbe anche funzionare, non fosse altro che per le ingentissime risorse messe in campo da governo e sistema della riserva federale, nonché dalla composizione del tutto bipartisan dello stesso Dream Team, ma, come purtroppo spesso accade, tra il dire dei nuovi soloni e il fare dei singoli operatori dell’economia e della finanza, vi è, purtroppo per i volenterosi sognatori, il mare tuttora procelloso spazzato dai venti che accompagnano la tempesta perfetta in servizio permanente effettivo da più di venti mesi, un’avversità meteorologica che non ha voluto saperne di piegarsi, tra la fine del 2008 e i primi mesi del 2009, ai voleri di Obama e dei suoi più stretti consiglieri!
I dettagli della coda del diavolo frapposta dalla dura realtà economica e finanziaria nei cinque mesi e mezzo seguiti all’elezione di Obama hanno occupato pressoché integralmente le 160 puntate del Diario della crisi finanziaria pubblicate dal 5 novembre in poi, il che rende inutile che mi soffermi sui dettagli, ma, riprendendo quanto detto martedì in un lungo e appassionato discorso dedicato alle prospettive economiche dallo stesso presidente degli Stati uniti d’America, se vorrà costruire sulla roccia l’apparato finanziario e industriale del domani, dovrà prima spalare le innumerevoli tonnellate di carta straccia sulle quali sono assise le banche e le altre entità protagoniste del mercato finanziario statunitense e, purtroppo, una parte assolutamente non marginale delle stessa apparato industriale, nonché il vastissimo settore dei servizi.
Non è, tuttavia, possibile passare sotto silenzio i rischi che le stesse soluzioni prospettate dal nuovo ministro del Tesoro alla questione dello smaltimento dei titoli più o meno tossici della finanza strutturata comportano non solo per i contribuenti statunitensi, ma per gli stessi equilibri finali a livello sistemico dello stesso settore finanziario che si vuole così apertamente favorire, anche perché l’oramai evidente approccio a blocchi, prima le banche, poi le compagnie di assicurazione, poi gli investitori istituzionali e via discorrendo, presenta un numero di incognite e di possibili lags temporali da rendere tutt’altro che certo il tanto agognato punto di svolta dell’economia reale, una prospettiva sulla quale i più recenti dati congiunturali hanno gettato secchiate d’acqua davvero gelida.
Come è oramai a tutti noto, la maggior parte dei governi, delle banche centrali, nonché le stesse parti sociali dei paesi maggiormente industrializzati, hanno dato credito alla scommessa americana sull’avvio pressoché certo della ripresa sin dall’avvio del 2010, se non addirittura dal quarto trimestre dell’anno in corso, il che significa che dovemmo vedere il sogno trasformarsi in realtà tra poco più di sette mesi, se non addirittura tra meno di cinque mesi, una scommessa che mi permetto sommessamente di definire quantomeno azzardata, non fosse altro che per il perdurante sciopero dagli investimenti che continua a caratterizzare l’aggregato formato da quelli che amo definire investitori/risparmiatori, mentre penso che vi è davvero poco da aspettarsi dagli investitori istituzionali.
L’altro aspetto davvero negletto in quel dell’obanomics che si riesce faticosamente a intuire al momento e rappresentato dal deciso accantonamento di ogni dibattito sulle nuove regole che dovrebbero consentire che quanto è avvenuto non si ripeta, in forma addirittura aggravata, in un futuro prossimo venturo, anche perché è sotto gli occhi di tutti il rinvio sine die di quella riedizione della conferenza di Bretton Woods dalla quale scaturì il nuovo ordine e economico mondiale dollarocentrico, un impegno che nessuno sembra ora voler rispettare!
Stupisce la scarsa attenzione dedicata dai media a quanto sta avvenendo nella maggior parte dei paesi caratterizzati da sistemi creditizi e finanziari non garantiti dai rispettivi governi, segnalo per tutte le originali richieste avanzate dalle autorità ucraine alle banche straniere presenti in quel paese, mentre poco o nulla si sa di quanto sta avvenendo in altri paesi dell’Europa dell’Est, per non parlare della inesistente attenzione dedicata ai paesi minori dell’Asia, dell’Africa, dell’America Centrale dell’America Latina.
Non voglio utilizzare questioni non attinenti legate all’instabilità politica di alcuni di questi paesi, come, a solo titolo di esempio, quanto sta avvenendo in Thailandia in questi giorni, ma quello che è certo è che la brusca frenata allo sviluppo impetuoso dei tassi di crescita del commercio internazionale, a sua volta aspetto non secondario dello sviluppo intenso di paesi di ogni dimensione delle diverse aree del mondo avrà ripercussioni tutt’altro che marginali sullo stesso assetto geopolitico del pianeta, sviluppi al momento soltanto intuibili, ma certamente forieri di conseguenze non del tutto tranquille.
Pur avendo promesso all’inizio di non spingermi in previsioni sulla data di uscita dalla recessione, penso che emerge con chiarezza da quanto scritto in queste tre puntate stia a indicare che penso che la data universalmente desiderata vada spostata di almeno un anno in avanti, un’ipotesi che, ove dovesse realizzarsi, pone una quantità di problemi non solo al di qua e al di là dell’oceano Atlantico, ma a livello assolutamente globale, che è davvero meglio rinviarla a quando avremo un maggior numero di informazioni per analizzarla serenamente.
Marco Sarli
http://diariodellacrisi.blogspot.com/2009/04/quanto-durera-la-recessione-versione.html
2. Tremonti rassicura, ma "il cavallo non beve" ..., 21 aprile 2009, 16:01, di viviana
La Marcegaglia, Tremonti e Berlusconi! Bella Trimurti di ballisti senza faccia né anima! ma credono che siamo tutti cretini!!
Non sarebbe il caso che almeno vietassero di pubblicare i dati del FMI prima di sparare cazzate?
Il Fondo Monetario Internazionale dice che il debito italiano salirà nel 2010 al 121% del pil: 15% in più del 2008.
La crisi è solo all’inizio. Solo un demente cronico può dire che è già finita, e solo una stampa demenziale può mettere queste dichiarazioni folli in prima pagina!
Soltanto a considerare le economie più avanzate la crisi costerà 4000 miliardi di dollari. La stima delle perdite del mercato americano è arrivata a 2.700 miliardi di dollari, dai 2.200 di gennaio e i 1.400 dell’ottobre scorso. Tutti gli analisti sono consci che la crisi vera comincia ora e sarà pesantissima su famiglie, aziende e banche con costi enormi.
Tra Stati Uniti, Europa e Giappone le banche potrebbero vedersi costrette a svalutazioni per 2.810 miliardi di dollari, le assicurazioni per 301 miliardi, le altre istituzioni finanziarie, tra cui gli hedge funds, per 1.283 miliardi. Le azioni prese dai governi risultano al momento del tutto insufficienti.
In Germania il debito si attesterà all’87%, in Giappone al 22, in USA al 98%, in Francia all’80%. Ma noi battiamo tutti nel peggio: il nostro debito pubblico salirà addirittura al 121%, visto anche che i costi finora sostenuti da Tremonti per la stabilizzazione finanziaria sono stati insufficienti, solo lo 09 del Pil.
E in queste condizioni si devono anche sentire i ragli della Marcegaglia che fa l’eco ai ragli di Berlusconi e di Tremonti? Allegria???!! Ma allegria di che?
Montanelli non è mai stato molto ferrato in economia, era un opinionista politico, ma a pubblicare certe affermazioni demenziali sul suo giornale ci avrebbe pensato due volte. Ma questa casta di giornalai che ci ritroviamo non ha più né coscienza né professione e se il re nudo dice che ha un bel vestito, loro diranno tutti che ha un bel vestito.
viviana
2. Tremonti rassicura, ma "il cavallo non beve" ..., 22 aprile 2009, 01:09
Concordo con Viviana che la crisi sia solo all’inizio. La dura realtà è che la bolla immobiliare si è appena appena sgonfiata ma il grande botto ancora non c’è stato e paesi come l’Inghilterra e soprattutto la Spagna stanno tremando perchè potrebbe arrivare da un momento all’altro,le banche di alcuni paesi come l’Italia ancora non hanno dichiarato ufficialmente quanti titoli"tossici" hanno in portafoglio e ricorrono ad artifici contabili per dichiarare utili fittizi, i fondi pensione non hanno ancora contabilizzato le perdite borsistiche(o almeno ne hanno contabilizzate solo in parte) e quando questo avverrà provocherà un disastro soprattutto,ma non solo, in paesi come America ed Inghilterra dove i fondi sono una quota predominante del reddito degli anziani, i debiti pubblici sono praticamente fuori controllo, l’America sta stampando una quantità imprecisata di biglietti verdi che si ostinano a chiamare dollari ma valgono praticamente come quelli del monopoli con imprecisati effetti sull’inflazione ed in tutto questo i cantori dell’ottimismo ci vengono a dire che il problema sono i paesi dell’est. Ma chi vogliono darla a bere? Ma se il Pil dell’Ungheria è la metà di quello della sola città di Roma o di Milano, tutto il pil della Polonia non raggiunge quello di una provincia tedesca ora il problema sarebbero i paesi dell’est?Tutto questo la gente comune lo sa o lo intuisce, come si suol dire, a pelle e stringe i cordoni della impoverita borsa, il danaro non gira ed i ballisti professionisti faranno la figura dei peracottari.
Michele
1. Tremonti rassicura, ma "il cavallo non beve" ..., 22 aprile 2009, 06:57, di carunchio
Michele ed i ballisti professionisti.
Per un periodo dell’attività lavorativa mi sono ritrovato a prestare servizio in Tesoreria di una grande Banca.
Operavamo su migliaia di miliardi al giorno (lire allora) con le altre Banche e con Bankitalia per i P/T olre che sul Mercato interbancario con le varie Oprazioni di Tesoreria per la Liquidità dell’istituto.
Compra-vendita di denaro (lire) anche di 800 mld in unica soluzione e partecipazione ad Aste di Liquidità per 3/4.000 mld, anche.
A lato, oltre l’Ufficio Titoli con il qale si lavorava di concerto anche per l’Asta dei B.O.T. et similia, c’era uno staff di "ballisti" - ogni tanto ci coglievano ma per la legge della Statistica e non altro - i quali, con le loro previsioni ci dicevano che la Borsa può salire, può scendere ovvero può restare uguale negli Indici.
e il bla, bla, bla ... si sprecava.
Io ridevo loro in faccia, quasi, ed andavo avanti con il mio "intuito" professionale, acquisendo, però, ogni notizia utile di carattere politico, economico, finanziario, che girava su Reuter, leggevo la stampa, con le lenti della critica, e cercavo di centrare i comportamenti umani, a venire, con l’esperienza di vita a disposizione.
Ne ho visti non pochi colleghi ed esterni rovinarsi sulla base delle loro previsioni di tendenza allorché ci fu la crisi in Borsa dopo la metà degli anni ’80; io quattro investimenti e quattro guadagni.
Si comperava di tutto, ogni "pezzo di carta" (azione) che arrivava in Borsa era preda di appetiti speculativi, riparti di aggiudicazioni, scene da isterismi senza tenere conto, alla base, della economia reale.
Esperienza entusiasmante per i successi conseguiti senza seguire, oltre la ragionevolezza, le "cassandre" di turno.
2. Tremonti rassicura, ma "il cavallo non beve" ..., 22 aprile 2009, 13:46
La crisi durerà 10 anni
La crisi durerà almeno 10 anni, questo è quanto sostenuto dai ricercatori del Leap ma è anche ciò che abbiamo sempre rappresentato con le nostre disamine, sebbene non facendo previsioni così precise quanto aleatorie. Difatti, abbiamo, sin da subito, messo in evidenza come l’azione degli agenti strategici mondiali sarebbe stata del tutto approssimativa (o appena palliativa e, comunque, mai risolutiva) rispetto alla sostanza del problema. I principali decisori e organi governativi occidentali hanno interpretato in maniera superficiale gli scossoni finanziari di questi mesi e si sono lasciati ingannare dal mondo riflesso nello specchio della loro stessa ideologia.
Detta ideologia, per quanto sempre necessaria alla tenuta sistemica, in fasi di rottura storica contribuisce ad enfatizzare proprio gli aspetti più fenomenici della crisi, dirottando la maggior parte degli interventi in corrispondenza dei “luoghi” (in questo caso parliamo dei mercati) dove essa primieramente si manifesta. Ma appunto, secondo il nostro schema teorico, l’inceppamento dei circuiti e dei meccanismi economico-finanziari è un effetto, anzi il primo effetto, che annunzia cambiamenti palingenetici nella struttura della formazione sociale dei funzionari del capitale di matrice americana.
La finanza ha una importanza decisiva in quanto strumento nelle mani di un certo tipo di agenti capitalistici che, con la loro azione conflittuale nella sfera economica, contribuiscono ad accrescere la dinamicità del sistema. Si tratta di un elemento ineliminabile del capitalismo in quanto rapporto sociale fondantesi sulla produzione in forma di merce e sull’equivalente generale di queste, il necessario duplicato chiamato denaro.
In determinate epoche la finanza può divenire, utilizzando una parola che però è impropria e riduttiva, parassitaria. Ma tale tipo di propensione si accresce di fronte ad una modificazione generale dell’articolazione dei rapporti di forza tra formazioni capitalistiche che compongono lo spettro di detta società (quella dei funzionari privati del capitale), divenendo un ulteriore fattore di perturbazione. Ovverosia, quando è già in atto una trasformazione dei rapporti di forza sottesi ad una data configurazione sistemica tutto ciò che ruota intorno o sopra di essa (in senso logico e non spaziale) smette di funzionare nel giusto verso. Tenete conto, per esempio, che la finanza americana, oggi sotto accusa, per molti anni ha agito generando grande ricchezza, imponendo alle altre finanze mondiali le proprie regole e trasferendo l’energia finanziaria accumulata agli agenti strategici Usa, i quali hanno potuto così convertire tale energia economica in potere politico e in grandi progetti strategici.
Dunque, non è nemmeno sufficiente spostare il centro della questione dagli aspetti meramente fittizi della caduta degli indici di borsa alla cosiddetta economia reale per venire a capo del vero problema (cioè la riconfigurazione degli assetti di potere a livello geopolitico) in quanto, in ogni caso, si resta confinati in una prospettiva del tutto economicistica che non dà ragione delle cause profonde della stessa. L’estrema instabilità economica che, come uno sciame sismico fa tremare la terra in tutte le formazioni sociali capitalistiche, non ha un unico epicentro. Le direttrici del conflitto strategico ci indicano i punti di massima tensione dove la tettonica delle “placche”– cioè lo scontrarsi epocale di quelle formazioni particolari che hanno recuperato o accresciuto la loro potenza rispetto alla formazione prima assolutamente dominante – fomenterà presto una enorme attività sismica. Riprendo queste metafore da un saggio di La Grassa di prossima pubblicazione sul nostro sito con il quale si entra più nel dettaglio circa la natura dei possibili sconvolgimenti futuri. Il fatto che ci sia la crisi dovrebbe quindi farci aprire gli occhi sul periodo di trasformazione politica e sociale nel quale stiamo per entrare. Solo gli sciocchi potrebbero ancora farsi consolare dalla dichiarazioni distensive dei vari Obama e di tutti gli altri governanti mondiali.
Giovanni Petrosillo
http://www.ripensaremarx.splinder.com/post/20376050/LA+CRISI+DURERA%27+10+ANNI+di+G.
22.04.2009
3. Tremonti rassicura, ma "il cavallo non beve" ..., 28 aprile 2009, 16:25
RIPRESA E OTTIMISMO ? C’E’ CHI DICE NO...
Ci mancava solo il timore per una pandemia globale di influenza suina a deprimere ulteriormente le Borse e i mercati, spaventati dal fatto che questa emergenza sanitaria possa rivelarsi un terrificante volano per le incertezze che ancora regnano sovrane rispetto alle cifre e allo stato di salute reale di istituzioni finanziarie e governi.
Già, perché se il Fondo Monetario Internazionale ha detto molto, bisogna ammettere che non ha detto tutto. Ci ha detto, ad esempio, che le perdite totale dovute all’infezione di subprime e assets tossici vari toccheranno i 4mila miliardi di dollari (dopo stime iniziali che parlavano di 300, poi 600, poi timidamente 1000 e via in un crescendo quasi da rabdomante). Bene, ammesso che quella cifra non debba essere ulteriormente rivista al rialzo.
Non ci dice, però, che un fondo speculativo di prim’ordine come Hayman Advisers sta scommettendo proprio in questi giorni - e pesantemente, molto pesantemente - su un’ondata di bancarotte e ristrutturazioni di Stati come non si vedeva dal 1934, quasi tutte concentrate in Europa, il vero fulcro del leverage dissennato e dei conti fuori controllo. A rischio sono quegli Stati che non possono stampare moneta, che non hanno una moneta propria (l’Irlanda in testa, ma anche il disastrato Club Med di cui fa parte anche l’Italia) e l’Europa dell’Est, aree in cui si sono concentrate in massa i prestiti dei paesi dell’eurozona.
Per la divisione studi di Commerzbank, «ogni asta di bond in Europa si sta tramutando in un evento a rischio». D’altronde lo Stato dell’arte globale è sotto gli occhi di tutti, anche se il Fmi tende a nascondere certe cifre scomode. Gli assetti sono cambiati, Cina, Russia, i paesi produttori di petrolio e gli emerging markets asiatici non hanno più - come avevano negli anni della bolla - 1.3 miliardi di dollari di riserve da riciclare in buoni del tesoro Usa o bond europei.
Le banche centrali hanno perso 248 miliardi di reserve scendendo a quota 6.7 trilioni negli ultimi sei mesi. Il Venezuela, da solo, ha visto dimezzare le proprie reserve di un terzo a causa del crollo del prezzo del petrolio. La Cina, poi, ha deciso di investire il suo surplus mensile di 40 miliardi di dollari in infrastrutture interne pesanti - leggi miniere - invece che nell’enorme mercato del debito Usa.
Insomma, qualcuno vorrebbe danzare al ritmo della musica di sempre anche se questa è cambiata trasformandosi da un walzer e un de profundis. A New York si scommette sui default e si punta il dito sul cocktail formato da alto debito pubblico e dalle debolezze ancora da emergere di istituti come Royal Bank of Scotland, Hypo Real e Fortis, sigle che vedono giacere nei propri libri prestiti sovrani di ultima istanza.
Insomma, c’è ben poco da stare allegri. Tanto più che nel silenzio pressoché generale in America ben 20 banche non hanno superato gli stress-test imposti dalla Fed e anche le grandi istituzioni che invece lo hanno fatto non hanno messo a disposizione del pubblico alcuni particolari interessati riguardo reale leva di leverage, contenuto nei book, assets diversificati e - come nel caso di Goldman Sachs - il fatto di aver cambiato regime fiscale essendosi tramutata in banca ordinaria e non più d’affari quindi legittimata a non ascrivere a bilancio le perdite pregresse.
Insomma, occorre tenere gli occhi aperti e informarsi il più possibile attraverso fonti indipendenti. Le migliori sembrano essere gli ex economisti del Fmi, i quali sono diventati tali proprio perché tendevano a non mascherare o imbellettare le cifre e dire la verità. Uno di questi è Ken Rogoff, ex economista del Fondo, secondo il quale siamo alla vigilia di «uno spasmo di default» ciclico, quasi schumpeteriano, dovuto alla perdita totale di fiducia dei detentori di bond: fu così nel 1830, fu così nel 1930. Insomma, per molti analisti non a libro paga di istituzioni statali o finanziarie siamo alla vigilia di una bancarotta globale che cambiare del tutto gli equilibri, come quella di Filippo II di Spagna che spianò la strada al potere finanziario olandese e orangista.
Nessuno però sembra dare troppo credito a questa interpretazione e ancora si eccita con i piani di Obama, le promesse ridicole del G20 o l’euforia isterica della Borsa: attenzione, perché il mondo rischia di trasformarsi in un G2 formato da Usa e Cina e questo duopolio appare pacifico solo per convenienza reciproca nel breve termine. Poi sarà Guerra. Senza esclusione di colpi, da nessuna delle due parti. Ormai, la crisi è geopolitica.
Mauro Bottarelli
http://www.ilsussidiario.net/articolo.aspx?articolo=18425
28.04.2009